inserito in Diritto&Diritti nel maggio 2003

La semplificazione amministrativa e le riforme

di Renzo Remotti

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Dalla semplificazione legislativa all’amministrativa

 

Il presente saggio ha lo scopo di analizzare alcuni aspetti del complesso fenomeno giuridico, che va sotto il nome di semplificazione. Anche per quest’aspetto delle riforme amministrative madre di tutti gli atti normativi è la legge 15 – 3 – 1997, n. 59.  

Con tale termine si intendono due fatti giuridici ben diversi. Da un lato nel concetto di semplificazione vengono comprese tutte quelle operazioni legislativo – governative tese a raccogliere in un unico testo o comunque in un’unica legge tutta la normativa di un particolare settore. Tale fonte giuridica va sotto il nome di testo unico.

Dall’altro semplificazione significa snellimento del procedimento amministrativo

Qui di seguito si denominerà semplificazione legislativa la prima forma; amministrativa la seconda. L’art. 17 della l. 23 – 8 – 1988, n. 400 ha introdotto nel nostro ordinamento i regolamenti fonte di diritto, atto normativo con cui prevalentemente si introducono testi unici; il capo IV della legge 7 – 8 – 1990, n. 241 ha dato l’avvio alla semplificazione amministrativa;        .

La prima norma che regolamentò espressamente i testi unici fu l’art. 16 n. 3 r. d. 26/06/1924, n. 1054, secondo la quale è possibile compilare un testo unico previo parere del consiglio di Stato “sopra tutti i coordinamenti in testi unici di leggi e regolamenti, salvo che non sia diversamente stabilito per legge.”

Il vero problema intorno ai testi unici però, riguardava il loro valore di fonte del diritto o in altre parole quanto siano vincolanti e cosa accade nell’ipotesi che un testo unico sia in contrasto con una legge vigente. Secondo ZAGREBELSKI (Il sistema costituzionale delle fonti del diritto, UTET 1984, pag. 172) bisogna distinguere tra testi unici innovativi e meramente compilativi. I primi introducono nuove norme nell’ordinamento giuridico, anche se magari la maggior parte già vigente;  mentre i secondi si limitano a raccogliere e coordinare in un unico testo le norme di leggi vigenti di un determinato settore. I primi vengono emanati attraverso decreto legislativo, mentre i secondi con un decreto del Presidente della Repubblica.

Da un punto di vista pratico se ci si trova davanti un decreto legislativo, non è necessaria alcuna ricerca normativa ulteriore in quanto dal momento della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, trascorso il tempo di cui l’art. 77 della Costituzione, essi diventano l’unica fonte giuridica in materia. Se al contrario ci troviamo di fronte ad un D.P.R. è necessario verificare che non esistano altre leggi in contrasto con esso, perché in questa seconda ipotesi prevarrebbe la legge pre-vigente.  La gran parte dei testi unici emanati recentemente, hanno assunto la forma del DPR.

La ratio di questa impostazione si fonda sul principio costituzionale della rappresentanza democratica, vale a dire fonti di produzione innovativa possono essere soltanto quelle coperte dalla rappresentanza politica di maggioranza. Per comprendere meglio, tuttavia, la profonda differenza tra il metodo di approvazione del decreto legislativo e del decreto del presidente della repubblica di cui agli articoli 14 e 17 della legge 23\08\1988, n. 400.

Il procedimento di emanazione del decreto legislativo è complesso iniziando con una delega legislativa che stabilisce i limiti e i tempi entro cui il governo deve emanare il nuovo decreto legislativo. Periodicamente il governo informa le Camere di come stanno procedendo i lavori e, se la delega stabilisce tempi più ampi di due anni, i due rami del Parlamento esaminano la bozza del decreto legislativo che il governo intende emanare e rilasciano parere attraverso le Commissioni Permanenti entro sessanta giorni. Nel caso il parere non sia favorevole, il testo viene ritrasmesso al governo, che rielabora il testo e lo ritrasmette nuovamente alle Commissioni Permanenti per il parere definitivo da emanarsi entro trenta giorni. Una volta che le varie commissioni governative hanno espresso pareri tecnici e i diversi uffici legislativi hanno elaborato il testo si trasmette la proposta di decreto legislativo definitiva al Presidente della Repubblica per la promulgazione.

Completamente diverso il procedimento di formazione del decreto del presidente della repubblica. In base all’art.17, 2 comma, l. 400\90 il decreto del Presidente della Repubblica può regolare esclusivamente materie non coperte da riserva assoluta di legge.

Le norme entrano in vigore, in questa seconda ipotesi,  attraverso un Decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il Consiglio di Stato, su materie che la legge espressamente rimanda a successivi regolamenti. E’ chiaro che in quest’ipotesi la legittimazione democratica dell’atto si fonda sul rinvio che le medesima legge introduce, ma è altrettanto vero che il governo rimane piuttosto libero di introdurre nuove norme.

Il problema si pone con particolare riguardo per i testi unici compilativi, che sono ai sensi del già citato articolo 17 della stessa legge subordinati al testo legislativo con cui sono autorizzati.

E’ indubbio che tali testi sono lungi dal semplificare, essendo piuttosto fonte di ulteriori complicazioni e incertezze normative. Secondo autorevole dottrina “del resto, anche a ritenere che tali testi assumano un valore formale di norme secondarie, come talora si ritiene,  no si manca di rilevare che tali raccolte di norme, invece che condurre ad una semplificazione della vita dell’ordinamento, sono causa di ulteriori complicazi9oni, essendo sempre aperta la questione della loro conformità con le fonti anteriori che, disponendo di una efficacia primaria, non possono esser in questo modo sostituite dal Governo. Perciò si alimentano, non si riducono, le incertezze.” ( ZAGREBELSKI, op. cit., pag. 173 )

Una prova di tale problematica si è verificata proprio con il T.U. 29 – 10 – 1999, n. 490 in materia di beni culturali e ambientali. Il testo unico, di natura compilativa, perciò non fonte di produzione, avrebbe dovuto raccogliere in un unico luogo tutta la normativa riguardante i beni culturali. Il comma 1 dell’art. 107, tuttavia, sancisce: “I documenti conservati negli archivi di Stato sono liberamente consultabili, ad eccezione di quelli dichiarati di carattere riservato a norma dell'articolo 110 relativi alla politica estera o interna dello Stato, che diventano consultabili cinquanta anni dopo la loro data, e di quelli riservati relativi a situazioni puramente private di persone, che lo diventano dopo settanta anni. I documenti dei processi penali sono consultabili settanta anni dopo la data della conclusione del procedimento.” Il decreto legislativo 30 – 7 – 1999, n. 281, fonte di produzione in materia di trattamento di dati personali per finalità storiche, scientifiche e ricerca scientifica, all’art. 8, comma 2, lettera a) stabilisce: “nel primo comma, le parole da: ", e di quelli riservati relativi a situazioni puramente private" fino alla fine del comma sono sostituite dalle seguenti:

"e di quelli contenenti i dati di cui agli articoli 22 e 24 della legge 31 dicembre 1996, n. 675, che diventano liberamente consultabili quaranta anni dopo la loro data. Il termine è di settanta anni se i dati sono idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale o rapporti riservati di tipo familiare. Anteriormente al decorso dei termini di cui al presente comma, i documenti restano accessibili ai sensi della disciplina sull'accesso ai documenti amministrativi; sull'istanza di accesso provvede l'amministrazione che deteneva il documento prima del versamento o del deposito"”

Come si vede chiaramente si tratta di due norme palesemente in contraddizioni né si tratta di argomento di scarso rilievo, dato che coinvolge un bene giuridico fondamentale come è la privacy.  Soltanto una opportuna circolare ministeriale ha potuto rimediare all’incertezza legislativa creata, stabilendo la prevalenza del decreto legislativo nel rispetto dei principi sulle fonti del diritto. La semplificazione legislativa ha provocato solo un moltiplicarsi di fonti giuridiche con tutti i problemi che tale situazione comporta. 

Tutt’altro discorso bisogna invece fare per ciò che si è denominata semplificazione amministrativa. In quest’ipotesi tutte le perplessità sollevate precedentemente sono dissipate, rientrando questa seconda forma in un miglioramento dell’attività amministrativa e, aspetto non meno rilevante, nell’armonica conseguenza dei principi analizzati in altro saggio relativi al concetto di interesse legittimo.

Infatti la semplificazione amministrativa permette alla pubblica amministrazione di essere più rapida e più efficace, garantendo meglio il diritto di controllo sull’azione amministrativa da parte dei cittadini. Si analizzeranno ora alcuni istituti propri del processo di semplificazione amministrativa.

 

 

La conferenza di servizi secondo il DLL 1281.

 

Il primo organismo di semplificazione dell’azione amministrativa è senza dubbio la conferenza di servizi. L’istituto subirà radicali mutamenti, in seguito all’approvazione il 10 aprile 2003 da parte del Senato del DLL 1281, atto di cui si terrà conto, benché non sia ancora entrato in vigore. Ai sensi dell’art. 14, 1 comma, della l. 241\90 “qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo, l’amministrazione procedente indice di regola una conferenza di servizi”. Invariata rimane, perciò, la distinzione tra fase istruttoria e decisoria. La prima ha lo scopo di esaminare gli interessi pubblici coinvolti nella procedura, acquisendo elementi di natura istruttoria direttamente dalle amministrazioni coinvolte; la seconda dedicata alla decisione finale. La fase istruttoria non subisce alcun mutamento, perché è uno stadio, che, pur essenziale, non fa scaturire effetti giuridici costitutivi, modificativi o estintivi.

Il comma successivo, invece, ha creato diversi problemi per ciò che il termine esatto, da cui far decorrere il termine prescritto per l’obbligatorietà dell’indizione della conferenza. “la conferenza di servizi è sempre indetta quando l’amministrazione procedente deve acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche e non li ottenga entro quindici giorni dall’inizio del procedimento, avendoli formalmente richiesti”. Il nuovo testo non lascia più dubbi: “è sempre indetta quando l'amministrazione procedente debba acquisire intese, concerti, nullaosta o assensi comunque denominate di altre amministrazioni pubbliche e non preveda di ottenerli, o comunque non li ottenga, entro trenta giorni dalla ricezione, da parte dell’amministrazione competente, della relativa richiesta.” Ciò significa che il termine inizia a decorrere dal momento, in cui l’amministrazione invitata è venuta a conoscenza della richiesta.

La conferenza di servizi si configura come organo squisitamente collegiale, che assume le proprie decisioni a maggioranza dei presenti (art. 14-ter, comma 1) e in seno a cui confluiscono più amministrazioni coinvolte in un unico procedimento al fine di assumere una decisione unitaria e, per quanto possibile, rapida.

Di conseguenza l’organismo ha una doppia valenza giuridica. Da un lato ha la finalità di ridurre i passaggi di una pratica da amministrazione ad amministrazione (si pensi al procedimento per i lavori pubblici ove sono spesso coinvolti Comune, Regione e Stato ), riducendo anche i tempi decisionali. Dall’altro lato, tuttavia, la conferenza di servizi ha lo scopo di impedire contraddittorietà decisionali da ente a ente, problema che potrebbe, e di fatto ha spesso creato, paralisi nell’attività amministrativa, situazione dovuta, è bene precisare, non da obiettive ragioni giuridiche, perché in questo caso la P.A. sarebbe pienamente legittimata ad interrompere il procedimento, ma piuttosto da incomprensioni o fraintendimenti necessariamente creati da un’organizzazione amministrativa troppo frammentaria, non più adatta alla realtà socio-economica attuale.

Il problema giuridico della conferenza di servizi è dovuto al fatto che la norma che la prevede non introduce un obbligo giuridico alla sua formazione, lasciando forse un’eccessiva discrezionalità alla pubblica amministrazione la decisione di convocarla o meno. E’ stata introdotta la possibilità di indire la conferenza anche in caso di dissenso di un’amministrazione nel successivo periodo. “La conferenza può essere altresì indetta quando nello stesso termine è intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate.” Il comma 3 dell’art. 14 rimane nella prima parte invariato, ma si estende il procedimento della conferenza anche ai lavori pubblici e può essere convocata o dal concedente, che in ogni caso avrebbe diritto di voto, o dal concessionario.

Ai sensi dell’art. 14 bis la conferenza può essere convocata per progetti di particolare complessità o, con un’opportuna modifica, quando sono coinvolti insediamenti di beni e servizi. Altre modifiche sono di scarso rilievo.

Ai sensi dell’art. 14-ter modificato la convocazione della conferenza deve pervenire, anche per via telematica o informatica alle amministrazioni interessate entro tempi ben definiti. “La prima riunione della conferenza di servizi è convocata entro quindici giorni lavorativi ovvero, in caso di particolare complessità dell’istruttoria, entro trenta giorni lavorativi dalla data di indizione.” E’ possibile il rinvio di dieci giorni, ma si tratta di termini, comunque, privi di sanzioni, definibili ordinatori.

Nella prima riunione le amministrazioni sono tenute a determinare il termine per l'adozione della decisione conclusiva. Poiché si tratta di una decisione, essa va assunta a maggioranza dei presenti (art. 14-ter, comma 3).

La fissazione del termine è di fatto obbligatoria, perché in questo caso: “all’esito dei lavori della conferenza, e in ogni caso scaduto il termine di cui al comma 3, l’amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione del procedimento, valutate le specifiche risultanze della conferenza e tenendo conto delle posizioni prevalenti espresse in quella sede.” (comma 6 bis, aggiunto)

La legge non fissa un termine perentorio per la conclusione dei lavori della conferenza, lasciando la decisione alla libera determinazione delle amministrazioni.

Nell'ambito della conferenza, ogni amministrazione convocata partecipa con un unico rappresentante, legittimato ad esprimere il voto. Questo rappresentante ricava la sua legittimazione in base ad una deliberazione degli organi – anche collegiali – istituzionalmente competenti, che gli conferisca il potere di esprimere in modo definitivo e vincolante la volontà dell'amministrazione e di fatto agisce in nome e per conto dell’amministrazione d’appartenenza. (comma 6)

Nell'ambito della conferenza dei servizi, potranno essere richiesti ai proponenti dell'istanza chiarimenti o ulteriore documentazione solo per una volta. La mancata presentazione dei chiarimenti o documentazione, determina una sospensione del termine finale della conferenza, fino alla loro ricezione (comma 8).

Il dissenso deve essere espresso, perché in caso contrario si presume l’assenso dell’amministrazione rappresentata (comma 7).

Radicali modifiche ha subito l’art. 14-quater “Se il motivato dissenso è espresso da un’amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, la decisione è rimessa dall’amministrazione procedente, entro dieci giorni: a) al Consiglio dei ministri, in caso di dissenso tra amministrazioni statali; b) alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, di seguito denominata «Conferenza Stato-regioni», in caso di dissenso tra un’amministrazione statale e una regionale o tra più amministrazioni regionali; c) alla Conferenza unificata, di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, in caso di dissenso tra un’amministrazione statale o regionale e un ente locale o tra più enti locali. Verificata la completezza della documentazione inviata ai fini istruttori, la decisione è assunta entro trenta giorni, salvo che il Presidente del Consiglio dei ministri, della Conferenza Stato-regioni o della Conferenza unificata, valutata la complessità dell’istruttoria, decida di prorogare tale termine per un ulteriore periodo non superiore a sessanta giorni.

    3-bis. Se il motivato dissenso è espresso da una regione o da una provincia autonoma in una delle materie di propria competenza, la determinazione sostitutiva è rimessa dall’amministrazione procedente, entro dieci giorni: a) alla Conferenza Stato-regioni, se il dissenso verte tra un’amministrazione statale e una regionale o tra amministrazioni regionali; b) alla Conferenza unificata, in caso di dissenso tra una regione o provincia autonoma e un ente locale. Verificata la completezza della documentazione inviata ai fini istruttori, la decisione è assunta entro trenta giorni, salvo che il Presidente della Conferenza Stato-regioni o della Conferenza unificata, valutata la complessità dell’istruttoria, decida di prorogare tale termine per un ulteriore periodo non superiore a sessanta giorni.

3-ter. Se entro i termini di cui ai commi 3 e 3-bis la Conferenza Stato-regioni o la Conferenza unificata non provvede, la decisione, su iniziativa del Ministro per gli affari regionali, è rimessa al Consiglio dei ministri, che assume la determinazione sostitutiva nei successivi trenta giorni, ovvero, quando verta in materia non attribuita alla competenza statale ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, e dell’articolo 118 della Costituzione, alla competente Giunta regionale ovvero alle competenti Giunte delle province autonome di Trento e di Bolzano, che assumono la determinazione sostitutiva nei successivi trenta giorni; qualora la Giunta regionale non provveda entro il termine predetto, la decisione è rimessa al Consiglio dei ministri, che delibera con la partecipazione del Presidente della regione interessata.

3-quater. In caso di dissenso tra amministrazioni regionali, i commi 3 e 3-bis non si applicano nelle ipotesi in cui le regioni interessate abbiano ratificato, con propria legge, intese per la composizione del dissenso ai sensi dell’articolo 117, ottavo comma, della Costituzione, anche attraverso l’individuazione di organi comuni competenti in via generale ad assumere la determinazione sostitutiva in caso di dissenso.
    3-quinquies. Restano ferme le attribuzioni e le prerogative riconosciute alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano dagli statuti speciali di autonomia e dalle relative norme di attuazione.”

 

La comunicazione istituzionale: U.R.P. e uffici stampa.

 

Altro strumento di semplificazione è l’insieme degli strumenti atti alla comunicazione pubblica. In questo saggio si preferirà, tuttavia, l’espressione comunicazione istituzionale, per evitare, come subito si vedrà, spiacevoli fraintendimenti.  Con questo termine si intende ogni attività tesa a dare informazioni sull’attività della pubblica amministrazione a una genericità indefinita di persone.

A ben vedere nessun articolo della costituzione italiana introduce direttamente un obbligo di informazione da parte della pubblica amministrazione. Verso la metà degli anni ’80 di fronte al prolificare di leggi e al conseguente pericolo che queste non vengano a conoscenza degli interessati, pur in buona fede, si è iniziato a sollevare il problema anche da un punto di vista giuridico su come mettere i cittadini nelle condizioni di conoscere tempestivamente le norme, cui sono sottoposti.

L’antica massima ignoratia legis non excusat, in una società dal diritto tanto mutevole quale è la contemporanea non solo è anacronistico, ma può anche creare situazioni di grave iniquità. Come si può pretendere di rendere vincolanti norme di non immediata percezione, se lo stato non fa in modo che siano per lo meno facilmente conoscibili agli interessati? Non solo ma ogni società a seconda del proprio livello tecnologico utilizza diversi mezzi di comunicazione. Fino alla metà degli anni ’50 del secolo scorso la carta stampata costituiva il normale mezzo di diffusione delle notizie; immediatamente dopo si affiancarono i mass-media (radio etc.); ora infine gli strumenti informatici. Affinché le norme siano facilmente conoscibili, è chiaro che non solo lo stato debba usare gli strumenti di informazione, ma è anche ragionevole che usi i mezzi usati dalla maggioranza dei cittadini.

Perché, tuttavia, ipotizzare un obbligo alla comunicazione istituzionale? Vi sono norme che per il solo fatto di tutelare valori universali (la vita, la proprietà privata etc.) si presumono conosciute da tutti, anche perché costituiscono quel minimum del vivere sociale, senza il quale non sarebbe possibile instaurare un qualsiasi legame umano. Altre norme, invece, sono di natura puramente convenzionali, adottate solo per situazioni contingenti. In questa seconda ipotesi la comunicazione diventa indispensabile. 

Con sentenza n. 364\88 la corte costituzionale per la prima volta introduce nel nostro ordinamento la scusabilità dell’ignorantia legis. Stabilisce la massima: “E' illegittimo l'art. 5 c.p. nella  parte,  in cui   non  esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza  della  legge  penale l'ignoranza inevitabile, atteso  il  combinato disposto del comma 1 e 3 dell'art. 27  cost.,  nel   quadro  delle  fondamentali direttive  del  sistema costituzionale  desunte soprattutto  dagli  artt. 2, 3, 25 comma 2, 73 comma 3 cost., le quali pongono l'effettiva possibilità di conoscere la  legge penale  quale ulteriore requisito minimo d'imputazione, che viene  ad  integrare e  completare  quelli  attinenti alle  relazioni   psichiche tra soggetto e fatto, consentendo la valutazione e, pertanto, la     rimproverabilità del fatto complessivamente considerato.”

Secondo i giudici costituzionali la pubblica amministrazione non può limitarsi a porre in essere attività amministrativa esclusivamente di tipo sanzionatorio ma deve informare i cittadini delle conseguenze legali che il loro comportamento potrebbe far sorgere. Tuttavia questa sentenza si riferisce solo ai reati fiscali o comunque alla materia penale.

Due anni dopo con sentenza n. 348 la corte costituzionale estese l’obbligo ad ogni attività amministrativa sulla base del principio democratico e della libertà di pensiero. Inoltre benché la sentenza fosse nata da un caso di materia di competenza regionale, la Corte esplicitamente estende l’obbligo di comunicazione a tutti gli enti pubblici. Anzi: “qualsivoglia soggetto organo rappresentativo, investito di competenze di natura politica, non può risultare estraneo all’impiego dei mezzi di comunicazione di massa […] quello delle informazioni che la regione è tenuta ad offrire ai cittadini in ordine alle proprie attività e ai propri programmi e quella delle informazioni che la regione può ricevere dalla società regionale e che concorrono a determinare la partecipazione di tale società alle scelte, attraverso cui si esprime l’indirizzo politico e amministrativo regionale.” Secondo i giudici della Costituzione l’obbligo scaturisce, dunque, dal principio democratico di offrire a tutti la possibilità di partecipare alle scelte degli organi politico-amministrativi. Sul piano squisitamente costituzionale la comunicazione trova la propria ratio più profonda sul diritto che ogni cittadino ha di agire consapevolmente. Se la legge collega determinate conseguenze a certi comportamenti, tanto più se questi su un piano ideale potrebbero essere tanto illeciti quanto leciti, è chiaro, anche in ordine all’art. 27 cost., che chi esercita la potestà legislativa (stato, regione etc.) abbia il dovere di indicare a colui che pone in essere quelle determinate azioni le conseguenze previste.

Si ritiene, comunque, che la comunicazione di enti pubblici trovi un limite nel diritto alla manifestazione del pensiero (art. 21 cost.). In pratica l’informazione non deve spingersi fino a influenzare le opinioni dei cittadini, cui è pure diretta; non deve in particolare trasformarsi in una forma di propaganda, tesa a convincere. Essa si deve limitare a informare o, in particolari casi, in cui si ravvedono preminenti interessi pubblici (tutela della salute etc.), a orientare gli usi sociali in direzione del bene collettivo e individuale. D’altra parte, poiché la comunicazione di un ente pubblico non si differenzia da una qualsiasi altra attività amministrativa, essa è sottoposta ai principi di cui all’art. 97 cost., con particolare riguardo all’imparzialità. Perciò in questo saggio si utilizza l’espressione di comunicazione istituzionale al fine di sottolineare che essa è a servizio dei fini istituzionali, non politici, cui è preposto ciascun ente pubblico.

Tale impostazione è confermata dall’art. 3 l. 150\00 e in particolare dal primo comma: “La Presidenza del Consiglio dei Ministri determina i messaggi di utilità sociale ovvero di pubblico interesse, che la concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo può trasmettere a titolo gratuito. Alla trasmissione di messaggi di pubblico interesse previsti dal presente comma sono riservati tempi non eccedenti il due per cento di ogni ora di programmazione e l'uno per cento dell'orario settimanale di programmazione di ciascuna rete. Le emittenti private, radiofoniche e televisive, hanno facoltà, ove autorizzate, di utilizzare tali messaggi per passaggi gratuiti.” L’attività informativa è tesa prima di tutto alla realizzazione dell’interesse nazionale.

Gli anni ’90 sono caratterizzati da molti provvedimenti legislativi che hanno incentivato l’introduzione della comunicazione istituzionale. I principali sono:

 

la legge Mammì n. 223\90, legge con cui si riconosce la possibilità ai privati di avere in proprietà mezzi di comunicazione di massa a partire dalla televisione e alla telefonia.

Le leggi 142\90 e la 241\90 che, introducendo sia negli enti locali che nello Stato i principi della trasparenza e dell’efficienza, hanno imposto alla pubblica amministrazione un nuovo modo di dialogare con i cittadini.

L’articolo 12 del D.Lgs n. 29\93 (ora 11 d.lgs. 165\01 s.m.) istituzionalizza l’URP in tutti gli uffici pubblici.

 

Le innovazioni non terminano qui. Vengono introdotte carte dei servizi pubblici, che ora devono essere pubblicizzate per rendere i servizi fruibili a tutti i potenziali utenti; si vara un completo piano di informatizzazione degli uffici pubblici con il progetto denominato e-governement, la cui attuazione conclusiva presuppone la predisposizione di strumenti di dialogo via internet tra cittadini e responsabili amministrativi.

La legge 7 – 6 – 2000, n. 150, infine, ha introdotto la figura professionale del comunicatore pubblico. L’art. 5 della citata legge prevede l’adozione da parte del governo di un regolamento che dia attuazione alla riforma attraverso la previsione di due diverse discipline, una definitiva e una transitoria di prima applicazione, destinate la prima a individuare i titoli per l’accesso del personale da utilizzare per le attività di informazione e comunicazione; la seconda a predisporre interventi formativi e di aggiornamento per la conferma nella funzione del personale che già svolge attività di informazione e comunicazione nelle pubbliche amministrazioni. In questo caso la riforma ha saputo trovare il giusto equilibrio tra innovazione e garanzia per le posizioni acquisite. Il regolamento d’attuazione successivo - D.P.R. 21 – 9 – 2001, n. 422 - ha confermato quest’impostazione. Infatti l’art. 2, comma 2 è molto chiaro per quanto concerne i titoli necessari per i comunicatori pubblici: “per il personale appartenente a qualifica dirigenziale e per il personale appartenente a qualifiche comprese nell'area di inquadramento C del contratto collettivo nazionale di lavoro per il comparto Ministeri o in aree equivalenti dei contratti collettivi nazionali di lavoro per i comparti di contrattazione riguardanti le altre amministrazioni pubbliche cui si applica il presente regolamento, è richiesto il possesso del diploma di laurea in scienze della comunicazione, del diploma di laurea in relazioni pubbliche e altre lauree con indirizzi assimilabili, ovvero, per i laureati in discipline diverse, del titolo di specializzazione o di perfezionamento post-laurea o di altri titoli post-universitari rilasciati in comunicazione o relazioni pubbliche e materie assimilate da università ed istituti universitari pubblici e privati, ovvero di master in comunicazione conseguito presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione e, se di durata almeno equivalente, presso il Formez, la Scuola superiore della pubblica amministrazione locale e altre scuole pubbliche nonché presso strutture [...]” Come si può notare coloro che verranno assunti con i prossimi concorsi dovranno possedere già una preparazione specialistica in materia di comunicazione o pubbliche relazioni. In realtà il regolamento stabilisce una precisa distinzione. Per il personale direttivo o dirigente degli U.R.P. si richiede semplicemente una preparazione o universitaria o post-universitaria, mentre per coloro con analoghe qualifiche che sono inseriti negli uffici stampa è necessaria anche l’iscrizione all’albo dei pubblicisti (art. 3 D.P.R. citato) Al contrario nessun titolo è richiesto per il personale esecutivo.

Ai sensi del successivo art. 6 le amministrazioni pubbliche possono confermare il personale già impiegato in detti ruoli, dopo aver organizzato un corso di aggiornamento avvalendosi delle varie scuole per la formazione del personale pubblico a beneficio di coloro che non sono in possesso dei titoli professionali richiesti dalla nuova normativa.     

   Due, dunque, sono le istituzioni preposte alla comunicazione istituzionale: gli uffici relazioni con il pubblico e gli uffici stampa.

L’introduzione nel nostro ordinamento degli Uffici per le Relazioni con il Pubblico è avvenuta con l’art. 12 del D. lgs 29\93.

L’obiettivo del legislatore era molto chiaro. Da una parte si mirava a dare veste istituzionale alla emergente cultura della trasparenza amministrativa  e della qualità dei servizi, come previsto dalle leggi 241\90 e 142\90. Dall’altra si intendeva fornire uno strumento organizzativo ad una accresciuta sensibilità nel campo della comunicazione istituzionale e  dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione. I compiti di informazione, garanzia, accesso, verifica della soddisfazione degli utenti.

Compiti principali degli uffici relazioni con il pubblico sono dunque:

 

porsi al servizio dell'utenza per i diritti di partecipazione di cui al capo III della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni ed integrazioni;

fornire servizi d’informazione all'utenza relativa agli atti e allo stato dei procedimenti;

svolgere ricerca e analisi finalizzate alla formulazione di proposte alla propria amministrazione sugli aspetti organizzativi e logistici del rapporto con l'utenza. (art. 11, comma 2, D.P.R. 165\01 s.m.)

 

 Da questi punti è chiaro che l’U.R.P. non costituisce solo uno strumento di ascolto dei bisogni degli utenti da parte delle amministrazioni, ma soprattutto una leva per il loro miglioramento interno. L’U.R.P., pertanto, rappresenta una sorta di mediatore tra l’organizzazione burocratica e il relativo bacino d’utenza, una mediazione che, a livello giuridico, deve avvenire tra interessi legittimi e interessi privati, collettivi e diffusi. Perciò questo tipo di ufficio è l’istituzione che più rappresenta il processo di semplificazione amministrativa. La sua ratio è esattamente svolgere quel ruolo di cernita e valutazione dei vari interessi per trovare una linea d’azione il più possibile coerente e rispettosa dell’ordine legale. Un altro punto di forza di questi uffici è che rimangono all’esterno del processo di decisione degli atti e provvedimenti della pubblica amministrazione. Questa posizione li rende più liberi di valutare quanto la propria amministrazione è capace di comunicare con la propria utenza.

La normativa in materia non trascura gli aspetti, ormai essenziali dell’informatizzazione, poiché, in base all’art. 11 comma 6 del d.lgs 165\2001 il responsabile dell’U.R.P. ha la possibilità di promuovere progetti di miglioramento del livello d’informatizzazione dell’amministrazione, in seno a cui opera.

Probabilmente il progetto più completo e che meglio si adatta all’ufficio relazioni con il pubblico è un ampio studio predisposto dall’OCSE chiamato “La pubblica amministrazione come datore di lavoro ideale” e destinato a descrivere l’ufficio ideale. Secondo il piano di comunicazione 2003 redatto dal Dipartimento per la funzione pubblica un ufficio è ideale se: 

 

è un “campo di innovazione della relazione tra pubblica amministrazione e cittadino, capace cioè di riassumere e sviluppare al meglio le tre dimensioni del servizio pubblico: accesso, offerta e interazione;”

 

diventa “posto di lavoro che si ispira ad un vero e proprio benessere organizzativo: obiettivo fin d’ora strategico per molti paesi Ocse i quali intendono accrescere la competitività del datore di lavoro pubblico sul mercato del lavoro, finora penalizzata da bassi livelli salariali, immagine negativa del settore pubblico e cattive politiche di gestione delle risorse umane.”

 

Si tratta di una politica organizzativa del tutto innovativa per la pubblica amministrazione, politica non può essere ignorata. Il secondo punto, in particolare, è un importante aspetto che dovrà essere maggiormente curato dagli stessi U.R.P., in quanto si potrà migliorare il rapporto cittadino pubblica amministrazione a patto che vi sia un più alto livello di benessere organizzativo.

La legge 7 giugno 2000, n. 150, ha certo modificato e riordinato il ruolo degli U.R.P., ma ha riorganizzato soprattutto gli uffici stampa.

Ogni ufficio stampa deve essere diretto da un coordinatore. Questi, ai sensi del comma 3 art. 9 della citata legge: “[…] assume la qualifica di capo ufficio stampa, il quale, sulla base delle direttive impartite dall'organo di vertice dell'amministrazione, cura i collegamenti con gli organi di informazione, assicurando il massimo grado di trasparenza, chiarezza e tempestività delle comunicazioni da fornire nelle materie di interesse dell'amministrazione.” Le attività di questo ufficio rimangono, pertanto, quelle tradizionali, ma ciò che cambia è l’obiettivo. Da un ufficio stampa che si limita a inviare comunicati ai vari giornali si passa a un ufficio stampa che partecipa e, si può dire, completa l’attività amministrativa, diventando l’organo principale destinato a rendere visibile l’operare dei pubblici poteri. Si richiede un’elevata professionalità in materia di comunicazioni, proprio perché il coordinatore e i vari operatori hanno il delicato compito di mediare attraverso la loro attività tra gli enti pubblici, per i quali lavorano, e l’opinione pubblica. Anche per questi uffici, in quanto parte della pubblica amministrazione, l’imparzialità rimane il valore principale e inderogabile. (Per approfondimenti: ABRUZZO F., Dopo la legge 150\2000 un nuovo modo di comunicare delle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici, in Diritto & Diritti - Rivista giuridica elettronica, pubblicata su Internet all'indirizzo http://www.diritto.it , ISSN 1127-8579, Novembre 2000, pag. http://www.diritto.it/articoli/amministrativo/abruzzo1.html)

 

Il d.p.r. 28/12/2000, n. 445

 

Il “Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”, d.p.r. 28/12/2000, n. 445 è un tipico esempio di regolamento compilativo. Tale atto legislativo, infatti, non introduce nuove norme, ma si limita a organizzare in un unico testo le regole, che nel tempo sono state introdotte nel nostro ordinamento in materia di documentazione amministrativa.

Ai fini del testo è documento amministrativo “ogni rappresentazione, comunque formata, del contenuto di atti, anche interni, delle pubbliche amministrazioni o, comunque, utilizzati ai fini dell’attività amministrativa”.

Allo stesso tempo viene definito documento informatico “la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”. Il combinato disposto di queste due definizioni estendono, dunque, la natura giuridica di documento giuridicamente vincolante a qualunque atto che provenga da un’amministrazione pubblica, con la conseguenza che anche documenti formati da un supporto informatico possono essere considerati atti o provvedimenti amministrativi. Sono tali, per esempio, purché rispettino determinate regole tecniche dettate dall’Autorità informatica per la pubblica amministrazione, la documentazione reperita da spazi web ( moduli, ecc…) di pubbliche amministrazioni, le e-mail e le newsletter, sempre che contengano gli elementi essenziali e accidentali di ogni atto o provvedimento amministrativo (competenza etc.).

Anzi, ai sensi dell’art.9 del citato T.U., tale documentazione costituisce fonte primaria e originale, con la conseguenza che può essere, se la legge lo consente, riprodotta e fotocopiata, come se si trattasse di documenti originali.

Un uso che normalmente viene realizzato attraverso questa nuova normativa è il rilascio di certificati da parte degli uffici anagrafici dei comuni. Affinché il documento abbia valore legale è necessario che siano facilmente identificabili almeno l’amministrazione di provenienza e il funzionario che ha formato l’atto ( art.9, comma 2 ).

Poiché il Ministero per i Beni e le Attività culturali ha una struttura di ricerca in materia archivistica (l’amministrazione centrale degli archivi) le regole tecniche devono essere emanate su proprio parere, mentre, al fine di garantire la sicurezza degli apparati informatici amministrativi, intervengono anche il Ministero della Difesa, dell’Interno e delle Finanze. Resta invece ferma la competenza in materia informatica all’AIPA.

Per quanto concerne quest’ultimo tipo di sicurezza fin dall’ottobre 1999 l’AIPA stabilì le dieci regole guida essenziali da applicare a qualsiasi rete della pubblica amministrazione, ossia:

 

Tutti i componenti, HW e SW, sono "fail safe", tali cioè che ogni loro malfunzionamento o messa fuori operazione non comporti una diminuzione della sicurezza di esercizio, eventualmente anche attraverso una messa fuori uso della particolare stazione interessata;

le responsabilità dell’esercizio e dei controlli interni di sicurezza sono affidate a persone distinte e collocate nella struttura organizzativa in modo tale che in alcun modo il responsabile dell’esercizio possa influire sulla carriera/retribuzione del responsabile dei controlli interni di sicurezza;

sono adeguate le procedure per l’accertamento della qualità delle verifiche effettuate dal responsabile dei controlli interni di sicurezza sull’operato del team di gestione;

è sempre possibile individuare, inequivocabilmente, in un apposito "activity log file", l’autore di una qualsiasi operazione;

è garantita, al di là di ogni dubbio, l’integrità di questo log file e la sua disponibilità nel tempo per il periodo concordato;

è sempre possibile ripristinare il sistema di fronte a guasti od eventi, naturali o dolosi, allo stato in cui si trovava, prima del verificarsi dell’evento stesso, in un certo tempo concordato a priori tra le parti;

è garantita l’integrità del SW, ad ogni livello, dal sistema operativo alle applicazioni, e dei relativi file di configurazione;

è convincente il programma dei test di penetrazione, sia interna che esterna, effettuati periodicamente, secondo la frequenza concordata;

sono adeguate le procedure per l’effettuazione delle varie operazioni di manutenzione e per il trattamento dei supporti di memorizzazione di massa obsoleti;

è convincente il programma di accertamento della qualità dei controlli sull’aggiornamento continuo del HW e del SW, del controllo della completa sincronizzazione delle versioni, aggiornate tempestivamente, dello stesso SW, all’aggiornamento delle varie "patches" distribuite dai fornitori per chiudere i vari "buchi", man mano che vengono scoperti. 

Il documento completo è reperibile all’indirizzo:

http://www.aipa.it/servizi[3/pubblicazioni[5/quaderni[3/quaderni_2.pdf

 

Il problema giuridico essenziale è che il documento amministrativo, specialmente di natura provvedimentale, garantisca la certezza della firma.

Sulla base di direttive europee, in particolare la 1999/93/CE, e del Consiglio Europeo emanata il 13/12/1999, per garantire la certezza della firma si è esteso anche alla P.A. il sistema della doppia chiave, sistema che dovrebbe garantire al tempo stesso l’identità dell’autorità emanante e l’impossibilità di contraffazioni. Ai sensi dell’art. 25 del citato testo unico nel documento informatico la firma autografa è sostituita da quella digitale e che tale firma sostituisce totalmente qualsiasi altro sigillo.

Ogni amministrazione, pertanto, deve dotarsi di una doppia chiave di ingresso, l’una pubblica, utilizzabile da chiunque, l’altra privata e segreta, che garantisce l’autenticità (art. 25).

Le chiavi private possono essere depositate presso un notaio o un pubblico ufficiale, scritte su qualsiasi supporto idoneo (cartaceo etc.) e chiuse a cura del depositante in un involucro sigillato, in modo da non essere leggibili dal notaio (art. 26). Le amministrazioni pubbliche, infine, provvedono autonomamente alla generazione, conservazione e certificazione delle chiavi pubbliche (art. 29).

Una volta che verrà applicata tale procedura a tutta la P.A., qualsiasi documento formato con quella tecnica, avrà l’efficacia probatoria prevista dall’art. 2700 cod. civ. Ciò significa che l’autenticità del documento costituirà piena prova fino a querela di falso, vale a dire fino  a quando verrà dimostrata la contraffazione dalla parte interessata. Al contrario, anche a livello processuale il solo fatto che il documento sia formato con una procedura informatica non può costituire prova della falsità documentale (art.10, comma 3).

Alle medesime norme soggiaciono la stipula di contratti in formato elettronico, i pagamenti informatici, la tenuta di libri e scritture contabili ( registri catastali ecc ).

Per quanto concerne la prova del ricevimento di un documento inviato attraverso supporti informatici, il T.U. introduce una presunzione. “Il documento informatico trasmesso per via telematica si intende inviato e prevenuto al destinatario, se trasmesso all’indirizzo da questi dichiarato” ( art.14, comma 1 ); inoltre, ai sensi del successivo terzo comma, “la trasmissione del documento informatico per via telematica, con modalità che assicurino l’avvenuta consegna, equivale alla notificazione [ … ]”.

Altro importante problema riguarda l’armonizzazione di queste norme con la legge del 31 – 12 - 1996, n. 675 e s.m. sulla privacy.

Per quanto le reti informatiche siano sicure, e nonostante le cautele adottate dai vari regolamenti tecnici dell’AIPA, è ben possibile la fuga di dati riservati. In questo caso responsabile dell’eventuale provocato danno al diritto alla privacy è l’amministrazione trasmettente. Infatti, ai sensi dell’art.1, comma 2, lett. b) della legge sulla privacy, per trattamento dei dati si deve intendere “qualunque operazione o complesso di operazioni, svolti con o senza l’ausilio di mezzi elettronici o comunque automatizzati, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati”.

E’ evidente, dunque, che la trasmissione di dati attraverso strumenti informatici debba essere considerato trattamento di dati personali, con la conseguente applicabilità della normativa a tutela della privacy anche per tale peculiare materia.

Pertanto, ai sensi dell’art.16 comma 1 del T.U. sulla documentazione amministrativa, i documenti trasmessi possono contenere esclusivamente dati relativi a stati, a fatti e qualità personali previste da legge o regolamento e comunque strettamente necessarie per il perseguimento dei fini per cui vengono acquisiti. Il termine “strettamente” indica, in pratica, che il fine è stabilito unicamente ed esplicitamente da una fonte legislativa.

Altra norma importante riguarda gli addetti alle operazioni di trasmissione introdotta dal successivo art.17. In particolare questi “[ … ] non possono prendere cognizione della corrispondenza telematica, duplicare con qualsiasi mezzo o cedere a terzi a qualsiasi titolo informazioni anche in forma sintetica o per estratto sull’esistenza o sul contenuto di corrispondenze, comunicazioni o messaggi trasmessi per via telematica, salvo che si tratti di informazioni, per loro natura o per espressa indicazione del mittente, destinate ad essere rese pubbliche”. Si tratta di una norma che introduce una vera e propria responsabilità personale degli addetti ai servizi informatici, qualunque livello professionale rivestano, per l’illecita diffusione di dati personali.

Un esempio potrà chiarire meglio la problematica. Se viene trasmessa una graduatoria di merito riguardante un concorso pubblico, dato che quest’ultimo nasce con il preciso scopo di rendere pubblici i risultati di una procedura concorsuale, è evidente che in questo caso l’e-mail potrà essere stampata e affissa in uno spazio pubblico come una bacheca per gli avvisi ecc. Al contrario, nel caso venga ricevuta una lista di pregiudicati e non siano trascorsi i prescritti quaranta anni, questa non potrà essere divulgata in alcun modo da un ufficio archivistico, in quanto fine legittimo per il trattamento di dati di questa natura da parte di un archivio è esclusivamente la ricerca storica.

Tutt’altro discorso per un ufficio di cancelleria del tribunale, che invece molte volte è legittimato a rendere pubbliche liste del genere, dato che i suoi scopi istituzionali permettono un simile trattamento. Una norma di questo genere può apparire anomala, ma in realtà non lo è se si riflette sugli effetti ben diversi che può avere un certo trattamento in seno di diverse fonti di pubblicità. E’ di comune evidenza che apprendere un certo dato da un giornalista o da un ufficio pubblico o da un soggetto privato assume una valenza cognitiva molto diversa. Quest’interpretazione è confermata dall’art. 27, comma 2 delle legge sulla privacy. La liceità del trattamento dei dati da parte di soggetti pubblici è relativa non solo al tipo dei dati, ma anche alla finalità istituzionali. Ultimo aspetto regolato dal testo unico è l’autocertificazione e la gestione degli archivi amministrativi.

Il T.U., recependo il regolamento di attuazione della legge, all’art.46 elenca tassativamente, vale a dire non sono ammesse estensioni interpretative, i documenti che possono essere autocertificati. In tale elenco sono presenti di fatto tutti i certificati. Fanno eccezione certificati medici, sanitari, veterinari, brevetti.

Per questo motivo non è possibile autocertificare la malattia in caso ci si assenti dall’ufficio. Infine di particolare interesse per l’amministrazione dei beni e delle attività culturali costituisce la sezione la sezione quinta, artt.67 ss., del T.U. Ogni amministrazione è tenuta a istituire la figura del dirigente d’archivio, con il compito di mantenere la documentazione amministrativa che nel tempo viene prodotta dai rispettivi uffici e che è considerata, se statale,  da un punto di vista giuridico demanio ai sensi dell’art.822 cod. civ. Oltre all’archivio corrente ogni amministrazione deve organizzare un archivio di deposito in seno a cui vengono conservate, normalmente per un periodo di quaranta anni, le pratiche concluse. Il dirigente d’archivio è tenuto a mantenere i flussi documentali con il numero di serie apposto dalla rispettiva amministrazione. Trascorso il quarantennio il dirigente d’archivio, membro di diritto delle commissioni di scarto, insieme al direttore dell’Archivio di Stato, selezionerà la documentazione destinata ad essere versata nell’archivio storico.