inserito in Diritto&Diritti nel marzo 2004

Il “codice di condotta” degli eletti locali e regionali

Angelo Canale, Vice Procuratore Generale della Corte dei conti

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Il 27 febbraio scorso, a Roma, in Campidoglio, si è svolta la conferenza sugli strumenti del Consiglio d’Europa per la lotta alla corruzione e promozione dell’etica pubblica; nella circostanza  il Congresso dei poteri locali e regionali d’Europa ha presentato il “codice di condotta” dei  rappresentanti eletti.

Si tratta di un insieme di regole di condotta , liberamente accettate,  che, nelle buone intenzioni dei proponenti, dovrebbero costituire doveri morali per  i pubblici amministratori.

La realizzazione del “codice”  suggerisce una serie di considerazioni.

La prima considerazione è che la dichiarata consapevolezza dell’esistenza del problema  - ed è un dato che nel preambolo del codice si fa esplicito riferimento al moltiplicarsi degli scandali giudiziari in cui sono implicati responsabili politici - costituisce di per sé un elemento positivo.

La consapevolezza della malattia aiuta a guarirla; negare l’esistenza della malattia contribuisce ad aggravarne gli esiti; allo stesso modo non aiuta ed è anzi una ipocrisia sostenere, come pure taluni fanno, che il problema del malcostume amministrativo affligga sempre e solo l’avversario , ovvero sia enfatizzato da una reazione giudiziaria eccessiva, o ispirata da ragioni di parte.

Il vero è che il problema del degrado dell’etica nella politica c’è, riguarda tutti e riconoscerlo è un deciso passo avanti, che non può non meritare il plauso.

C’è poi da dire che il “codice di condotta” contribuisce alla formazione di una deontologia  dell’eletto e cioè dell’insieme di regole condivise che  costituiscono i doveri morali del rappresentante politico eletto nei confronti degli elettori : anche questo fatto rappresenta un elemento positivo, tenuto conto che è tuttora fortemente radicata l’idea, che va invece  respinta, della distanza addirittura necessaria o della inconciliabilità tra la morale e la politica; sicchè parlare di “deontologia” dell’eletto, o dei doveri morali del rappresentante politico appare una sorta di contraddizione  a chi sostiene, evocando il Machiavelli, che in politica il giudizio morale deve essere sospeso.

In realtà si dovrebbe credere (e professare) che  la buona amministrazione non possa prescindere da principi e valori “etici”, da regole che ancora prima di essere contenute in formali norme precettive devono essere sentite “dentro”, come primari bisogni di pulizia morale, di rispetto degli altri, di tutela del bene pubblico.

Formare o ricostruire una deontologia del rappresentante politico dovrebbe avere, ed è auspicabile che lo abbia,  un effetto positivo sul rapporto di fiducia tra eletti ed elettori e in questa ottica il “codice” è da apprezzare; intendiamoci,  un “codice di condotta” di per sé non accresce la fiducia, ma è un tassello importante di una strategia di conquista e mantenimento della fiducia dei cittadini,  che soprattutto si deve fondare sui fatti concreti, cioè sull’applicazione dei “doveri” contenuti nel codice, sulla possibilità di poter verificare i comportamenti nel concreto assunti dagli amministratori, sulla trasparenza delle condotte.

Il “codice” europeo si muove quindi in una direzione giusta, ma ha un senso solo se inserito in una più complessiva strategia e se accompagnato da fatti “concludenti”; diversamente c’è il rischio che il “codice” resti una vana elencazione di buone intenzione e , si sa, di buone intenzioni sono lastricate certe strade…

Occorre comunque rilevare che la strada dei codici di condotta, in Italia, è stata già indicata, per i dipendenti pubblici, dall’art. 58-bis del decreto legislativo n.29 del 1993 e che qualche anno dopo un Comitato di studio per la prevenzione della corruzione, istituito nel 1996 dal Presidente della Camera dei Deputati,  aveva indicato, tra i rimedi da adottare per contrastare il fenomeno del malcostume amministrativo e per prevenire la corruzione la promozione di codici di comportamento.

In quella circostanza il Comitato   aveva  segnalato al Legislatore la necessità di promuovere per tutti i funzionari pubblici, anche quelli “onorari”, come per l’appunto gli amministratori eletti,  “codici di comportamento” intesi quali strumenti in grado di evitare o risolvere in modo soddisfacente le situazioni di involontaria prossimità alla corruzione.

“Essi – aggiungeva il Comitato - consentendo la diffusione e la condivisione di principi e valori comuni alle relative categorie di personale, rendono i dipendenti meno vulnerabili rispetto alle occasioni di corruzione e tutelano il loro prestigio e l’immagine complessiva dell'amministrazione. Inoltre, rappresentando un impegno collettivo di una categoria di lavoratori tra di loro e nei confronti del pubblico, essi consentono un controllo diffuso sul comportamento degli interessati. Si tratta di strumenti facili da adottare in tempi brevi, i cui effetti si producono soprattutto nel lungo periodo”

            Ma lo stesso Comitato, opportunamente e con senso di realismo, mentre rilevava che gli stessi codici di comportamento previsti per i dipendenti pubblici dal decreto legislativo del 1993 non avevano sortito gli sperati effetti (per una serie di ragioni, che riguardano in primo luogo il tema dei rapporti tra violazione dei codici di comportamento e responsabilità disciplinare), inseriva la “promozione di codici di comportamento” in un quadro articolato e più complesso di rimedi contro la corruzione.

            E tra questi possibili rimedi – il Comitato ne elencava diversi ( dalla semplificazione normativa alla disciplina del finanziamento dell’attività politica, dalla disciplina del conflitto di interessi alla necessità di evitare commistioni tra politica e carriera dei dipendenti pubblici, etc. etc.)  – per l’autore di queste osservazioni (che è magistrato della Corte dei conti) assume particolare significato la confermata necessità di un più efficiente sistema di controlli.

            Di un sistema che sia in grado di prevenire ed impedire il malcostume amministrativo, gli sprechi, gli abusi, le gestioni dissennate,  i comportamenti illeciti e spesso dannosi che seppure non costituiscono reato, di quello sono il necessario “humus”,  cioè il terreno fertile.

            E’ un dato di fatto che il malaffare esige una burocrazia incompetente, inefficiente e priva dell’orgoglio del pubblico servizio; non può fare a meno di controlli scadenti  e superficiali; è soprattutto  grato quando i controlli sono eliminati o ridotti a pura facciata.

            E’ inutile negarlo : negli ultimi decenni le attività di controllo – e bisogna ammettere che non di rado il giudizio negativo è scaturito da un controllo esercitato male -  sono state ritenute incompatibili con i criteri di efficienza e di efficacia dell’azione amministrativa; i controlli, e ovviamente mi riferisco soprattutto ai controlli esterni, sono stati considerati un peso, una zavorra della quale liberarsi in nome del principio del risultato, che si è ritenuto destinato ad oscurare il principio di legalità del quale per antica tradizione giuridica ogni attività amministrativa doveva, e io ancora credo che debba, essere rispettosa; il sistema dei controlli, in particolare a livello locale e regionale, è stato depotenziato proprio quando la proliferazione degli scandali giudiziari esigeva il contrario.

            Intendiamoci, il sistema dei controlli andava riformato – sarebbe assurdo oggi riproporre il rigido schema del controllo di stretta legittimità sui singoli atti – e spostare l’orizzonte del controllo dal processo al prodotto, cioè al risultato, è cosa buona; senza tuttavia perdere di vista la legalità, che non può essere sacrificata ad un risultato da raggiungere ad ogni costo, e senza depotenziare il sistema dei controlli, che  - è bene rammentare – opera nell’interesse della collettività amministrata ed è presidio di democrazia.

            E allora avrebbe un senso molto relativo promuovere codici di condotta, che hanno senso solo se inseriti in un più articolato sistema di rimedi contro il malcostume , e nel contempo  trascurare o, peggio, depotenziare  un importante presidio di democrazia, quale per l’appunto è un sistema di controlli esercitati nell’interesse della collettività amministrata.

            Non sarà allora inutile qui rinnovare l’accorato appello del Procuratore generale della Corte dei conti che in occasione dell’inaugurazione del corrente anno giudiziario della Corte dei conti ha detto :”           In estrema sintesi, conclusivamente, e a scanso di equivoci, dirò che il “controllo” va inteso come strumento di civile garanzia e che va articolato in modi, tempi ed effetti differenziati in relazione al tipo e al livello dell’azione amministrativa cui si rivolge. Dovrà essere, poi, in ogni caso, essenziale, rapido, non vessatorio, anzi con finalità costruttive e quindi tendente a realizzare un momento costruttivo della stessa azione amministrativa: ciò per una migliore gestione della cosa pubblica. A realizzare questo disegno, occorrerà sicuramente una maggiore fiducia tra controllori e controllati. Né saranno inutili aggiustamenti e riforme delle procedure che servano ad assicurare, nel contempo, legalità ed efficienza. In ogni caso, sarà necessario restaurare una generale cultura del controllo e della responsabilità. In questo quadro, la Corte dei conti, come sempre, è pronta a svolgere la parte che la legge le attribuisce o le attribuirà.

             Il procuratore generale, nell’auspicare la restaurazione della cultura del controllo, non a caso ha posto l’accento anche sulla “responsabilità”.

Controllo e responsabilità costituiscono infatti un binomio inscindibile, tanto in termini giuridici, quanto in termini etici e politici (e sotto quest’ultimo profilo quello “politico”, mi sembra che lo stesso “codice” abbia colto perfettamente il senso necessario di tale rapporto, laddove da un lato sottolinea, nelle premesse, le responsabilità degli eletti nei confronti della popolazione e dall’altro  evoca il necessario coinvolgimento della società civile per il ripristino di un clima fiducia, operazione quest’ultima che per forza di cose presuppone che gli elettori, i cittadini siano posti nelle condizioni di verificare l’attività degli eletti).

Per quanto riguarda la “responsabilità” è opportuna una conclusiva riflessione.

Le prescrizioni contenute nel codice di condotta degli eletti, pur se  indirizzate principalmente a contrastare fenomeni di corruzione di rilevanza penale, costituiscono per la maggior parte quelle stesse regole di buona amministrazione, di sana ed oculata gestione la violazione delle quali, nell’ordinamento italiano, ricorrendo gli altri requisiti di legge (in primo luogo il danno erariale) determina l’esercizio dell’azione di responsabilità patrimoniale amministrativa da parte delle procure della Corte dei conti.

Ciò significa per un verso che il rispetto delle regole di buona amministrazione  è ritenuto un efficace presidio nei confronti della corruzione, per altro verso che il perseguimento delle responsabilità amministrative scaturenti dalla violazione delle anzidette regole, pur se principalmente finalizzato al risarcimento di un danno, contrasta nel contempo l’insorgenza delle condizioni delle quali necessariamente si alimenta la corruzione.

Significa anche che la Corte dei conti, giudicando delle responsabilità amministrative dei pubblici amministratori, è chiamata spesso a valutare l’eventuale violazione di quelle stesse regole oggi contenute nel “codice di condotta”; sarà allora opportuno prestare attenzione alle  sentenze della Corte dei conti, dalle quali l’opinione pubblica, se opportunamente informata, potrà trarre elementi di valutazione sui comportamenti nel concreto assunti dai pubblici amministratori.

Credo sia giusto che i cittadini chiamati a scegliere i propri amministratori sappiano se questi, nel passato, si sono distinti per efficienza, ovvero siano stati ritenuti, da un organo che agisce nell’esclusivo interesse della Legge, responsabili di cattiva amministrazione,  oltre tutto in violazione dei principi e delle regole contenute in un “codice di condotta”,  al quale, per tutte le anzidette ragioni, è auspicabile che aderiscano tutti i pubblici amministratori.

 

Angelo Canale