inserito in Diritto&Diritti nel aprile 2003

Consiglio di Stato - Quinta Sezione, Sentenza 11 febbraio 2003 n. 700 in tema di adempimento dell’obbligo imposto alle imprese dall’art. 17 della legge 12 marzo 1999, n. 68, con nota in calce di Mariacristina Cefaratti

 

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Consiglio di Stato - Quinta Sezione, Sentenza 11 febbraio 2003 n. 700 in tema di adempimento dell’obbligo imposto alle imprese dall’art. 17 della legge 12 marzo 1999, n. 68

 

«L’appello non può essere accolto.

Il primo gruppo di doglianze non tiene conto del principio generalissimo per cui un obbligo discendente direttamente dalla legge si impone anche se non è richiamato dalla lex specialis della gara.

È anche da condividere l’avviso dei primi giudici che la verifica in questione, sebbene compiuta dopo l’ammissione delle imprese, non ha determinato la violazione di alcuna norma o principio, essendosi svolta prima dell’apertura delle buste contenenti le offerte.

Circa il preteso divieto di escludere le partecipanti che non avevano adempiuto e il connesso obbligo di invitare le medesime a regolarizzare la documentazione, basti sottolineare che l’art. 17 impone che la dichiarazione sia presentata “preventivamente” e “a pena di esclusione” (Cons. St. Sez. V, 17 aprile 2002 n. 2020).

Anche il secondo motivo non ha pregio.

La circostanza che la norma preveda sia la dichiarazione del rappresentante legale dell’impresa, sia la certificazione dell’ufficio, non può essere interpretata nel senso che, quando la certificazione non vi può essere per insussistenza dell’obbligo di assumere disabili, cadrebbe anche l’obbligo di effettuare la dichiarazione preventiva di essere in regola.

I due adempimenti infatti rispondono ad esigenze diverse.

La dichiarazione è destinata a garantire che al procedimento partecipino solo imprese consapevoli dell’obbligo di osservare le norme sulle assunzioni dei disabili, mentre la certificazione accerta che tali norme sono state effettivamente osservate.

La dichiarazione, quindi, non diversamente da quanto accade, ad esempio, per gli obblighi militari nei pubblici concorsi, risponde essenzialmente all’esigenza della speditezza della gara e dell’economia dei mezzi giuridici, al cui soddisfacimento debbono cooperare anche le imprese che non sono tenute ad assumere.

In conclusione l’appello deve essere respinto, ma le spese possono essere compensate.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, rigetta l’appello in epigrafe;

dispone la compensazione delle spese;

ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 29 ottobre 2002».

 

La decisione della Quinta Sezione del Consiglio di Stato, che qui si commenta, affronta, con riferimento agli obblighi imposti dall’art. 17 della legge 12 marzo 1999 n. 68, una problematica di grande rilievo per gli operatori del diritto e, in particolare, per chi si occupa di appalti pubblici: il rapporto tra prescrizioni normative e bando di gara.

Com’è noto, il bando – lex specialis della procedura concorsuale[1] – è espressione del potere discrezionale dell’Amministrazione procedente di dettare la puntuale disciplina delle gare pubbliche, fissando i requisiti di partecipazione e gli adempimenti ai quali sono tenute le imprese partecipanti[2].

Se è vero, infatti che l'interesse pubblico, in materia di gare d’appalto, si consegue attraverso la più ampia partecipazione dei concorrenti alle gare stesse, è però altrettanto vero che la Pubblica Amministrazione con il bando di gara pone un limite a tale principio, stabilendo i requisiti cui devono rispondere le imprese per poter partecipare alla procedura allo scopo di addivenire alla stipula del contratto con il concorrente che, oltre a garantire serietà ed affidabilità nell’adempimento dell’obbligazione negoziale, presenti l’offerta più conveniente.

Ne consegue che la Commissione nominata per l’aggiudicazione della gara non può introdurre né richiedere requisiti nuovi ed ulteriori rispetto a quelli previsti dal bando, in quanto tutti i soggetti coinvolti nella procedura concorsuale – Amministrazione e imprese partecipanti – sono vincolati all’osservanza delle prescrizioni in esso contenute, rispetto alle quali va verificata la conformità della produzione documentale dei concorrenti[3].

Ciò vale anche nel caso in cui le clausole del bando si palesino viziate o non più conformi allo ius superveniens: in entrambe le ipotesi, infatti, l’unico rimedio proponibile è il ricorso ai poteri d’annullamento in autotutela[4].

Questo, tuttavia, non esclude – secondo quanto affermato dai giudici di Palazzo Spada nella sentenza in epigrafe – che la Commissione sia legittimata ad andare al di là del mero dato testuale del bando, essendo essa tenuta altresì alla verifica di tutti gli ulteriori obblighi discendenti da norme di legge che, anche se non richiamate dal bando medesimo, disciplinano la materia allorquando a tali disposizioni normative sia possibile riconoscere il carattere di norme imperative o autoesecutive.

Nella sentenza commentata, infatti, il Consiglio di Stato afferma che nel nostro ordinamento sussiste il “principio generalissimo per cui un obbligo discendente direttamente dalla legge si impone anche se non è richiamato dalla lex specialis della gara”.

Sul punto, tuttavia, l’orientamento giurisprudenziale non è affatto univoco, oscillando tra pronunce[5] che riconoscono l’esistenza di norme c.d. autoesecutive, le quali, prevedendo specifici requisiti per la partecipazione alle gare che si impongono a tutti i soggetti coinvolti nella procedura concorsuale, anche in assenza di un esplicito richiamo nel bando devono essere sempre applicate sussistendone i presupposti e sentenze che affermano il contrario[6].

Da quanto detto, emerge che la soluzione della questione in esame è imprescindibilmente legata all’analisi, da un lato, dei poteri di cui dispone la Commissione di aggiudicazione e, dall’altro, della natura giuridica dell’obbligo discendente dall’art. 17 della legge n. 68/1999.

Sul primo punto la giurisprudenza è concorde nell’affermare che l’attività che la Commissione di aggiudicazione è chiamata a svolgere non può essere strettamente limitata alla verifica della rispondenza, nella forma e nel contenuto, delle domande di partecipazione presentate a quanto richiesto dal bando di gara, senza andare al di là del semplice dato materiale costituito dalla documentazione prodotta da ciascuno dei concorrenti.

Infatti, il perseguimento dell’interesse pubblico legittima la Commissione a valutare la possibilità di chiedere alle ditte in gara chiarimenti ed eventualmente l’integrazione della documentazione prodotta[7], sia pure entro limiti ridotti: in virtù del principio della par condicio, invero, occorre che già dalla documentazione presentata in sede di partecipazione emergano elementi tali da indurre la Commissione a ritenere ragionevole e probabile che il partecipante possegga il requisito non espressamente documentato ovvero che risulti assente nei suoi confronti una causa di esclusione prevista dal bando[8].

Ne consegue, quindi, che la possibilità di integrazione della documentazione non può trasformarsi nell’illegittima opportunità data ad un concorrente di completare la propria domanda in una fase successiva rispetto alla scadenza del termine fissato dal bando.

Dato per scontato, quindi, che la Commissione di aggiudicazione non può applicare criteri ulteriori e diversi rispetto a quelli previsti dal bando, il dubbio si pone per quegli adempimenti posti a carico del concorrente da una norma imperativa e non richiamati dal bando stesso. Al riguardo, infatti, occorre risolvere alcuni quesiti: in particolare, può la Commissione riconoscere il carattere imperativo di una norma? La Commissione ha la facoltà o l’obbligo di colmare le lacune del bando integrandolo con i criteri contenuti esclusivamente in norme imperative?

Con riferimento al caso di specie, va preliminarmente osservato che, come ha efficacemente affermato il Consiglio di Stato[9], la presentazione della dichiarazione richiesta dall’art. 17 della legge n. 68/99 costituisce “requisito di partecipazione alla gara”, desumendosi tale interpretazione non solo dal dato letterale della norma in esame[10], ma anche dalla sua stessa ratio, che va rinvenuta nella necessità di garantire il più ampio rispetto della normativa sul diritto al lavoro dei disabili, imponendo ad ogni impresa, già in sede di presentazione della domanda di partecipazione, di dimostrare il rispetto della normativa in esame per ottenere l’ammissione alla gara[11].

Infatti, qualora tale adempimento fosse qualificato, al contrario, come successivo all’esito della gara e, quindi, come condizione dell’aggiudicazione, l’obiettivo di assicurare la tutela dei disabili non sarebbe raggiunto in maniera altrettanto efficace, potendo in questo caso l’impresa partecipante rinviare ad un momento successivo l’adempimento dell’onere di regolarizzare la propria posizione[12].

Si può pertanto riconoscere alla norma in questione carattere imperativo? Per rispondere a questa domanda occorre una breve digressione sul tema.

Secondo un’autorevole definizione[13], sono imperative le norme «che pongono limiti al contenuto dell’atto privato per motivi di interesse generale, utilizzando sostanzialmente due tecniche. Un primo tipo di limitazione consiste nel porre una sorta di perimetro entro il quale l’attività deve essere mantenuta (…). Un altro tipo di limitazione assai più penetrante si verifica invece quando la norma imperativa, lungi dal limitarsi a porre dei confini esterni, detta essa stessa il contenuto vincolante di determinate pattuizioni. Ciò accade quando il legislatore ravvisa motivi di interesse pubblico particolarmente incidenti in specifici settori della società civile (...)».

Dando per scontato che questa definizione, dettata in materia di diritto privato, conservi senza alcun dubbio la propria pregnanza anche nel campo del diritto pubblico, da quanto si è detto a proposito della norma dettata dall’art. 17 della legge n. 68/99 emerge già de plano, ad avviso di chi scrive, il carattere imperativo della stessa per almeno due ragioni fondamentali.

Innanzitutto, lo stesso dato testuale evidenzia la volontà del legislatore di porre a carico di qualsiasi impresa, pubblica o privata, che partecipi ad una gara d’appalto ovvero che intrattenga rapporti convenzionali o di concessione con una Pubblica Amministrazione una specifica situazione soggettiva passiva da qualificarsi non tanto come obbligo quanto piuttosto come onere[14], con la conseguente netta delimitazione della sfera di soggetti con i quali le Pubbliche Amministrazioni sono legittimate a porre in essere attività negoziale in senso lato.

In secondo luogo, l’affermata ratio di tale norma[15] consente di asserire senza dubbio alcuno che la suddetta delimitazione risponde ad un interesse pubblico, qual è la necessità di garantire il più ampio rispetto della normativa sul diritto al lavoro dei disabili.

Da quanto detto consegue che il compito di riconoscere il carattere imperativo ovvero derogabile di una norma giuridica è proprio dell’interprete, cioè di chi è chiamato ad applicare la norma stessa traendone il significato – e quindi la natura – attraverso quel procedimento ermeneutico che, andando al di là del mero dato letterale, consente all’operatore, attraverso la ricerca della ratio legis e dei collegamenti con le altre disposizioni che disciplinano la stessa materia e con i principi fondamentali dell’ordinamento, di accertare la regola da applicare al caso concreto.

Ne deriva che la Commissione, una volta riconosciuta l’imperatività ovvero l’autoesecutività della disposizione contenuta nell’art. 17 della legge n. 68/99 della quale nel caso concreto sussistano i presupposti di applicabilità[16], ha – ad avviso di chi scrive – un vero e proprio obbligo di provvedere ad integrare il contenuto del bando di gara, verificando quindi l’allegazione da parte dei concorrenti sia della dichiarazione del legale rappresentante che attesti di essere in regola con le norme che disciplinano il diritto al lavoro dei disabili, sia della certificazione rilasciata dagli uffici competenti dalla quale risulti l’ottemperanza alle norme della legge in questione, pena l’esclusione dalla gara in corso di svolgimento[17].

Se così non fosse, infatti, rimarrebbe priva di alcun significato la distinzione tra disposizioni imperative e disposizioni derogabili, finendo tanto le une quanto le altre con l’essere applicate soltanto in caso di esplicito richiamo nel bando di gara, senza che residui in capo alla Commissione il potere di integrarne il contenuto attraverso il richiamo a disposizioni autoesecutive.

Va, tuttavia, sgombrato il campo da un equivoco[18]: il “principio generalissimo per cui un obbligo discendente direttamente dalla legge si impone anche se non è richiamato dalla lex specialis della gara”, affermato dal Consiglio di Stato nella sentenza de qua, non discende affatto dall’applicazione (analogica) del principio dell’eterointegrazione[19] sancito in materia contrattuale dal combinato disposto degli artt. 1339 e 1419 c.c., essendo del tutto evidente che tale principio “risulta assolutamente in configurabile ed inapplicabile alla materia controversa (neanche in via analogica, in considerazione della diversità delle situazioni), per la mancanza, nella lex specialis di gara, di alcuna convenzione il cui contenuto necessiti di essere integrato in quanto difforme da quello prescritto inderogabilmente dal legislatore”[20], bensì dal riconosciuto carattere imperativo della disposizione legislativa in esame.

Pertanto, quanto detto consente di ritenere del tutto condivisibile la decisione in epigrafe e dal punto di vista formale e dal punto di vista sostanziale.

Innanzitutto, i principi che regolano lo svolgimento delle pubbliche gare consentono di affermare che, anche dopo l’ammissione delle imprese e fino al momento dell’apertura delle buste contenenti le offerte, la Commissione può sempre svolgere un’ulteriore attività istruttoria diretta a verificare l’esatta corrispondenza della documentazione allegata a quanto richiesto dal bando e da tutte le norme imperative o autoesecutive applicabili al caso concreto, potendo riesaminare e variare una precedente decisione, senza che ciò determini, come hanno osservato i giudici di primo grado, la violazione dei principi di trasparenza e di par condicio dei concorrenti.

In secondo luogo, va ribadito che la verifica circa l’adempimento dell’onere previsto dall’art. 17 della legge n. 68/99 va condotta, in base allo stesso dato letterale della norma, prima dell’apertura delle buste contenenti le offerte dei concorrenti e che il mancato adempimento è sanzionato dalla stessa legge con l’esclusione automatica dalla gara.

Né va dimenticato che la norma in esame ha come destinatari diretti tutte le imprese, siano esse pubbliche o private, che partecipino a gare d’appalto pubbliche e come destinatari solo indiretti gli enti che indicono tali gare, con la conseguenza, ad avviso di chi scrive, che il bando può anche non richiamare la norma de qua, senza che ciò faccia venir meno l’obbligo per i concorrenti di ottemperare a quanto in essa prescritto nel momento in cui presentano domanda di partecipazione ad una gara, né possa far considerare tale adempimento come un requisito del tutto nuovo ed ulteriore rispetto a quanto richiesto dalla lex specialis di gara.

Né si può condividere la tesi dell’appellante circa la sussistenza in capo alla stazione appaltante dell’obbligo di invitare le partecipanti che non avevano adempiuto agli obblighi in questione a regolarizzare la documentazione.

Innanzitutto, come già si è detto in precedenza, perché la Commissione possa esercitare il potere di chiedere alle ditte in gara l’integrazione della documentazione presentata onde dimostrare il possesso dei requisiti di partecipazione richiesti è necessario che “sussista almeno un principio di prova, non essendo configurabile una possibilità di intervento sostitutivo volto ad assicurare l’allegazione di documenti o di chiarimenti del tutto mancanti; un simile impiego del potere di integrazione, lungi dal limitarsi a fare chiarezza e a rispettare il principio di massima partecipazione delle imprese alle gare, determinerebbe unicamente una violazione della regola della par condicio, dando causa ad un’illegittima disparità di trattamento tra quelle ditte che siano state scrupolose e tempestive nella produzione dei documenti prescritti e comunque nella dimostrazione del possesso dei necessari requisiti di partecipazione e quelle che, invece, non si siano comportate secondo l’ordinaria diligenza”[21].

La suddetta tesi, inoltre, appare confutata anche dalla stessa lettera dell’art. 17 della legge n. 68/99, il quale, da un lato, impone che la documentazione in questione sia presentata “preventivamente” e “a pena di esclusione” e, dall’altro, prevede esplicitamente “un duplice onere a carico dei concorrenti: il primo attiene alla presentazione di una specifica dichiarazione del legale rappresentante, il secondo alla presentazione della certificazione rilasciata dagli uffici competenti”[22].

I due documenti richiesti (dichiarazione e certificazione) non vanno, pertanto, confusi né identificati, in quanto – come hanno affermato i giudici nella sentenza in epigrafe – assolvono a due funzioni diverse, avendo la dichiarazione un contenuto puramente descrittivo della situazione sussistente, finalizzato ad attestare la posizione di ciascun concorrente rispetto agli obblighi imposti dalla legge, al contrario del certificato che costituisce, invece, l’attestazione incondizionata, proveniente da un ufficio pubblico a ciò preposto, circa l’effettiva osservanza degli obblighi di assunzione di disabili eventualmente facenti capo alla singola impresa.

Il Consiglio di Stato, confermando l’assunto dei giudici di primo grado, ha ribadito[23] che l’obbligo di allegare la dichiarazione ricade su tutti i partecipanti alla gara, siano o meno tenuti all’assunzione di disabili e, quindi, alla produzione anche del relativo certificato, in quanto tale dichiarazione è l’unico strumento che la stazione appaltante ha a disposizione per verificare la posizione delle ditte concorrenti rispetto alla legge de qua.

Da quanto detto e dalla affermata ratio della norma in esame deriva, come logica conseguenza, che non si può affatto sospettare di illegittimità costituzionale l’art. 17 della legge n. 68/99, perché imporrebbe in maniera eccessivamente rigorosa la produzione di due documenti dei quali l’uno (la dichiarazione) non sarebbe altro che un inutile doppione dell’altro (la certificazione): come già osservato, i due documenti “operano disgiuntamente e su piani diversi”[24] e il rigore al quale si ispira la norma rinviene il suo fondamento in tutti quegli articoli della nostra carta fondamentale che, affermando i principi di non discriminazione e di integrazione sociale, tutelano il diritto al lavoro dei disabili[25].


Note:

[1] In tal senso, ex multis, Cons. Stato – Sez. V 6 marzo 1991, n. 204. Carattere normativo, sia pure con effetti limitati all’ordinamento interno dell’Amministrazione procedente, è riconosciuto da T.A.R. Lombardia – sez. III 2 aprile 1997, n. 354 ed anche 2 giugno 1997 n. 900. Recentemente e in senso contrario Cons. Stato – Sez. V 10 gennaio 2003, n. 35: “(…) va negato ogni carattere normativo ai provvedimenti di disciplina della gara in considerazione dell’inconfigurabilità in essi dei requisiti essenziali per la qualificazione di un atto come fonte dell’ordinamento; nel bando di gara difettano, in particolare, sia l’elemento (necessario per definire un atto come normativo) dell’innovatività che quello dell’astrattezza”.

[2] La discrezionalità di cui gode la Pubblica Amministrazione nella predisposizione del bando di gara – o della lettera d’invito, a seconda della procedura seguita – incontra, in ogni caso, un limite ben preciso sancito dall’art. 1, comma 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, che vieta di aggravare il procedimento amministrativo “se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria”, con l’evidente conseguenza che la previsione di formalità e requisiti particolarmente restrittivi, diversi ed ulteriori rispetto a quelli minimi prescritti dalla legge, deve essere sempre adeguatamente motivata e rispondente ad uno specifico ed effettivo interesse dell’Amministrazione stessa.

[3] Con la conseguenza che un’impresa partecipante non può essere esclusa per la mancanza di un requisito non previsto dal bando di gara, ma preteso dalla Commissione: Cons. Stato – Sez. V 27 febbraio 1998, n. 219 e recentemente anche T.A.R. Friuli Venezia Giulia 21 dicembre 2002, n. 1086.

[4] Si veda per tutti Cons. Stato – Sez. V 11 maggio 1998, n. 225 in Rep. Foro It., 1998 voce Contratti della p. a., p. 785, n. 161.

[5] Soprattutto dei Tribunali Amministrativi Regionali: cfr. T.A.R. Piemonte 9 febbraio 2002, nn. 288 e 291; T.R.G.A. Trento 26 marzo 2001, n. 243 e, da ultimo, T.A.R. Emilia Romagna 22 gennaio 2003, n. 32.

[6] Si veda, per tutti, Cons. Stato – Sez. V 10 gennaio 2003, n. 35.

[7] Il potere di chiedere integrazioni della documentazione carente discende dal disposto dell’art. 15 del D.Lgs. n. 358 del 1992 in materia di appalti di forniture e dell’art. 16 del D.Lgs. n. 157 del 1995 in materia di appalti di servizi. Con riferimento a quest’ultima disposizione, il Cons. Stato – Sez. V 19 febbraio 2003, n. 917 ha affermato che “La norma costituisce una chiara espressione del favor partecipationis, e quindi, più che attribuire all’Amministrazione una mera facoltà da esercitare con discrezionalità assoluta, ha inteso codificare un ordinario modo di procedere volto a far prevalere la sostanza sulla forma, orientando l’azione amministrativa alla concreta verifica dei requisiti di partecipazione alla gara. Occorre tuttavia che la possibilità di chiarire e completare la documentazione sia offerta senza ledere il principio della par condicio, che vige nell’intera materia. Tale principio non viene necessariamente leso, ma può essere esposto a lesione quando si ammetta una sola impresa ad una integrazione della quale le altre concorrenti non debbano avvalersi. La violazione può essere sicuramente esclusa quando a tutte le imprese interessate viene chiesto di procedere ad una determinata integrazione della documentazione ritenuta carente”. Secondo il T.A.R. Lombardia – sez. Brescia 30 giugno 2001, n. 557 il principio della regolarizzazione della documentazione carente è “sancito legislativamente, in via generale per ogni tipo di procedimento, dall’art. 6, lett. b), legge 7 agosto 1990, n. 241, che attribuisce al responsabile del procedimento, nell’ambito dei poteri istruttori, quelli di invitare l’interessato alla regolarizzazione della documentazione carente, il rilascio di dichiarazioni o la loro rettifica nonché ordinare esibizioni documentali – e specificatamente previsto, in materia di appalti, già dall’art. 18, ultimo comma, legge 8 agosto 1977, n. 584”.

[8] Cfr. T.A.R. Piemonte – sez. II 20 luglio 1993, n.259; T.A.R. Friuli Venezia Giulia 21 dicembre 2002, n. 1086. Si veda anche Cons. di Stato – Sez. VI 11 settembre 1999, n. 1179, in Foro Amm., 1999, 1783: “Non è in contrasto con il principio della par condicio dei concorrenti ad una gara di pubblico appalto l’invito, rivolto dall’amministrazione appaltante ad uno dei concorrenti, di regolarizzare, mediante l’autentica della sottoscrizione di talune dichiarazioni, i relativi documenti, ancorché il bando di gara o la lettera d’invito l’avessero prevista a pena di esclusione. La successiva regolarizzazione di un documento di gara non è preclusa se attiene, infatti, all’estrinseca garanzia della provenienza di esso e non al suo contenuto”.

[9] Cons. Stato – Sez. V 6 luglio 2002, n. 3733.

[10] “Le imprese, sia pubbliche sia private, qualora partecipino a bandi per appalti pubblici o intrattengano rapporti convenzionali o di concessione con pubbliche amministrazioni, sono tenute a presentare preventivamente alle stesse la dichiarazione del legale rappresentante che attesti di essere in regola con le norme che disciplinano il diritto al lavoro dei disabili, nonché apposita certificazione rilasciata dagli uffici competenti dalla quale risulti l’ottemperanza alle norme della presente legge, pena l’esclusione”.

[11] Com’è noto, la legge 12 marzo 1999, n. 68 e il relativo regolamento di attuazione emanato con D.P.R. 10 ottobre 2000, n. 333 hanno riformato l’istituto del collocamento obbligatorio, prima disciplinato dalla legge 2 aprile 1968, n. 482, introducendo significative novità.

[12] Chi scrive, pertanto, ritiene di non poter condividere l’assunto sostenuto da Cons. Stato – Sez. V 17 aprile 2002, n. 2020: “Ebbene, tali disposizioni vanno interpretate nel senso che, ai fini della partecipazione alla gara, sia sufficiente che venga resa (a pena di esclusione) la detta dichiarazione, attestante che l’impresa è in regola con le norme che disciplinano il diritto al lavoro dei disabili; nell’ipotesi di provvisoria aggiudicazione, l’impresa aggiudicataria deve, poi, essere invitata a certificare, sempre a pena di esclusione, l’ottemperanza alle norme medesime tramite i competenti uffici. In tal senso convincono considerazioni d’ordine logico-sistematico, secondo cui ai fini della partecipazione ai pubblici appalti sono normalmente sufficienti le semplici dichiarazioni rese dai candidati, mentre la documentazione attestante il possesso dei requisiti dichiarati deve essere offerta, generalmente, solo in seguito all’aggiudicazione ovvero, negli appalti di lavori pubblici, nell’ipotesi in cui l’impresa sia stata inserita tra quelle per le quali, ai sensi dell’art. 10, comma 1 quater della legge n. 109/1994, deve essere operata la preventiva verifica del possesso dei requisiti ivi prescritta; e, del resto, non avrebbe senso logico richiedere, da un lato, la dichiarazione in merito al possesso del requisito e, contemporaneamente e agli stessi fini della concreta partecipazione alla gara, anche il deposito della correlativa certificazione”.

[13] F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 1992, pag. 16.

[14] P. Perlingieri, Profili del diritto civile, Napoli, 1996, pag. 114 definisce l’onere come “un obbligo potestativo, nel senso che il suo titolare può adempierlo o no. (…) è situazione strumentale per il raggiungimento di un risultato utile (interesse) del titolare”.

[15] E, in generale, di tutta la legge 12 marzo 1999, n. 68 che disciplina la materia del diritto al lavoro dei disabili con la finalità, specificamente indicata all’art. 1, di promuovere l’inserimento e l’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato.

[16] È incontrovertibile, infatti, che la norma autoesecutiva in tanto può essere applicata in quanto ne sussistano i necessari presupposti (cfr. Cons. Stato – Sez. IV 6 febbraio 1995, n. 54: “Il principio secondo il quale il bando è la legge speciale del concorso non esclude la piena efficacia di tutte le leggi «autoesecutive» di cui si avverano i presupposti di applicabilità ancorché non specificamente richiamate nel bando”).

[17] Pertanto, se è vero che il provvedimento di esclusione si configura come atto meramente applicativo del bando (come ha affermato lo stesso Cons. Stato – Sez. V 10 gennaio 2003, n. 35) è però altrettanto vero, a giudizio di chi scrive, che l’esclusione consegue necessariamente anche alla mancata osservanza delle norme imperative o autoesecutive che integrano il contenuto del bando stesso.

[18] Nel quale sembra essere caduto il T.A.R. Lombardia, Milano – Sez. III nella sentenza 14 gennaio – 31 maggio 2000, n. 3831 annullata dal giudice di 2° grado con la decisione del 10 gennaio 2003 sopra ricordata.

[19] Cioè dell’inserzione automatica di clausole stabilite imperativamente dalla legge.

[20] Così Cons. Stato – Sez. V 10 gennaio 2003, n. 35.

[21] Così il T.A.R. Piemonte – Sez. II 24 gennaio 2002, n. 288.

[22] T.A.R. Emilia Romagna – Sez. II 5 luglio 2001, n. 538.

[23] Già lo stesso Ministero del Lavoro, con la Circolare n. 41 del 26/06/2000, aveva fatto chiarezza sul punto: “Si ribadisce, inoltre, la posizione già assunta da questa Amministrazione, precisando che i datori di lavoro privati che occupano da 15 a 35 dipendenti e che non hanno effettuato nuove assunzioni dopo il 18 gennaio 2000, se intendono partecipare a gare di appalto non sono tenuti a richiedere la certificazione agli uffici, poiché non soggetti agli obblighi derivanti dalla legge 68/99. A maggior ragione ciò vale per le imprese che occupano meno di 15 dipendenti. Peraltro, per motivi di linearità dell’azione amministrativa e, ad ulteriore garanzia di trasparenza nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione, si ritiene opportuno prevedere che i datori di lavoro in questione autocertifichino, mediante il legale rappresentante, la loro condizione di non assoggettabilità agli obblighi di assunzione obbligatoria, adempimento che si ritiene del tutto sufficiente, tenuto conto delle onerose assunzioni di responsabilità che da esso discendono”.

[24] T.A.R. Piemonte – Sez. II 24 gennaio 2002, n. 288.

[25] Si possono citare, in proposito, gli artt. 2, 3, 4 e 38 che, affermando il principio di uguaglianza e riconoscendo l’esistenza di diritti inviolabili dell’uomo, impegnano il nostro Stato a promuovere le condizioni necessarie a rendere effettivo il diritto al lavoro per ogni cittadino.