*** L’elemento
soggettivo, nell’ambito del più complesso tema della responsabilità
sia civile che penale, ha, da sempre, formato oggetto di attenta disamina
sia in dottrina che in giurisprudenza.
Lo
studio di detto elemento, per ciò che concerne il tema de qua,
ha messo in evidenza, fra l’altro, il tentativo di superare il
sistema monista della colpa con la conseguente moltiplicazione dei criteri
di imputazione della responsabilità
(1) .
E’
opportuno quindi, ad avviso di chi scrive, far precedere l’esame
dell’elemento soggettivo da alcune preliminari considerazioni.
Com’è
stato osservato in dottrina occorre sottolineare che non vi è dubbio
alcuno che illegittimità non coincida con illiceità (2) . L’illecito,
infatti, nel senso che il termine assume quando si parla del danno (…)
è riferito alla condotta , che nel suo insieme, in quanto causativa di
danno, è contra ius. L’illegittimità attiene viceversa alla sola
espressione formale dell’azione amministrativa, il suo atto: il quale può
violare una norma non solo senza che a tale violazione possa riferirsi
alcun effetto dannoso (si pensi agli atti adottati in violazione di norme
attributive di competenza interna: ad esempio, al decreto firmato dal
sottosegretario, privo di delega; l’effetto dannoso è da riferire
all’atto, non certo alla carenza di delega), ma soprattutto senza che la
violazione, come tale, impegni la condotta, e dunque l’esercizio della
funzione amministrativa, in una posizione di contrasto con
l’ordinamento.
Ingiustizia
(del danno), insomma, illiceità (della condotta) ed illegittimità
(dell’atto) sono qualificazioni che si svolgono su piani diversi, e, pur
riguardano la stessa fattispecie, sembrano avere un punto necessario di
intersezione, che individui una sorta di linea unitaria, comune dunque ai
tre elementi che costituiscono la fattispecie dell’illecito. Ingiusto
infatti è il danno che non si ha il dovere di subire; illecita , nel
senso qui specifico del termine, è la condotta tenuta in violazione di
regole genericamente qualificabili di prudenza e di diligenza, ma
specificamente proprie del tipo di attività di cui è espressione il
fatto causativo del danno; illegittimo è un atto amministrativo , che
violi una qualunque norma, ad esso applicabile: di forma, procedimentale,
organizzativa, sostanziale, non rileva. In questa autonomia di
qualificazioni , stabilire quando , di fronte ad un atto amministrativo,
il danno che essa provoca sia ingiusto, sembra pressochè impossibile e
forse è inutile: perché se è certamente ingiusto il danno, che non si
ha il dovere di subire, la sua risarcibilità dipende per altro da un
fattore ulteriore, che è l’illiceità della condotta, rispetto alla
quale l’illegittimità dell’atto è un elemento al tempo stesso
essenziale ed autonomo della condotta.
Ciò premesso, occorre, prosegue Satta,
affrontare un ulteriore problema: verificare quando l’atto
illegittimo sia anche doloso o colposo e quindi obblighi a
risarcire il danno.
Verificare,
pertanto, quando, la condotta della pubblica amministrazione (che abbia
posto in essere l’atto) sia dolosa o colposa.
Soccorrono,
a tal proposito, i criteri generali in tema di responsabilità
exstracontrattuale che, elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza
per il soggetto privato, si ritengono applicabili anche alla p.a. . Si
pone quindi il problema di stabilire quando l’attività della p.a. possa
qualificarsi in termini di illiceità. La dottrina più avvertita,
continua l’autore, ha da tempo rilevato che l’attività amministrativa
è qualche cosa di profondamente diverso dagli atti in cui si esprime; e
che essa è costituita, si potrebbe dire, da un lato dal complesso di
finalità e scopi affidati all’amministrazione , dall’altro, da un
continuum di iniziative, di attività materiali, organizzative, decisorie
certamente, esecutive, la cui considerazione soltanto consente di
individuare un rapporto tra organizzazione , attività, fini e scopi
affidati.
In questo quadro si è ben visto che
il complesso di attività, preordinato al controllo, all’indirizzo ed al
governo di attività umane , è retto da norme extra legem latae, da norme
cioè che sono proprie dell’organizzazione in quanto tale (…),
dell’organizzazione cioè che non può perseguire i propri fini
istituzionali , prescindendo dall’osservanza di quelle norme. E’ vero,
prosegue l’a. , che la legge disciplina l’attività amministrativa, ma
nella massima parte dei casi la disciplina solo sotto profili limitati ,
collocati, si poterebbe dire, all’esterno dell’amministrazione , cioè
ponendole punti di riferimento, finalità , passaggi obbligati. (…) .
Certo è, e questo sembra il punto cruciale, che tra legge ed
amministrazione corre un rapporto dialettico complesso, perchè
l’amministrazione e l’amministrazione soltanto opera nel reale, e
dunque porta comunque un elemento creativo – un proprio elemento
creativo – in qualunque atto di esecuzione della legge, che si voglia
considerare. Sta qui il nocciolo del problema. Se l’amministrazione
opera secondo le regole proprie , e , se si vuole, attraverso
regole proprie provvede all’attuazione di quella volontà terza che è
la legge, nel rispetto o nella
violazione di queste regole
stanno la correttezza o l’illiceità della condotta. Perché nel
rispetto di tali regole deve svolgersi la funzione affidatale, ed illecita
quindi – colposa o dolosa – essa è quando tali regole violi, e quando
di fatto , nel singolo provvedimento , alteri o snaturi la finalità cui
è preordinata e la finalità stessa della legge. L’illegittimità di un
atto non è dunque ex se sufficiente ragione per giustificare un’azione
di risarcimento nei confronti della pubblica amministrazione per un motivo
ben preciso: e cioè perché occorre che tale illegittimità sia scaturita
da una condotta - da
un’attività amministrativa, da un esercizio della funzione – che
abbia violato le regole sue proprie.”
Si
tratta , come è stato osservato in dottrina ed in giurisprudenza (3), di
regole emerse in tema di sindacato della “discrezionalità
amministrativa” come la
completa conoscenza dei fatti, la compiutezza della motivazione (obbligo
oggi espressamente previsto in apposite disposizioni),
la parità di trattamento.
Dunque
se dall’azione
amministrativa illegittima derivi un danno al privato, egli ha diritto al
risarcimento del danno solo se, oltre ad essere illegittimo , l’atto è
anche illecito: << l’annullamento di un atto della pubblica
amministrazione da parte del giudice amministrativo non abilita di per sé
il privato al proposizione dell’azione civile risarcitoria, essendo
all’uopo necessario che l’atto amministrativo sia non soltanto
illegittimo, ma anche illecito, e cioè lesivo di una posizione originaria
di diritto soggettivo >> (4).
Si
può ora passare all’esame dell’elemento soggettivo non prima però di
averne tracciato un breve excursus storico.
L’orientamento tradizionale, prima
della svolta rappresentata dalla nota sentenza n. 500/99 della Corte di
Cassazione , riteneva sufficiente, in ordine alla sussistenza
dell’elemento soggettivo della colpa,
la mera illegittimità dell’atto. La Suprema Corte (si veda, fra
le altre, sent. n. 3293/1994)
nel distinguere fra attività materiale ed attività provvedimentale
ha ritenuto, ai fini della materia de qua, che fosse sufficiente la
sola illegittimità dell’atto per far sorgere la responsabilità ex art.
2043 cc. In Cass. n. 5883/91 si è statuito che, in ordine all’attività
provvedimentale, non occorre che sia ricercato un comportamento colpevole
ascrivibile all’agente e si precisa che, così ragionando,
non si afferma né la natura oggettiva – e perciò speciale - della responsabilità della pubblica amministrazione né si
opera una restrizione delle condizioni normalmente richieste ai sensi
dell’art. 2043 cc..
Pur tuttavia non è mancata in
dottrina qualche osservazione critica (5). Si è, infatti, osservato che
una cosa è la colpa dell’amministrazione, un’altra è il
comportamento colpevole dell’agente. Il secondo non occorre perché si
abbia responsabilità della p.a.. Per questa può essere sufficiente la
semplice violazione di leggi, regolamenti, ordini, discipline (art.43
c.p.) cioè l’illegittimità del provvedimento; ma perchè non si
risolva in responsabilità oggettiva, occorre che la ricerca della colpa,
da condurre in senso oggettivo e non con un’impossibile indagine
psicologica, non si traduca nella sostanziale irrilevanza dell’elemento
psicologico. E’ questo che accade in Cass. 5883/91 quando si afferma
l’irrilevanza dell’errore scusabile. L’a., infatti, osserva come sia possibile – e necessaria per non creare un
regime speciale – un’indagine sulla colpa, indagine condotta in senso
oggettivo e indipendentemente dal comportamento dell’agente,
facendo ricorso a categorie oggettive e procedimentali, quali la compiuta
conoscenza dei fatti, il loro ragionevole apprezzamento, la correttezza
procedimentale quanto alla lealtà nei confronti dell’interessato: tutti
elementi che consentono di qualificare
giuridicamente, quanto all’elemento soggettivo, ai sensi dell’art. 2043
cc, l’attività provvedimentale della p.a.; ed è questo, sempre secondo
l’a., il suggerimento che proviene dalla giurisprudenza comunitaria..
Se, infatti, da un lato si è esclusa la rilevanza della colpa
dell’agente dall’altro si
è fatto richiamo al concetto di violazione manifesta in modo da valutare
elementi che negli ordinamenti nazionali sono pertinenti all’indagine
sulla colpa delle amministrazioni: scusabilità o inescusabilità
dell’errore di diritto, gradi di chiarezza e precisione della norma
violata, estensione del potere discrezionale, (…) presenza di una
giurisprudenza consolidata sulla questione di diritto. (6)
Peraltro
occorre osservare come in passato, prima ancora degli indirizzi
giurisprudenziali sopra citati, autorevole dottrina avesse già osservato
come non occorra, in effetti, provare la colpa della p.a. in modo diretto,
dal momento che essa si presume a seguito della violazione di qualunque
norma che gli organi siano tenuti ad osservare , si tratti di norme
giuridiche ovvero di norme interne , norme tecniche o di buona
amministrazione (7).
Nel quadro delineato un momento di
svolta si verifica a seguito dell’innovativa sentenza della Cassazione
n.500/99.
I giudici nel ribadire l’essenzialità
(a fini della sussistenza della responsabilità ex art. 2043 c.c. )
dell’elemento soggettivo (dolo o colpa) superano il principio della
“colpa in re ipsa” per affermare
che “il giudice ordinario dovrà svolgere una più penetrante
indagine , non limitata al solo accertamento dell’illegittimità del
provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile , bensì
estesa anche alla valutazione della colpa , non del funzionario agente
(…) ma della pubblica amministrazione intesa come apparato che
sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione
dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato) sia
avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di
buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione
amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in
quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità”.
L’esame dell’elemento soggettivo
non può prescindere , altresì, da un’ulteriore considerazione: il dolo
e la colpa sono stati psicologici e come tali essi non sono riferibili direttamente alla p.a. bensì al suo
agente che , com’è noto, agisce
in forza di un rapporto di immedesimazione organica. E’ necessario
quindi analizzare gli “effetti” che detti stati psicolocigi possono
avere su quest’ultimo.
Com’è stato osservato in dottrina
in ordine al dolo si confrontano due posizioni (8).
Un primo orientamento ritiene che
siano imputabili all’amministrazione solo gli atti compiti dai suoi
agenti nell’esercizio dei compiti istituzionali mentre non lo sarebbero
quelli che non tendono ai fini propri dell’ente.
Anzi, in tali ipotesi, la presenza del dolo o la commissione di un
reato comporterebbero l’interruzione del rapporto organico con la
conseguenza che l’atto e la relativa responsabilità sono imputabili al
solo agente.
Altre tesi, tuttavia, in passato,
hanno ritenuto non esclusa la riferibilità dell’evento alla p.a. dalla
circostanza che l’agente commetta, nelle operazioni intermedie, abusi di
potere o violazioni di ordini di servizio (9).
Non mancano, ancora, opzioni
interpretative che ritengono che debba
farsi riferimento al criterio della riferibilità secondo cui la condotta del dipendente è riferibile
all’ente pubblico tutte le volte in cui è stata compiuta in una
situazione di occasionalità necessaria
con le attribuzioni sue proprie. In tal caso solo un fine
strettamente personale, che abbia
spinto il dipendente ad una data attività amministrativa (concretatasi in
uno specifico atto), può escludere la riferibilità dell’atto stesso
alla p.a. quindi determinare una responsabilità esclusiva a carico
dell’agente (10).
In ordine, poi,
all’elemento colpa l’orientamento tradizionale (Cass. 1995,
n.623 ma prima Cass. 1994, n. 3293 )
poneva la distinzione fra atti materiali e provvedimenti. Mentre nel primo
caso ai fini della sussistenza della responsabilità si richiedeva la
prova del dolo o della colpa, nell’ipotesi di attività provvedimentale
si è ritenuto che la colpa della p.a. è ravvisabile di per sé nella
violazione della norma, operata consapevolmente, senza scuse nell’errore
dei funzionari. (11) .
Autorevole dottrina, oggi,
sulla scorta del superamento del principio della colpa in re ipsa
(12), pone il problema della distinzione fra attività amministrativa (sic
et simpliciter) illegittima che consente il solo annullamento dell’atto
ed attività illegittima e colposa che consente al giudice amministrativo
non solo di annullare l’atto ma anche di condannare al
risarcimento del danno. Si è, fra l’altro,
argomentato che nel caso in cui ricorra l’errore scusabile, e
l’illegittimità è frutto di un errore non rimproverabile,
non ricorrerebbero gli estremi della colpa. Tale scusabilità
ricorrerebbe, sempre secondo l’a., nelle ipotesi in cui
possano mutuarsi i principi valevoli per il diritto penale ex art.
5 cp. o, ancora, nel caso di conflitti giurisprudenziali, di contrasti
interpretativi fra organi della p.a. e, persino, potrebbe operare - in via
analogica - l’art. 2236 c.c. in tema di responsabilità dei prestatori
d’opera intellettuale (13) .
E’
interessante, a questo punto, “rapportare” le suesposte considerazioni
dottrinali e giurisprudenziali con quanto statuito dai giudici
amministrativi nella sentenza in epigrafe (14) ove, fra i vari profili
problematici affrontati dai giudici amministrativi, anche l’analisi
dell’elemento soggettivo assume una particolare rilevanza.
La
V^ sez. del C.d.S. prende, preliminarmente, le distanze dall’opinione
dottrinaria che ammette una responsabilità dell’amministrazione per
l’adozione di atti illegittimi con carattere indennitario prescindendo
da un giudizio di imputabilità soggettiva dell’illecito. Osservano i
giudici come, pur non escludendo per il futuro forme di imputazione
oggettiva della responsabilità, allo stato attuale, anche alla luce
dell’autorevole indirizzo giurisprudenziale espresso dalla Corte di
Cassazione nella citata sentenza n. 500/99, non possa non riconoscersi che
anche la responsabilità dell’amministrazione conseguente all’adozione
di atti illegittimi resti ancorata ai principi espressi dagli artt. 2043 e
ss.gg. del c.c. . Si aggiunge, ancora, che la responsabilità della
pubblica amministrazione, correlata all’adozione di atti amministrativi
illegittimi, lesivi di posizioni giuridiche protette dall’ordinamento,
va costruita secondo le regole comuni stabilite dal diritto delle
obbligazioni. In questa prospettiva occorre intanto stabilire il
significato della equivalenza fra la colpa e la violazione delle regole di
imparzialità , di correttezza e di buona amministrazione.
E’
stato efficacemente sottolineato dalla dottrina più recente
che il rapporto amministrativo costituisce un’ipotesi qualificata
di contatto sociale tra i soggetti interessati e l’amministrazione . Il
dovere di comportamento del soggetto pubblico (e quindi la misura della
colpa) si definisce non solo in funzione delle specifiche regole che
disciplinano il potere , ma anche , e soprattutto, sulla base di criteri
diretti a valorizzare il concreto atteggiarsi di tale contatto , ed alla
progressiva emersione dell’affidamento del privato in ordine alla
positiva conclusione del procedimento.
Si
prosegue affermando che l’elemento soggettivo è riferito all’ente
riguardato nella complessiva struttura. Pertanto, il tradizionale concetto
della colpa deve evolversi verso una nozione più ampia, idonea a
comprendere l’intero svolgimento dell’attività provvedimentale
imputata all’amministrazione.
Sottolineano i magistrati
amministrativi come vi siano analogie fra i criteri enunciati dalla
Cassazione ed i vizi del provvedimento amministrativo. Ad esempio,
la violazione della regola l’imparzialità può essere ricondotta
al vizio di eccesso di potere, la violazione del principio di buon
andamento può ricondursi alla violazione di legge. Pur tuttavia a fronte
di una forte somiglianza tra i diversi parametri non può ritenersi che vi
sia equivalenza fra il giudizio di illegittimità e quello di accertamento
della colpa. Il rapporto tra i due gruppi di nozioni, si aggiunge ancora,
potrebbe essere inteso nel senso che la colpa è una mera specificazione
(aggravata) dei vizi del provvedimento. Anche alla luce di orientamenti
giurisprudenziali di matrice comunitaria si potrebbe dire che la colpa
sussisterebbe solo nei casi di illegittimità del provvedimento più grave
ed evidente con ciò introducendo una graduazione dell’illegittimità.
I
giudici, tuttavia, ritengono che tali argomentazioni non siano persuasive
e non non possano accogliersi.
La
colpa va riferita, infatti, al
processo generativo dell’atto illegittimo, alla sua attitudine a
pregiudicare gli affidamenti dei privati, e non alla misura delle
difformità dai parametri normativi che governano l’esercizio del potere
amministrativo. L’argomentare diversamente finirebbe con introdurre una
limitazione della responsabilità alla colpa grave senza un substrato
normativo.
Conclusivamente
nella prospettiva delineata dalla tesi criticata dai giudici
amministrativi si finirebbe, ancora, per connotare la responsabilità
dell’amministrazione con un elemento spiccatamente sanzionatorio
ove invece la funzione naturale della responsabilità è invece
quella di realizzare la protezione dell’interesse leso dall’attività
illegittima.
Demetrio Foti
NOTE:
(1)
Luisa Torchia, La responsabilità,
in Trattato di Diritto Amministrativo a cura di Sabino Cassesse,
tomo secondo, 1451.
(2)
Filippo Satta ,
Responsabilità della Pubblica Amministrazione in Enciclopedia del Diritto
XXXIX, 1988, 1369 e ss.gg. , Giuffrè Editore
(3)
v. nota a sent. Corte
Cass. Sez. I civ. 24 maggio 1991 n.5883, F.I. 1992, I, 453
(4)
Guido Alpa, La
responsabilità civile della pubblica amministrazione: l’attività
dannosa, pagg. 501-2 in “La responsabilità civile” una rassegna di
dottrina e giurisprudenza diretta da Guido Alpa e Mario Bessone,
UTET , 1987 )
(5)
Filippo Patroni Griffi, Riflessioni problematiche su alcuni elementi
dell’illecito in Le responsabilità Pubbliche di Domenico Sorace, 1998,
pagg.215 e ss. gg.,Cedam.
(6)
Filippo Patroni Griffi, cit.
(7)
Zanobini , Corso di Diritto Amministrativo , Milano, 1954, I, 341
(8) Francesco Caringella, Giudice
amministrativo e risarcimento del danno in “ Il nuovo processo
amministrativo” di F.
Caringella e Mariano Protto , Giuffrè Editore,
2001, pagg. 611 e ss.gg. .
(9) Cipriani, 14 giugno 1984, rep.
1986, voce responsabilità civile, n.119 e per esteso, in Giust. Pen.,
1986, III, 395 – v. nota a
sent. Corte Cass. Sez. lav. 6.maggio 1991, 4951 , Corte Cass. Sez. un.
civ. 12 aprile 1991, n. 3896, Corte Cass. sez. un. Civ. sent. 14 marzo
1991, 2723 in F.I. , 1992, I,
173).
(10)
F. Caringella, cit.
(11) Renato Sgroi, La responsabilità
civile verso i terzi dei dipendenti ed amministratori pubblici nella
giurisprudenza del giudice ordinario in Le responsabilità pubbliche di
Domenico Sorace, Cedam, 1998, 295.
(12) Cass s.u. civili,
sent. 22 luglio 1999, n. 500/99 in
F.I., 1999, I, 2487
(13) F. Caringella ,
cit. .
(14) Consiglio di Stato, sezione V,
decisione 24 aprile – 6 agosto 2001 n. 4239 Pres. Trovato, Rel. Lipari
- Guida al Diritto, 8 settembre 2001, 76.
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