inserito in Diritto&Diritti nel aprile 2003

Brevi osservazioni sulla responsabilita’ dei dipendenti della pa ai sensi dell’art.24, comma 4, l. 27 dicembre 2002 n.289.

di Filippo Cece

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L’art.24 della L. 27 dicembre 2002 n.289 (legge finanziaria per il 2003), in recepimento della disciplina comunitaria, impone alle pubbliche amministrazioni alcune regole restrittive in tema di aggiudicazione di forniture e appalti pubblici di servizi, che superino la soglia dei 50.000 euro, rendendo obbligatorio l’utilizzo di procedure aperte o ristrette.

Al riguardo, la più recente giurisprudenza[1] è intervenuta a specificare come la volontà del legislatore è volta a limitare (e non ad eliminare) l’uso della trattativa privata nei contratti con un valore superiore ai 50.000 euro, fissando criteri in grado di assicurare una maggiore economicità rispetto a quanto previsto dal D.P.R. 20 agosto 2001, n. 384 recante il Regolamento di semplificazione dei procedimenti di spese in economia. Tale limitazione, infatti, lascia intatta la vigenza della soglia di 130.000 euro (200.000 euro per le amministrazioni non ministeriali), che continua ad essere il confine ultimo di utilizzo della trattativa privata in casi eccezionali.

Come emerge dal comma quinto dell’art.24 della legge finanziaria, l’aggiudicazione mediante trattativa privata può invece avvenire, per i contratti aventi un valore superiori alla soglia dei 50.000 euro, “solo in casi eccezionali e motivati, previo esperimento di una documentata indagine di mercato, dandone comunicazione alla sezione regionale della Corte dei conti”.

Il citato art.24 rende, dunque, obbligatorio, per gli altri casi, l’utilizzo di procedure con un carattere più trasparente rispetto alla trattativa privata, quali l’appalto concorso, la licitazione privata e l’asta pubblica, salvo alcuni casi particolari indicati nel comma secondo.

La violazione di tali obblighi da parte del dipendente della PA aggiudicatrice comporta alcune conseguenze significative relativamente al regime di responsabilità.

Sembra profilarsi, per gli agenti della PA, un sistema di responsabilità più rigido che potrebbe ostacolarne l’attività per l’incertezza sulla legittimità e le conseguenze del loro operato.

Il testo dell’art.24, comma 4 cit., sembra intervenire nel rapporto intercorrente tra la PA ed i propri dipendenti, modificando quello che fino ad oggi è stato l’orientamento generale in materia di responsabilità.

Partendo da un’analisi storica,  si osserva come il concetto di responsabilità sia stato per la prima volta introdotto nella Costituzione del 1948, all’art.28, ove si prevede che “I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato ed agli enti pubblici”.

Dal disposto costituzionale, il dipendente della PA sembra dover rispondere patrimonialmente in egual modo nei confronti sia dei privati (responsabilità civile), che della PA (responsabilità amministrativa). In realtà, l’evoluzione normativa e giurisprudenziale ha disegnato un quadro ristretto dei danni imputabili economicamente al dipendente.

Inizialmente, i giuristi interpretavano l’art.28 della Costituzione individuando, nei confronti del soggetto privato, una posizione passiva solidale tra gli agenti, considerati responsabili ai sensi dell’art.2043 c.c. (responsabilità extracontrattuale) e la PA, co-obbligata ex art.2049 c.c. (responsabilità indiretta), in qualità di committente.

 Il dipendente sarebbe stato soggetto in ogni caso all’azione di regresso, in ragione della propria posizione di co-obbligato.

A restringere la posizione debitoria degli agenti è successivamente intervenuto il legislatore, con il D.P.R. 3/1957 Testo Unico delle disposizioni concernenti lo statuto  degli impiegati civili dello Stato, nel quale è stata prevista - Capo II, Titolo II - una disciplina restrittiva della responsabilità di questi nei confronti dei terzi danneggiati.

In particolare l’art.22 -Responsabilità verso terzi- sancisce esplicitamente che “L’impiegato che, nell’esercizio delle attribuzioni ad esso conferite dalle leggi o dai regolamenti, cagioni ad altri un danno ingiusto […] è personalmente obbligato a risarcirlo. L’azione di risarcimento nei suoi confronti può essere esercitata congiuntamente con l’azione diretta nei confronti dell’amministrazione […] ” e l’art. 23 –Danno ingiusto- dispone che “E’ danno ingiusto, agli effetti previsti dall’art.22, quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che l’impiegato abbia commesso per dolo o per colpa grave […]”.

Da tali norme si evince come il legislatore abbia allontanato la responsabilità degli impiegati civili dalle ipotesi di responsabilità extracontrattuale previste dall’art.2043 c.c., cui requisito minimo richiesto è una colpa “semplice”.

Il T.U. richiamato, facendo riferimento ad una colpa “grave”, restringe le fattispecie dannose economicamente imputabili all’impiegato, per cui il terzo ingiustamente danneggiato troverà la tutela diretta dei propri diritti ex art.2043 c.c unicamente nei confronti della  P.A., la quale, solo successivamente e nei casi limitati al dolo e alla colpa grave, potrà soddisfarsi sul proprio impiegato.

 Quest’impostazione “alleggerita” del regime della responsabilità degli impiegati civili dello Stato è stato poi esteso a tutti i dipendenti e funzionari della P.A.

La Corte Costituzionale[2] ha risolto positivamente la questione di legittimità sollevata in merito alla presunta violazione dell’art.28 della Costituzione da parte del DPR 3/57, rafforzando ulteriormente i principi introdotti con il Testo Unico e stabilendo che il legislatore correttamente aveva introdotto le restrizioni sulla responsabilità degli impiegati civili, poiché ad una più attenta analisi della disposizione costituzionale, si poteva osservare come in realtà non ci fossero prescrizioni specifiche riguardo al “tipo di responsabilità”, ben potendo il legislatore compiere scelte diverse in merito, con l’unico limite di non escluderla totalmente.

Il quadro normativo attuale, dunque, circoscrive la responsabilità amministrativa ai casi in cui il danno all’amministrazione sia derivato da una condotta gravemente colposa del dipendente in virtù della violazione di obblighi di servizio.[3]

Nel contesto appena descritto si inserisce il testo di cui al quarto comma dell’art. 24 L. 27 dicembre 2002 n.289, che, prima ancora di nominare la “responsabilità”, sancisce la nullità dei contratti di forniture e appalti pubblici di servizi stipulati dalle amministrazioni attraverso la forma della trattativa privata per un valore superiore ai 50.000 euro o in violazione dell’obbligo di utilizzare le convenzioni quadro predisposte dalla CONSIP.

Successivamente la norma prevede che “Il dipendente che ha sottoscritto il contratto risponde, a titolo personale, delle obbligazioni eventualmente derivanti dai predetti contratti.”

La responsabilità personale del dipendente nascerebbe, dunque, da un contratto nullo. Se il legislatore avesse voluto “salvare” il contratto, avrebbe adottato  una norma differente, ben più vicina a quanto previsto , dall’art.191, recante Regole per l’assunzione di impegni e per l’effettuazione di spese, comma quarto,   D.lgs. 18 agosto 2000, n.267, Testo Unico sugli enti locali  (Capo IV Principi di gestione e controllo), ai sensi del quale “Nel caso in cui vi e' stata l'acquisizione di beni e servizi in violazione dell'obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi dell'articolo 194, comma 1, lettera e), tra il privato fornitore e l'amministratore finanziario o dipendente che hanno consentito la fornitura. Per le esecuzioni reiterate o continuative detto effetto si estende a coloro che hanno reso possibili le singole prestazioni.” Tale norma, infatti, prevede un’obbligazione personale dell’agente della PA, che nasce da un contratto considerato non impegnativo per la PA, ma valido per ciò che riguarda gli effetti.

La legge finanziaria sembra avere, dunque, posto in essere un regime meno oneroso per il dipendente nei confronti del privato, rispetto a quanto previsto per gli amministratori degli enti locali. Tale argomentazione si deduce a contrario dal comma 9 dell’art. 24 della finanziaria, il quale indica come norme di principio e coordinamento per le regioni, i commi 1, 2 e 5, escludendo il comma 4 in materia di responsabilità dei dipendenti. Sembra che il legislatore abbia voluto riconoscere implicitamente l’inderogabilità per le regioni della citata disciplina del T.U. degli enti locali e, dunque, sottendere una differenza tra quest’ultima e quella prevista dalla finanziaria.

Partendo, dunque, dalla suddetta nullità contrattuale, potrebbero tracciarsi i confini del tipo di responsabilità a cui saranno soggetti i dipendenti e i funzionari che trasgrediscono alle regole della legge finanziaria.

La dottrina civilistica prevalente individua nel  contratto nullo, un  atto che non produce effetti giuridici (teoria dell’inqualificazione)[4], ossia un atto che pur materialmente esistente (ad es. in una scrittura sottoscritta), non è tuttavia in grado di essere riconosciuto in alcun modo dall’ordinamento.

Escludendo, dunque, il vincolo delle obbligazioni contrattuali, il legislatore sembrerebbe intendere per “obbligazioni eventualmente derivanti dai predetti contratti”, tutti gli altri adempimenti scaturenti dal comportamento del dipendente sia nei confronti di terzi privati che nei confronti della PA..

In particolare, l’intento della finanziaria sembra volto a garantire maggiormente la PA in merito ai possibili danni economici derivanti dal comportamento del proprio dipendente.

Sembra potersi evincere la volontà di estendere il confine della responsabilità patrimoniale, ben oltre i casi di colpa grave individuati dall’attuale normativa generale.

Nonostante non venga esplicitamente affermato, la responsabilità personale del dipendente per le eventuali obbligazioni scaturite sembra essere stata riportata sui binari di dolo e colpa ex art.2043 c.c., secondo quelle che erano state le prime interpretazioni dell’art.28 della Costituzione.

Alla luce di una simile interpretazione, si può affermare che, in teoria, la posizione debitoria del dipendente nei confronti dei privati è equiparata a quella della PA, nel senso che sembrerebbe dover spettare al terzo eventualmente danneggiato, la scelta su chi eseguire il proprio credito; scelta che verosimilmente ricadrebbe sulla PA in ragione della maggiore solvibilità.

Di conseguenza, il dipendente dovrebbe rispondere patrimonialmente alla PA ogni volta che il privato danneggiato ottenesse da questa un risarcimento e non solamente nella ipotesi di dolo e colpa grave.

In caso di violazione degli obblighi imposti dall’art.24 della finanziaria, si prospetterebbe una duplice ipotesi di responsabilità civile nei confronti dei terzi. Si dovrebbe, infatti, distinguere tra il soggetto contraente che abbia sottoscritto l’accordo stipulato con il dipendente e il terzo pretermesso che abbia subito, a causa della trattativa privata esercitata illegittimamente, una lesione del proprio interesse legittimo di partecipare alla procedura di aggiudicazione secondo le regole di libera concorrenza nel mercato.

Riguardo al rapporto con il contraente sembrerebbe profilarsi una ipotesi di responsabilità pre-contrattuale ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c., che troverebbe il proprio fondamento nella mala fede tenuta dal dipendente durante le trattative contrattuali, per aver posto in essere un contratto contra legem in violazione degli obblighi imposti dalla finanziaria.

Tuttavia tale ipotesi appare alquanto inverosimile, qualora si osservi che la parte privata difficilmente potrà essere in buona fede trattandosi presumibilmente di un esperto  del settore, con alle spalle un’attività e un’esperienza notevoli, ossia un privato ”qualificato” e non un privato qualunque. Tale caratteristica comporterebbe un dovere di conoscenza della legge di settore, ben superiore a quella del cittadino comune, che escluderebbe a priori una qualunque ignoranza scusabile.

 Più probabile appare l’ipotesi risarcitoria legata alle pretese del terzo estraneo al contratto, il quale ha subito la lesione dell’interesse legittimo - o più precisamente dell’interesse pretensivo - a partecipare alla procedura di aggiudicazione da cui è stato illegittimamente pretermesso. A tal proposito la giurisprudenza amministrativa già aveva sottolineato come la direttiva n. 89/665/CEE[5], in materia di procedure per l’aggiudicazione di  appalti pubblici di forniture e lavori, nonché la disciplina nazionale di attuazione di cui all’art. 13 della Legge n.142 del 1992[6], nel momento in cui riconoscono a tutti i soggetti che siano stati lesi da atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavoro o di forniture o delle relative norme nazionali di recepimento il diritto di chiedere il risarcimento dei danni subiti, sarebbero private di qualsiasi effetto sostanziale con riguardo al più delicato e meno trasparente dei procedimenti ad evidenza pubblica (quello della trattativa privata) qualora si negasse all’imprenditore pretermesso legittimazione a ricorrere tutte le volte in cui l’amministratore faccia ricorso alla trattativa privata pur non sussistendone le condizioni normativamente prescritte per l’adozione[7].

Tale orientamento giurisprudenziale è tuttora valido nonostante l’abrogazione dell’art.13 cit., atteso che oggi il giudice amministrativo nelle controversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi e forniture dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento dei danni, risultando queste essere devolute alla giurisdizione esclusiva[8].

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In conclusione, sembra a chi scrive  che il legislatore in materia di forniture e appalti pubblici di servizi abbia voluto porre in essere un regime di maggiore garanzia patrimoniale per la Pubblica Amministrazione attraverso l’equiparazione tra questa e il proprio dipendente in termini di risarcibilità dei danni in favore del terzo. Tale medesimo trattamento esporrebbe maggiormente il dipendente all’azione di responsabilità amministrativa.

D’altra parte la finanziaria pone esplicitamente un argine alla suddetta severità, attraverso la previsione della nullità dei contratti stipulati; nullità che sembra escludere l’automatica responsabilità del dipendente per gli obblighi contrattuali verso il terzo contraente, solo “eventualmente” vincolanti nell’ipotesi remota in cui il terzo dimostri di essere in buona fede.

Filippo Cece

 

 


Note:

[1]Cfr. Corte dei Conti, sezioni riunite in sede di controllo, delibera 27 febbraio 2003 n.7, in Giust.it 3-2003, www.giust.it/private/corte/ccontisr_2003-02-24.htm.

[2] Cfr. Corte Cost., 11 marzo 1968 n.2 “Non e' fondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 55 e 74 c.p.c., che limitano al dolo, alla frode ed alla concussione (e all'omissione di atti d'ufficio) la responsabilita' personale dei magistrati, in riferimento all'art. 28 della Costituzione. L'art. 28 ha inteso estendere a quanti agiscano per lo Stato quella responsabilita' personale che prima era espressamente prevista solo per alcuni di loro (giudici, cancellieri, conservatori di registri immobiliari). Con il che si sono venuti ad accomunare gli uni e gli altri in una stessa proposizione normativa, affermandosi un principio valevole per tutti coloro che, sia pure magistrati, svolgano attivita' statale: un principio generale che da una parte li rende personalmente responsabili, ma dall'altra non esclude, poiche' la norma rinvia alle leggi ordinarie, che codesta responsabilita' sia disciplinata variamente per categorie o per situazioni. La singolarita' della funzione giurisdizionale, la natura dei provvedimenti giudiziari, la stessa posizione super partes del magistrato possono suggerire, come hanno suggerito ante litteram, condizioni e limiti alla sua responsabilita'; ma non sono tali da legittimare, per ipotesi, una negazione totale, che violerebbe apertamente quel principio e peccherebbe di irragionevolezza sia di per se' (art. 28) sia nel confronto con l'imputabilita' dei "pubblici impiegati" (D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 e art. 3 Cost.). La responsabilita' dello Stato s'accompagna a quella dei "funzionari" e dei "dipendenti" nell'art. 28 della Costituzione e nei principi della legislazione ordinaria: dimodoche' una legge,che negasse al cittadino danneggiato dal giudice qualunque pretesa verso l'amministrazione statale, sarebbe contraria a giustizia in un ordinamento, che, anche a livello costituzionale, da' azione almeno alle vittime dell'attivita' amministrativa. Nella realta', gli artt. 55 e 74 c.p.c. non contrastano alla norma costituzionale proprio perche' il loro apparente silenzio, malgrado un diverso indirizzo interpretativo, non significa esclusione della responsabilita' dello Stato. In virtu' dell'art. 28 Cost., la' dove e' responsabile il "funzionario" o "dipendente", lo sara' entro gli stessi limiti lo Stato (art. 28 "In tali casi la responsabilita' civile si estende allo Stato"): e, poiche' questo e' il modello sul quale occorre ormai interpretare le due norme denunciate, in esse dovra' leggersi anche la responsabilita' dello Stato per gli atti o le omissioni di cui risponde il giudice nell'esercizio del suo ministero (cit. art. 55). Quanto ai danni cagionati dal giudice per colpa grave o lieve o senza colpa, il diritto al risarcimento dei danni nei riguardi dello Stato non trova garanzia nel precetto costituzionale; ma niente impedisce alla giurisprudenza di trarlo eventualmente da norme e principi contenuti in leggi ordinarie (se esistono). L'autorizzazione ministeriale, che, secondo gli artt. 55 e 74 del c.p.c., e' necessaria per l'esercizio dell'azione nei confronti del giudice, non occorrerebbe se la domanda di risarcimento fosse rivolta allo Stato: pertanto un giudizio di costituzionalita' sarebbe irrilevante in una causa nella quale si contende sulla responsabilita' dello Stato e non su quella del giudice

[3] E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, GIUFFRE, Milano 2001, pagg.570 e segg.

[4] F.GAZZONI, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane 1996, Napoli, pag.923

[5] Direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, di coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori

[6] Il testo dell’art. cit., abrogato dall’art.35 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, a sua volta sostituito dall’art. 7 legge 21 luglio 2000, n. 205, recitava” I soggetti che hanno subìto una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture o delle relative norme interne di recepimento possono chiedere all'Amministrazione aggiudicatrice il risarcimento del danno.

   La domanda di risarcimento è proponibile dinanzi al giudice ordinario da chi ha ottenuto l'annullamento dell'atto lesivo con sentenza del giudice amministrativo.

   Gli oneri derivanti dall'attuazione del presente articolo sono imputati ad apposito capitolo da istituire «per memoria» nello stato di previsione del Ministero del tesoro, alla cui dotazione si provvede, in considerazione della natura della spesa, mediante prelevamento dal fondo di riserva per le spese obbligatorie e d'ordine iscritto nel medesimo stato di previsione.

   Il Ministro del tesoro è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio”.

[7] Cfr. T.A.R. Lazio sez.II, 22 aprile 1994, n.511, Soc. Cycas c. Com. Sabaudia e altro, Riv. It. Dir. Pubbl. comunit. 1995, 181

[8] Art. 35 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, sostituito dall’art. 7 legge 21 luglio 2000, n. 205 “Il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto.

    Nei casi previsti dal comma 1, il giudice amministrativo può stabilire i criteri in base ai quali l’amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell’avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, con il ricorso previsto dall’articolo 27, primo comma, numero 4), del testo unico approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, può essere chiesta la determinazione della somma dovuta.

    Il giudice amministrativo, nelle controversie di cui al comma 1, può disporre l’assunzione dei mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, nonchè della consulenza tecnica d’ufficio, esclusi l’interrogatorio formale e il giuramento. L’assunzione dei mezzi di prova e l’espletamento della consulenza tecnica d’ufficio sono disciplinati, ove occorra, nel regolamento di cui al regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, tenendo conto della specificità del processo amministrativo in relazione alle esigenze di celerità e concentrazione del giudizio.

    Il primo periodo del terzo comma dell’articolo 7 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, è sostituito dal seguente: “Il tribunale amministrativo regionale, nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali“.

    Sono abrogati l’articolo 13 della legge 19 febbraio 1992, n. 142, e ogni altra disposizione che prevede la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti amministrativi”.