inserito in Diritto&Diritti nel luglio 2004

Alcune considerazioni su di un caso particolare di esercizio dell’autonomia locale: l’applicazione dell’art. 17 T.U.E.L. nello statuto del comune di Rimini e nella bozza di regolamento attualmente in esame.

Dott. Davide Morri.
Praticante avvocato in Rimini.
diuo@tele2.it

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1.         Premessa.

La legge del giugno 1990 n. 142 non ha definito in modo compiuto e stabile gli assetti ordinamentali delle autonomie locali, ma certamente ha delineato le basi fondamentali per giungere a questa nuova definizione dando il via a un processo di riforma che ha contraddistinto tutto il decennio scorso e ha mutato profondamente istituti e regole travolgendo equilibri da tempo consolidati.

Questo processo ha visto le sue tappe fondamentali con la legge 25 marzo 1993, n. 81 (che ha introdotto l’elezione diretta del sindaco, nel momento di massima crisi del sistema dei partiti imprimendo, così, una svolta netta al sistema di governo locale e modificando la legge elettorale locale non toccata della riforma del 1990) e nel biennio 1997-98, in cui le cosiddette “riforme Bassanini” (dal nome del ministro della Funzione pubblica del governo Prodi), a partire dalla prima, la legge 59 del 15 marzo 1997, hanno perseguito un imponente processo di decentramento di funzioni dallo Stato a regioni ed enti locali, alleggerendo i controlli e le ingerenze su questi ultimi e intervenendo in maniera radicale sulla dirigenza locale.

Queste ultime riforme hanno realizzato il federalismo amministrativo comportando un’interpretazione della Carta fondamentale ai limiti della legittimità costituzionale; erano accompagnate dalla esistenza e dai lavori della Commissione Bicamerale per le riforme, presieduta dall’On. D’Alema ed istituita con legge costituzionale 24 gennaio 1997 n. 1, la quale Commissione avrebbe dovuto modificare la Costituzione e recepire le riforme che, intanto, si andavano apprestando “a Costituzione invariata”, ma essa ha rappresentato un ennesimo tentativo fallito.

L’ultima tappa delle riforme del decennio degli anni ‘90 è rappresentata dalla cosiddetta “legge Napolitano-Vigneri”, del 3 agosto 1999 n. 265, recante “Disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli enti locali, nonché modifiche alla legge 8 giugno 1990 n. 142”.[1]

Questa non si è limitata a modificare la 142, ma in sostanza, pur operando con gli strumenti tipici della revisione legislativa, ha puntato a ridefinire complessivamente le caratteristiche di fondo del sistema amministrativo locale: essa, per un verso, ha costituito sicuramente una parte importante di un complessivo processo riformatore che non può dirsi ancora concluso , ma per l’altro ha rappresentato essa stessa una riforma tendenzialmente compiuta di un’intera parte del sistema amministrativo italiano, quello appunto concernente il sistema comunale e provinciale.[2]

Questo importante processo riformatore si è mosso nella direzione della <<creazione di una democrazia locale forte>>,[3] seguendo le linee direttive dell’autonomia, della sussidiarietà, dei diritti di cittadinanza, della responsabilità e dell’adeguatezza del governo locale; cominciato nel 1990 con la legge 142, sfociato ultimamente nel T.U.E.L., decreto legislativo 267 del 2000, ha trovato conferma importante poi nella modifica costituzionale del titolo V avvenuta con la legge costituzionale n. 3 del 2001.

La riforma avvenuta con la legge n. 265 del 1999 ha dato nuovo impulso alla autonomia locale, come si può vedere nelle disposizioni che ora risultano negli articoli 2 e 3 del testo unico sull’ordinamento degli enti locali, venendo ad ampliare gli spazi di decisione lasciati alla libera determinazione dell’ente pubblico territoriale.

Anche in materia di circoscrizioni di decentramento comunale, l’art. 8 della legge Napolitano-Vigneri ha percorso il terreno già tracciato dalla prima significativa legge di riordino dell’ordinamento locale che è la 142 del 1990, attribuendo più ampio spazio e più grande impulso alla fantasia politica e liberà di scelta locale con un conseguente e radicale aumento di autonomia normativa rimessa al consiglio comunale.

Non solo l’art. 17 che risulta oggi nel testo unico sull’ordinamento delle autonomie locali reca modificati i primi quattro commi corrispondenti con sorprendente differenza ai primi quattro dell’art. 13 della 142/1990, ma si inserisce un comma quinto circa la potenzialità autonomistica dell’istituzione di veri e propri “paracomuni”[4] nelle città con più di 300.000 abitanti.

Anche dopo questa riforma però, fondamentali nature del quartiere rimangono quella di “organismo di partecipazione, di consultazione” da un lato, e di “gestione di servizi di base, nonché di esercizio delle funzioni delegate dal comune”, dall’altro.

Per quanto riguarda l’anima partecipativo-consultiva del quartiere, va detto che esso rappresenta una forma di decentramento politico la cui utilità, sul piano consultivo, è strettamente collegata alla potenzialità conoscitiva ed informatica che, giorno dopo giorno, esso viene a rappresentare, alla sua capacità di fungere da spugna delle quanto mai vivaci istanze che arrivano dalla “popolazione” della circoscrizione che esso rappresenta ed esponenzia.

La circoscrizione di decentramento comunale, fin dalla legge del 1976, non è nata per presentare al comune <<dei pareri sul piano giuridico, ma considerazioni obiettive fondate sulla conoscenza dei luoghi, delle necessità, sulla ponderatezza delle previsioni, sulla capacità di raccolta dei dati[5] che essi saranno in grado di ottenere, illuminando l’organo cui è rimessa l’attività decisionale>>.

Compito prevalente della funzione consultivo-partecipativa dei quartieri è di servire sia al comune, per un sempre miglior governo locale sia, parimenti, anche ai cittadini per una maggiore e positiva democraticità avvicinando, in un doppio senso di marcia, l’amministrazione agli amministrati e questi a quella.

Il quartiere non è un istituto di partecipazione in senso stretto, come l’istanza, la petizione, la consultazione popolare ed il referendum, poiché con l’espressione di partecipazione popolare si ricomprendono quegli <<istituti con i quali i cittadini intervengono nei processi decisionali della pubblica amministrazione, non tanto al fine di tutelare interessi collettivi e di categoria, ma piuttosto per esercitare e completare i diritti politici, intesi come espressione piena della cittadinanza comune>>.[6]

La circoscrizione di decentramento comunale non è un istituto di partecipazione in senso proprio perché, se così fosse, ogni operazione di decentramento territoriale e di funzioni rappresenterebbe un istituto di partecipazione, <<il decentramento è un’occasione per avvicinare le autorità pubbliche ai soggetti privati,  ma ha solo una funzione strumentali alla partecipazione vera e propria>>.[7]

Esso consente la partecipazione, ne è ambito privilegiato, la stimola e la promuove, non certo in quanto fine a sé stessa, ma come strumento verso un’amministrazione locale sempre più rispondente alle necessità espresse dalla gente nel senso della migliore democraticità; risponde all’esigenza di consentire l’attività di impegno sociale, pubblico e politico dei membri del consorzio civile circoscrizionale, ma è evidente che la valorizzazione di questa vocazione del quartiere dipende dalle previsioni statutarie locali.

Non è tanto alla legge che oggi occorre fare riferimento per apprezzare il ruolo e il peso che le circoscrizioni di decentramento comunale hanno nell’impianto politico e amministrativo della realtà locale, quanto agli statuti ed ai relativi regolamenti ai quali l’art. 17/2 T.U.E.L. rimette il compito della disciplina dell’organizzazione e delle funzioni dei quartieri e, così, il compito di “riconoscere e promuovere le autonomie locali circoscrizionali”, soprattutto valorizzando le libere forme associative come vuole l’art. 8/1 T.U.E.L. e concretando, per tale via, il principio di sussidiarietà orizzontale sancito e all’art. 3/5 testo unico, e all’art. 118/4 della Costituzione.

Possono allora essere promossi momenti di informazione per fornire una chiara e democratica visione delle problematiche che interessano la collettività e promossi mediante assemblee, rapporti con i consigli di fabbrica, i consigli scolastici, le rappresentanze sociali, sindacali e professionali per un’ampia partecipazione alla vita pubblica, alla discussione ed elaborazione di proposte per la soluzione dei problemi che interessano la collettività cittadina perché <<l’esigenza partecipativa democratica viene esercitata e sviluppata nei limiti in cui i consigli comunali lo vogliono e lo consentono>>.[8]

 

2.         La partecipazione democratica a Rimini.

 

Siccome sta agli statuti ed ai regolamenti locali di promuovere oppure rintuzzare le prerogative e le facoltà offerte dal legislatore, per far sì che le circoscrizioni di decentramento divengano organismi di democratica partecipazione alla amministrazione locale, organismi di impulso, di controllo, di consiglio e di proposta agli organi locali e ancora, forme di partecipazione all’indirizzo politico-amministrativo locale, lo statuto comunale di Rimini, revisionato ed aggiornato l’ultima volta nella primavera del 2002, prevede che compito del consiglio di quartiere sia la promozione della “partecipazione dei cittadini della Circoscrizione all’Amministrazione del Comune, attivando interventi per la migliore tutela degli interessi collettivi”.[9]

Scopo del decentramento circoscrizionale riminese è, infatti, “di favorire lo sviluppo democratico, la partecipazione popolare alla gestione politico-amministrativa della città, la consultazione”, insieme e parallelamente alla “gestione dei servizi di base e l’esercizio delle funzioni delegate”.[10]

Non a caso, allora, la funzione della circoscrizione di essere strumento di promozione della partecipazione popolare ed impulso all’impegno civico dei consociati è messa al primo comma e, cioè al primo posto dell’art. 50, recante “Funzioni proprie delle Circoscrizioni”, abbinandosi perfettamente con il comma 2 che manifesta chiara la vocazione del quartiere di fungere da mediatore, da interlocutore privilegiato e strumento di avvicinamento e di contatto tra i cittadini e gli organi comunali, attraverso l’esercizio della “partecipazione all’attività del Comune con proprie iniziative e proposte”.

Corrispondentemente ed in modo più esaustivo, l’art. 19 del regolamento attualmente in vigore impone al consiglio di quartiere di “stimolare lo sviluppo civile”, di rappresentare le esigenze della popolazione nell’ambito della unità del comune (riprendendo l’art. 17/4 T.U.E.L.) e di promuovere il loro soddisfacimento concorrendo, nell’ambito delle sue spettanze, “all’attuazione della politica locale ai vari livelli: comunale, provinciale, regionale e nazionale”.

Attuare la politica locale ai vari livelli significa che per molti aspetti il pur minuto ambito circoscrizionale è il primo che viene coinvolto, così dalle funzioni amministrative conferite agli enti comunali per via della previsione della norma costituzionale di cui all’art. 118/1, come da quella dell’art. 118/4 circa il principio di sussidiarietà; sta a significare che il livello circoscrizionale non è disgiunto dagli altri livelli istituzionali via via più grandi e più ampi, ma insieme a quelli svolge importante il proprio ruolo e la propria funzione nell’essere esercizio prima e valorizzazione poi, del principio democratico e di sovranità popolare.

Allo stesso modo, facendosi espressione dell’art. 8/1 testo unico ad avviso del quale “i comuni, anche su base di quartiere o di frazione, valorizzano le libere forme associative e promuovono organismi di partecipazione popolare all’amministrazione locale”, e dell’art. 8/5 per cui lo statuto, “promuove forme di partecipazione alla vita pubblica locale dei cittadini dell’Unione europea e degli stranieri regolarmente soggiornanti”, l’art. 22 del regolamento comunale attualmente in vigore dispone che il consiglio di quartiere “stabilisce rapporti con gli organismi, le associazione ed i comitati che ispirano la loro attività ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione” e che “tali organismi, di massima, fanno riferimento al Consiglio di Quartiere per quanto riguarda i loro rapporti con l’Amministrazione Comunale”.

Il normatore locale individua, quindi, nel quartiere l’ambito privilegiato e l’interlocutore più naturale per promuovere e favorire le libere forme associative qualunque sia il settore del loro impegno e lo scopo della loro esistenza, purché esercitanti un’attività ispiratasi ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione ed individua nel quartiere il punto preferito di contatto tra quelle ed il comune.

Per quanto riguarda invece la partecipazione dei cittadini comunitari e di quelli stranieri regolarmente soggiornanti, l’ultima modifica statutaria ha introdotto un comma 2 bis all’art. 39 proprio per estendere le norme disciplinanti la partecipazione popolare, in forma individuale od associata, “ai cittadini dell’Unione Europea non residenti ma che nel Comune esercitano la propria attività prevalente di lavoro o di studio” ed “agli stranieri e apolidi residenti che nel Comune esercitano la propria attività prevalente di lavoro o di studio”.[11]

Potendo, il quartiere, ex art. 19/2 attuale regolamento delle circoscrizioni di decentramento comunale, per l’attuazione dei principi di sviluppo civile, promozione del soddisfacimento delle esigenze della popolazione circoscrizionale e di concorrenza all’attuazione della politica locale, dettare “autonomamente” (dunque con apposite delibere consiliari secondo le proprie determinazioni di indirizzo) “tutte le forme e gli strumenti che ritiene più idonei”, assai utili possono risultare organismi di partecipazione che al livello circoscrizionale fomentino la collaborazione, consultazione e raccordo tra le forze sociali della circoscrizione, il loro intervento e colloquio continuo con l’organo del consiglio di quartiere ed attraverso di esso o congiuntamente ed unitamente ad esso, con gli organi politici comunali, come, per esempio, il Forum della famiglia, il Forum delle rappresentanze straniere, del volontariato, degli enti educativi e dei giovani.[12]

Ai fini del coinvolgimento dei cittadini e delle realtà associative presenti sul proprio territorio, seguendo le finalità fissate dalla legge, ma con il potere ampio di valutazione libera locale e di dare sfogo alla fantasia politica che trae giovamento dalle risultanze concrete di soluzioni precedentemente avanzate, utile risulta la istituzione di “comitati per la gestione sociale dei servizi delegati o di base esistenti nel territorio circoscrizionale e di una o più commissioni”,[13] i quali, composti da un minimo di cinque membri, comprendono non solo consiglieri di quartiere, ma anche e soprattutto (almeno così dovrebbe essere), i rappresentanti delle associazioni che operano nella società civile e i cittadini che ne possono fare domanda, ma pure i cittadini dell’Unione europea non residenti, ma nel comune esercitanti la propria attività prevalente di studio o lavoro e gli stranieri e apolidi, residenti e nel territorio comunale svolgenti la propria attività prevalente di studio o lavoro.[14]

I consigli circoscrizionali riminesi però, hanno creato commissioni corrispondenti agli assessorati, dunque pressoché identiche per ogni circoscrizione, senza mostrarsi invece capaci di cogliere le opportunità autonomistiche che loro lasciava lo statuto ed il regolamento: avrebbero cioè potuto costituirsi commissioni diverse e specifiche per ogni quartiere, volte alla valorizzazione delle caratteristiche e peculiarità zonali tipiche di ogni territorio, come la commissione agricoltura per i territori di campagna dove poco o nulla serve la commissione turismo che invece più rilievo e funzione avrebbe per i quartieri rivieraschi.

In questo modo si darebbe forse maggiore entusiasmo e stimolo ad una partecipazione popolare che non pare brillare, ma pure più grande spessore a quartieri che anziché essere centri civici di vita sociale e pubblica effettiva, risultano per lo più spazi vuoti la cui stessa ubicazione è addirittura sconosciuta alla maggioranza della gente della circoscrizione.

Chiaro indice delle potenzialità lasciate alla libera valutazione del consiglio circoscrizionale dal normatore locale, è l’art. 29/1 ultimo periodo del regolamento, invariato anche nel progetto di modifica, ad avviso del quale il consiglio di quartiere può “assumere ogni iniziativa capace di cogliere e stimolare l’interesse e la partecipazione dei cittadini, del volontariato e delle varie associazioni ed aggregazioni sociali ed economiche operanti sul territorio, con possibilità di favorire molteplici opportunità di collaborazione anche nella forma della sponsorizzazione da parte di privati di attività pubbliche promozionali di tipo ricreative e formativo”: di qui, la massima apertura alla valorizzazione e promozione dell’autonomia locale circoscrizionale, la quale ha spazi di movimento davvero ampi per concretare tutte le fantasie, sia in ordine ai diversi forum, alle commissioni particolari e speciali, come circa qualsiasi altra modalità di coinvolgimento della popolazione locale che valga in quell’ambito di quartiere per le sue caratteristiche sociali, geografiche, economiche ecc…, potenzialmente anche diverse da quelle valevoli in altri ambiti pur appartenenti allo stesso comune.

Ciò è perfettamente coerente con i principi autonomistico e di sussidiarietà, quindi, sotto questo profilo, il regolamento riminese va elogiato.

 

3.         In materia di gestione dei servizi di base.

 

Ancora in tema di funzioni proprie, l’art. 50/3 dello statuto di Rimini attribuisce “un’ampia autonomia decisionale”, e cioè riconosce un’autonomia politica circoscrizionale, per la gestione dei servizi di base[15] che rappresentano la risposta alle più immediate esigenze della popolazione locale e solo nel rispetto degli atti mediante i quali si esprime la funzione di indirizzo politico-amministrativo propria del consiglio comunale: dunque la libertà decisionale del quartiere esiste in tanto in quanto stia entro l’espressione dell’indirizzo politico-amministrativo del comune.

A questo proposito, degno di particolare attenzione è che, mentre l’attuale art. 28/2 del regolamento prevede che “i servizi di base vengono attivati su indicazione e su richiesta dei singoli Consigli di Quartiere”, con ciò significando[16] che sta al quartiere proporre e chiedere ed al consiglio comunale di esaminare ed, eventualmente, approvare,[17] la proposta di modifica innova sensibilmente ed assai positivamente la disciplina.

Si propone infatti, che “i servizi di base vengono individuati e attivati su decisione dei singoli Consigli di quartiere”, senza più bisogno di avanzare proposta al consiglio comunale, ma riconoscendo, nel senso della valorizzazione dell’autonomia circoscrizionale, la libertà al quartiere di individuare ed attivare quei servizi, non potendosi opporre il comune all’esercizio di questa specie di diritto potestativo e che, dunque, entro il 31 marzo di ogni anno, il consiglio circoscrizionale definisca, con apposite deliberazioni, i progetti dei servizi di base, il programma delle attività promozionali, l’erogazione di eventuali contributi e la destinazione del fondo per il centro culturale.[18]

In questi termini il regolamento viene ad apportare (nel caso in cui sarà approvato, certo), una scelta importante in materia di considerazione dell’autonomia locale, secondo i principi di differenziazione, sussidiarietà ed adeguatezza, proprio anch’esso facendosi obbediente dell’art. 5 Cost. e così venendo a riconoscere e promuovere le autonomie o quanto meno, gli spazi di libertà decisionale e di decentramento politico presenti al suo interno.

Vale, dunque, l’interpretazione che dell’art. 5 della Costituzione dava Pubusa, nel senso che il compito affidato alla Repubblica di riconoscere e promuovere le autonomie locali vale, oggi più di ieri dopo la riforma del titolo V, anche per tutti i livelli di governo dei quali la stessa Repubblica si compone, per cui impone alle autonomie locali di riconoscere e promuovere esse stesse, in uno sforzo di continua considerazione democratica.[19]

Interessante ancora pare la considerazione che l’art. 50/3 dello statuto comunale riminese, riconoscendo “un’ampia autonomia decisionale” per il soddisfacimento di “immediate esigenze della popolazione”, non solo viene ad interpretare nella maniera più sincera la disposizione dell’art. 17/4 T.U.E.L. circa la funzione degli organi del quartiere come rappresentanti le esigenze della popolazione circoscrizionale, ma risulta pure in linea con la riforma costituzionale del titolo V come chiarita dalla recente legge La Loggia in materia di attuazione della riforma stessa.

L’art. 2 della legge 5 giugno 2003 n. 131, relativo all’attuazione della lettera “p” dell’art. 117/2 della Costituzione, intende per “funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane”, le “funzioni connaturate alle caratteristiche proprie di ciascun tipo di ente, essenziali e imprescindibili per il funzionamento dell’ente e per il soddisfacimento dei bisogni primari delle comunità di riferimento”,[20] in tal modo riconoscendo un indubbio spazio autonomistico agli enti locali i quali, come è il caso del comune di Rimini, sono poi liberi di riverberare tale maggiore ambito di scelta decisionale, alle loro circoscrizioni di decentramento, appunto politico, nella considerazione della più vivace sussidiarietà verticale ed orizzontale.

Ciò risulta evidente allora, non solo dall’art. 50/3 dello statuto, ma ancora più dalla proposta di modifica del regolamento della quale si diceva più sopra, che considera ciascun quartiere libero di individuare ed attivare i servizi di base che più riconosce rispondenti alle esigenze della popolazione circoscrizionale, nel senso della differenziazione e dell’adeguatezza.

L’inconveniente che risulta di impedimento tutt’altro che trascurabile è la scarsità delle risorse economiche che i consigli circoscrizionali hanno a disposizione per la gestione dei servizi di base; basti pensare infatti, che a fronte di una spesa complessiva di 1.649.000 €, di questi solo 68.000 € sono trasferiti direttamente in veste di servizi di base; di qui le proposte che al presente sono in discussione, volte alla riduzione dei costi attraverso o una riduzione del numero dei quartieri, oppure una riduzione del numero dei consiglieri,[21] oppure ancora la riorganizzazione degli apparati organizzativi e burocratici,[22] attraverso un ridimensionamento degli stessi e l’accorpamento di strutture ed uffici affini ed omogenei.

 

4.         Funzioni di governo e competenze gestionali.

 

Altro aspetto di particolare interesse risulta la separazione tra la sfera politica e quella gestionale valevole non solo a livello comunale e sovracomunale, ma, in teoria, anche a livello infracomunale e cioè circoscrizionale.

La difficoltà però generalmente riconosciuta,[23] sta nel fatto di riconsiderare tutte le funzioni attribuite ai quartieri perché questi hanno sempre gestito servizi di base ed altre funzioni amministrative, ma senza potere apprezzare concretamente il principio di separazione.

Applicare questo criterio significa riconsiderare i compiti di indirizzo e controllo in capo ai consigli circoscrizionali e la gestione diretta in capo ai dirigenti, con evidenti difficoltà però, perché spogliare l’organo consiliare delle funzioni gestionali può significare privarlo di quasi tutte le sue più connotanti competenze in quanto la funzione di indirizzo e controllo politico-amministrativo, divisa tra il livello comunale e quello di quartiere, potrebbe risultare davvero povera.

Per questo che lo statuto ed il regolamento hanno a quest’uopo una funzione molto importante, quella di mettere in pratica questa separazione e il regolamento per l’organizzazione ed il funzionamento delle circoscrizioni di Rimini pare muovere sulla via maestra quando, all’art. 25, stabilisce che il consiglio di quartiere “delibera gli indirizzi, i programmi, gli obiettivi, i progetti e, relativamente alle funzioni deliberative delegate, ai servizi di base e al proprio funzionamento, le spese, eventuali entrate ed i rendiconti annuali”.

Il consiglio di quartiere deve avere, infatti, una funzione di governo, pur se funzione di governo di secondo livello,[24] come d’altro canto pare manifestarsi dall’art. 48/2 T.U.E.L., che considera gli organi di decentramento titolari di funzioni di questo tipo non rientranti tra le funzioni gestionali di cui all’art. 107 primo e secondo comma.

Coerente ed in linea con il principio di separazione è l’art. 25 del regolamento, ma pure la proposta di eliminazione dello stesso dovuta alla considerazione che trattasi di materia già regolamentata per legge; assai meno confacente con il medesimo principio è, attualmente, la rubrica dello stesso art. 25, “funzioni gestionali”, anziché “funzioni di governo”, sintomatica delle difficoltà di sceverare i due momenti, politico e gestionale, in un ambito locale così circoscritto.

Sicuramente contraria a questa impostazione, tale che, crediamo, possono addirittura fare insorgere dubbi di legittimità, è la disposizione statutaria dell’art. 50/5 ad avviso della quale il consiglio circoscrizionale “effettua la gestione nell’ambito della circoscrizione, dei servizi comunali di base, definiti specificamente dal regolamento”.

Sul punto relativamente al quale si domanda allo statuto di essere maggiormente chiaro, ecco che invece lo stesso continua nel solco di un comportamento o di una consuetudine tollerata, ma sulla cui compatibilità alla legge potrebbero levarsi serie critiche.

Sorge ora la domanda se il consiglio di quartiere sia organo politico o gestionale, secondo lo statuto del comune di Rimini: se il legislatore lo considera in maniera chiara come organo politico, rimettendo però al normatore locale la specificazione di tale sua politicità e la destinazione ad altri soggetti delle competenze gestionali (come potrebbero essere il segretario circoscrizionale, o dirigenti nominati dal sindaco, per esempio), lo statuto ed il regolamento riminesi presentano una incapacità di prendere posizioni sotto tale aspetto.

Contengono infatti un atteggiamento anfibologico che prima considera il consiglio circoscrizionale organo politico perché dotato di “un’ampia autonomia decisionale”[25] nell’ambito dell’indirizzo politico-amministrativo del consiglio comunale e deliberante gli “indirizzi, i programmi, gli obiettivi”,[26] poi invece tratteggiano il consiglio di quartiere come organo che “effettua la gestione nell’ambito della circoscrizione”[27] ed ancora, all’art. 28 del regolamento, accanto alle auspicabili ipotesi di autogestione dei servizi di base da parte degli utenti, o dell’associazionismo o del volontariato, prevedono la gestione diretta da parte dello stesso consiglio: dovrebbero tenersi separate ipotesi di gestione diretta del soggetto giuridico circoscrizione, ammissibili, da quelle del consiglio come organo politico, queste non ammissibili essendo il consiglio organo politico e di indirizzo “nell’ambito dell’unità del comune”.

 

5.         Organi della circoscrizione.

 

L’art. 8 della legge 265 del 1999 ha modificato l’art. 13 della legge 142/1990 soprattutto in materia di organi della circoscrizione, cancellando ogni riferimento alle imposizioni precedenti le quali volevano che tutte le circoscrizioni fossero dotate di un consiglio circoscrizionale il quale, a sua volta, eleggeva nel suo seno un presidente.

L’attuale art. 17 del T.U.E.L. infatti, prevede assai più semplicemente che “gli organi dei quartieri rappresentano le esigenze della popolazione delle circoscrizioni nell’ambito dell’unità del comune e sono eletti nelle forme stabilite dallo statuto e dal regolamento”.

Se questa nuova formulazione legislativa lascia intendere che l’ente locale sia libero di muoversi in ordine alla creazione ed istituzione degli organi circoscrizionali, discostandosi dai modelli precedenti,[28] in realtà, una osservazione più critica del dettato normativo frena notevolmente circa tale ambito di potenzialità espansive rimesse al normatore locale.

Si sostiene infatti che la circoscrizione, pur sempre nell’ambito dell’unità del comune, è chiamata a rappresentare le esigenze della popolazione residente e nulla vi è di più confacente con tale vocazione se non che sia la popolazione stessa ad eleggere l’organo di essa rappresentativo; inoltre una elezione di secondo grado risulta difficilmente configurabile perché, se opera della giunta, questa è espressione della maggioranza e non potrebbe garantire l’autonoma rappresentatività circoscrizionale mentre, se opera del consiglio, esso non ha tra le sue competenze tassative l’elezione degli organi del quartiere, contemplando l’art. 42/2 lett. “d” solo la “istituzione, compiti e norme sul funzionamento”.

Parimenti si deve escludere una competenza sindacale, visto che gli organi della circoscrizione devono essere “eletti nelle forme stabilite dallo statuto e dal regolamento”, mentre il sindaco può solo nominare e non eleggere; tutto ciò lascia supporre che, allora, l’autonomia rimessa alla valutazione locale si debba in concreto ridurre notevolmente, essendo liberi lo statuto comunale ed il regolamento, solo di scegliere, come prima, il sistema di elezione.

Riguardo a quest’ultimo, la possibilità più gettonata in letteratura è quella che vuole l’elezione diretta del presidente del quartiere, attribuendo ad esso maggiore rappresentatività, enfatizzando assieme alla politicità dell’organo monocratico, divenuto così più diretto ed autorevole interlocutore del sindaco, la vocazione al decentramento amministrativo del quartiere.

Questa è la vera opportunità di svolta e di cambiamento che il legislatore affida agli statuti comunali, perché, pur se teoricamente risulta ammissibile, assai più difficile appare l’istituzione di una giunta esecutiva del consiglio e come staff esecutivo del presidente, soprattutto per le difficoltà organizzative e principalmente per le disponibilità finanziarie dei quartieri.

Sotto questo profilo, lo statuto del comune di Rimini, ha innovato rispetto alla disciplina previgente, ma senza stravolgimenti, profittando dunque delle potenzialità offerte dall’art. 17 T.U.E.L. senza però valersi delle stesse nel massimo grado.

L’art. 49/1 dello statuto comunale dimostra la volontà dell’ente locale di mantenersi fedele alla tradizione ormai recepita e ben custodita dalla popolazione, secondo la quale organi del quartiere rimangono ancora il consiglio e il presidente.

Il primo, “espressione politico-amministrativa della popolazione appartenente alla Circoscrizione, ne rappresenta le istanze”[29] ed è “eletto a suffragio diretto contemporaneamente al Consiglio Comunale”:[30] sotto il profilo della configurazione degli organi il normatore locale ha optato per la scelta politica di proseguire il percorso tracciato in precedenza senza nulla innovare, mostrando di apprezzare e la elezione diretta dell’organo consiliare che rimane unico organo rappresentativo del più o meno variegato panorama politico circoscrizionale, e la elezione del presidente nel seno del consiglio neoeletto.

Rispetto alla disciplina previgente risultano invece due importanti novità che sono il sistema di elezione proporzionale con premio di maggioranza e la mozione di sfiducia costruttiva.

Se nulla è cambiato circa la forma di elezione dell’unico organo elettivo, il consiglio, e cioè quella del suffragio diretto, se nulla è cambiato circa la elezione del presidente che “avviene in seno al Consiglio circoscrizionale per appello nominale e a maggioranza dei consiglieri assegnati”, da un sistema di elezione proporzionale si passa ad un proporzionale corretto nel senso che alla lista o alle liste che abbiano dichiarato di collegarsi tra di loro e che conseguono il maggior numero di voti o comunque non meno del 35% del totale, viene assegnato il 55% dei seggi, sarebbe a dire undici su venti, mentre i restanti nove si distribuiscono secondo il sistema proporzionale (d’Hondt) tra le liste rimanenti.

Il sistema vuole garantire una più facile formazione delle maggioranze consiliari con collegamento delle liste od addirittura con la formazione di una lista unica; maggiore trasparenza politica perché le formazione vengono svelate in campagna elettorale e la rappresentatività diffusa garantita dal sistema che, pur se corretto, è comunque proporzionale.

Il sistema di elezione proporzionale, ma con la correzione sopra descritta, consente un passaggio anche se non radicale, da una forma di democrazia mediata dalla rappresentanza partitica ad una democrazia anche se non diretta, certamente meno mediata: in questo quadro ciò che più muta è il rapporto fra elettori ed istituzioni circoscrizionali, fra elettori e partiti, fra partiti e organi della circoscrizione.

Si è voluto abbandonare il sistema puramente proporzionale per seguire il trend di sviluppo percorso dalla legislazione elettorale per ogni livello di governo, locale e nazionale, ma lo si è fatto in modo assai cauto.

Un sistema siffatto mira ad inserire una serie di vincoli nuovi e rigidi alla libertà di movimento delle forze politiche, costrette a collegare le rispettive liste od a formarne una sola, in un quadro di rapporti assai più chiaro e trasparente di un tempo nei confronti dei cittadini e volto a rendere più seri e sinceri i meccanismi della responsabilità politica (cioè la possibilità concreta di sanzionare o premiare periodicamente le prestazioni offerte in nome della comunità rappresentata).

Importante novità introdotta dallo statuto consiste nella indicazione del capolista della lista unica o di quelle collegate e la indicazione dello stesso come candidato alla presidenza del consiglio circoscrizionale: questo comporta che gli elettori del quartiere votando la lista esprimono parimenti il voto per il candidalo alla presidenza del consiglio o, che è lo stesso, che la coalizione delle liste e la formazione della lista unica, insomma la formazione della coalizione elettorale avviene sulla base dell’indicazione di un nome, un po’ come è per il sindaco, senza però che l’organo monocratico sia eletto direttamente.

In tal modo il presidente del consiglio è indicato dai cittadini, votato dagli stesse e da questi anche quasi eletto, ma quasi eletto perché rimane il consiglio circoscrizionale competente alla elezione formale del presidente.

In sostanza, la elezione da parte dell’organo collegiale non ha altro che il significato di una specie di ufficializzazione di una indicazione che il corpo elettorale ha dato e che non può essere disattesa[31]; si viene così ad abbassare per tale fattispecie il ruolo del consiglio e ad innalzare corrispondentemente il peso ed il prestigio che il normatore locale riconosce al corpo elettorale circoscrizionale.

La indicazione del capolista come candidato alla presidenza non spoglia il consiglio della competenza ad eleggere il presidente circoscrizionale, nello stesso tempo attribuisce un maggior rilievo al significato dell’espressione del voto da parte degli elettori e ancora, si mostra coerente con il sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza voluto per unire le forze politiche attorno alla indicazione e presentazione di un candidato.

Il sistema così concepito viene, come risulta manifesto, a prendere esempio dalla legge elettorale regionale previgente, la legge 23 febbraio 1995 n. 43, recante “nuove norme per la elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario”.

Quest’ultima, testo di rara complessità, prevedeva che 4/5 dei consiglieri delle regioni fossero eletti ancora con il sistema proporzionale pure della legge 108 del 1968, mentre solo 1/5 di quelli sulla base di una formula maggioritaria di lista; consentiva un premio di maggioranza alla liste riportanti il maggior numero di voti e contemplava anche l’istituto della indicazione del capolista: la complessità della legge, sofisticata quanto intelligente, era dovuta alla necessità di mediare tra le opposte esigenze dei partiti maggiori e dal volere introdurre riforme che, dovendosi porre nel quadro costituzionale vigente, costituivano del testo fondamentale un’interpretazione alle soglie della legittimità.

La caratteristica più interessante della legge era, dunque, la figura del capolista che veniva, a “Costituzione invariata”, ad anticipare la riforma costituzionale che si è fatta poi quattro anni dopo, con la legge n. 1 del 1999 e che ha introdotto l’elezione diretta del presidente regionale.

La legge del 1995 non poteva dire che il capolista era il candidato alla presidenza della regione, perché se ciò avesse fatto, avrebbe violato l’allora vigente art. 112/4 Cost. ad avviso del quale “il Presidente e i membri della Giunta sono eletti dal Consiglio regionale tra i suoi componenti”, senza possibilità che questa elezione fosse condizionata in qualche modo, se non altro ufficialmente.

La introduzione del capolista costituiva, insomma, un patto stretto dalla forze politiche, alleatesi intorno a quella figura, ufficioso con gli elettori e l’esperienza ha dimostrato che in nessuna regione le forze vincenti si sono sentite di voltar la gabbana e non ossequiare il patto, più o meno surrettizio, preso con il corpo elettorale.

Con tale stratagemma il legislatore era riuscito nell’intento di rimanere fedele al dettato formale della Costituzione e, nello stesse tempo, di vincolare il regime partitocratrico a cui fin dalla legge 142 del 1990 aveva dichiarato guerra,[32] ridimensionando la tradizionale mano libera delle forze partitiche in ordine alle scelte cruciali relative alla formazione degli esecutivi.[33]

La legge del 1995, perseguendo il fine del contenimento del ruolo dei partiti, della legittimazione virtualmente diretta dell’esecutivo, della logica bipolare, dell’attivazione del principio di responsabilità politica verso gli elettori e dell’alternanza (una volta fatta valere la responsabilità politica) delle classi dirigenti politiche al governo della cosa pubblica, abbinava, con una combinazione che risulta quasi paradossale, il sistema proporzionale con il premio di maggioranza per chi vinceva le elezioni, con la clausola antiribaltone dell’art. 8 che riduceva a due anni la durata del consiglio regionale in caso si rompesse, (entro il periodo dei primi due anni), il rapporto fiduciario tra il consiglio e la giunta.

Tornando allo statuto del comune di Rimini, più facile risulta comprendere, dopo il riferimento fatto alla legge n. 43 del 1995, l’art. 49/3 bis per il quale “in ogni lista il capolista è indicato quale candidato alla Presidenza del Consiglio circoscrizionale”.

Le ragioni che hanno spinto il normatore riminese a questa scelta che si è valsa degli spazi di autonomia offerti dall’art. 17 del testo unico sull’ordinamento degli enti locali, son le stesse che motivarono il legislatore della 43 del ’95: la volontà di garantire una maggiore trasparenza politica attraverso la formazione di coalizioni (in lista unica o con il collegamento di più liste) tra le forze politiche prima delle elezioni, perché così si presentassero agli elettori rimettendo a questi, in quanto detentori della sovranità, il diritto e potere di promuovere o bocciare quelle alleanze; la volontà di ridurre il ruolo partitocratrico attraverso un’elezione diretta ufficiosa del presidente circoscrizionale da parte del corpo elettorale del quartiere e, così, attribuendo a quest’organo politico maggiore spessore e più profonda considerazione; la volontà di seguire il trend delle riforme elettorali degli ultimi anni nel senso della continuazione del solco del bipolarismo ed infine, ma questo è aspetto squisitamente politico, la preferenza verso una forma di elezione indiretta e mascherata attraverso la indicazione del capolista, piuttosto che la elezione diretta come avviene per il sindaco.

Contrariamente alla legge del 1995 però, l’art. 49/3 bis dello statuto prevede espressamente che il capolista è già indicato come presidente quando la prima non poteva, pena la violazione dell’art. 122/4 Cost.; se nella prima, dunque, l’indicazione del capolista era più velata, nello statuto riminese è chiaramente esplicitata.

Questo significa che la seconda parte dell’art. 49/3 bis, secondo cui “l’elezione del Presidente avviene comunque in seno al Consiglio circoscrizionale per appello nominale e a maggioranza dei consiglieri assegnati”, vuole intendere che l’indicazione del capolista assolve al ruolo di promozione ufficiosa da parte del popolo del quartiere, mentre l’investitura ufficiale avviene sempre in seno al consiglio e che questo non potrebbe assolutamente eleggere un altro presidente diverso dal capolista, pena al ambiguità e la contraddittorietà della disposizione statutaria e, che è peggio, la violazione della promessa fatta agli elettori.[34]

 

6.         Perplessità circa la soluzione riminese consistente nell’introduzione della mozione di sfiducia costruttiva.

 

Se il sistema proporzionale corretto con premio di maggioranza e la indicazione del capolista come candidato alla presidenza del consiglio sono istituti costituenti un più che felice matrimonio, forti dubbi crediamo si debbano nutrire circa l’altro istituto caratterizzante la revisione statutaria del 2002, e cioè la mozione di sfiducia costruttiva di cui all’art. 50 bis/2.

Se nessun problema si pone relativamente alla cessazione dalla carica di presidente del consiglio circoscrizionale per dimissioni e per decadenza dalla carica di consigliere, vale la pena di puntare l’attenzione sulla cessazione per revoca a seguito dell’approvazione di una mozione di sfiducia.

Questa, presentata e sottoscritta da almeno un terzo dei consiglieri assegnati e votata per appello nominale dalla maggioranza dei componenti il consiglio, contestualmente propone anche il nuovo candidato alla presidenza del consiglio di quartiere.

Questo istituto pare incoerente con il sistema elettorale circoscrizionale e le motivazioni che le previsioni dell’art. 49 presentano: il sistema proporzionale con premio di maggioranza vuole garantire la governabilità in quartiere e la più facile formazione delle coalizioni che si presentano unite agli elettori in campagna elettorale dando ad essi la capacità di promuoverle o bocciarle; vuole aumentare il peso politico del corpo elettorale della stessa misura con cui riduce il peso politico dei partiti, consentendo ai primi di scegliere chi sarà presidente del consiglio, istaurando una responsabilità politica del presidente con il corpo elettorale, e poi si prevede la mozione di sfiducia costruttiva che annienta tutto questo.

Facile potrebbe essere, per esempio, che alcune forze politiche si coalizzino attorno ad un nome conosciuto nel piccolo ambito circoscrizionale, lo votino come presidente una volta vinte le elezioni, poscia lo sfiducino eleggendo un’altra figura che non avrebbe dato le stesse garanzie di successo qualora fosse stata presentata prima.

È ben vero che non si può escludere che, invece, si incrini il legame politico amalgamante consiglio e presidente, pur se paiono questi casi rari essendo quest’ultimo, consigliere e uomo di quella parte politica che lo ha espresso; ma è possibile pure la formazione di una maggioranza trasversale che sfiduci quel presidente.

Nel caso dell’approvazione della mozione di sfiducia si annulla quel quid pluris che il sistema elettorale concepito dall’art. 49 dello statuto aveva dato al corpo elettorale circoscrizionale e si lascia entrare dalla finestra quella predominanza dei partititi che si era fatta uscire dalla porta.

Il meccanismo della sfiducia costruttiva incide sull’espressione della volontà popolare che aveva apprezzato l’indicazione di quel capolista come espressamente candidato alla presidenza del consiglio, senza toccare la coalizione che, anche con quell’indicazione, ha goduto e continua a farlo, del premio di maggioranza.

Contrariamente a questo sistema, la legge del 1995 non indicava espressamente il capolista come candidato alla presidenza regionale, perché non lo poteva fare per via della chiara contrarietà del previgente contenuto normativo dell’art. 112/4 della Costituzione e, in caso di rottura del rapporto fiduciario avvenuta però nei primi due anni di legislatura, contemplava il ridursi dei termini di questa a due anni per poi riprocedere all’elezione del consiglio regionale, in tal modo bloccando i ribaltoni e cioè quei comportamenti da volta gabbana di alcuni consiglieri o alcune forze politiche che passavano dalla maggioranza alla opposizione: nel caso ciò succeda in consiglio di quartiere, con buona pace della volontà popolare, non è prevista difesa.

Una soluzione che sembrava più confacente con il sistema e coerente con le motivazioni della maggiore trasparenza e correttezza partitica, del maggiore peso politico degli elettori, nonché della più grande responsabilizzazione nei confronti di questi ultimi del presidente del consiglio, poteva essere la restituzione del premio di  maggioranza.

Si poteva stabilire cioè, che in caso di rottura del rapporto fiduciario, non solo si potesse incidere sulla indicazione della persona del presidente, ma addirittura anche sulla godimento e permanenza del premio di maggioranza essendo che premio di maggioranza e indicazione del capolista vanno di pari passo come istituti sui quali si è incentrata la revisione statutaria in materia di sistema elettorale circoscrizionale.

Le forze politiche che avessero, così, deciso si voltare la gabbana e votato con la minoranza per sfiduciare il presidente, avrebbero però poi comportato anche la cancellazione del premio di maggioranza ritenuto, in questo senso, merito della persona del capolista e della maggiore attrazione che questa può avere operato nei confronti degli elettori, e ridato avvio ad un sistema proporzionale secondo le ultime elezioni ed il ristabilimento del sistema elettorale che vigeva in precedenza.

La mozione di sfiducia distruttiva era istituto presente nella legge n. 142 del 1990 secondo l’originaria formulazione dell’art. 37, ma quando valeva un sistema proporzionale puro senza premio di maggioranza e senza alcuna indicazione del capolista.

Una delle innovazioni più significative di quella legge era stata la fissazione di un termine perentorio di 60 giorni, decorrenti dalla proclamazione degli eletti o dalla vacanza, per la formazione della giunta locale, pena lo scioglimento del consiglio comunale o provinciale secondo l’art. 39 allora vigente; in tal senso la sfiducia costruttiva era particolarmente azzeccata proprio perché riduceva a zero, dunque annullava, i tempi di crisi politica locale, in quanto alla sfiducia faceva contestualmente seguito la fiducia ad un nuovo esecutivo e sulla base di diverse dichiarazioni programmatiche.

Questo istituto si abbinava comunque, ad un sistema elettorale proporzionale pure, che reggeva una forma di governo ancora assembleare essendo strutturata su cerchi concentrici per cui l’unico organo elettivo era il consiglio che eleggeva, al suo interno, giunta e sindaco (o presidente della provincia).

Quando si cambiò radicalmente la disciplina elettorale locale e, conseguentemente, anche la forma di governo, con la legge n. 81 del 25 marzo 1993, si abolì l’istituto della sfiducia costruttiva perché più confacente con un sistema maggioritario (nei comuni minori) e proporzionale con premio di maggioranza (nei comuni maggiori e nelle province) è la sfiducia distruttiva con contestuale scioglimento anche del collegio assembleare.

La legge n. 43 del 1995, che non poteva prevedere, se non nella forma surrettizia che si è vista, ipotesi di elezione diretta dell’organo monocratico, abbinava il sistema elettorale misto, ma prevalentemente proporzionale con premio di maggioranza, alla indicazione del capolista come figura attorno alla quale si giocava la campagna elettorale e persona ufficiosamente indicata come candidata alla presidenza dell’ente, con la previsione della formula dello scioglimento anche del consiglio quando si rompesse, per qualsiasi motivo, il rapporto fiduciario (formula antiribaltone, valida però solo per i primi due anni di governo regionale).

Per tutte queste ragioni, si palesa la contraddittorietà e l’incompatibilità del sistema proporzionale con premio di maggioranza e indicazione espressa del capolista come candidato alla presidenza del consiglio di quartiere da una parte, con la previsione della sfiducia costruttiva che intacca le ragioni di fondo delle prime previsioni.

Sarà comunque solo alla prova dei fatti che si potrà giudicare il sistema concepito come frutto libero e discrezionale valutazione politica rimessa all’autonomia comunale riminese.

 

Davide Morri.

Note:

[1] Vandelli, L., “Ordinamento delle autonomie locali”, III ed., Maggioli, Rimini, giugno 2000, p. 30 ss.; “Il governo locale”, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 95 ss.; “Le linee fondamentali dell’evoluzione legislativa in materia di autonomie locali”, Comuni d’Italia, 2000, p. 647 ss.

[2] Pizzetti, Franco, “La <<nuova>> autonomia dei Comuni e delle Province nella legge n. 265 del 1999”, in Le Regioni, 4, 1999, p. 627-29.

[3] Vandelli, L., “Ordinamento delle autonomie locali”, III ed., Maggioli, Rimini, giugno 2000, p. 35.

[4] Vandelli, L., “Ordinamento delle autonomie locali”, III ed., Maggioli, Rimini, giugno 2000, p. 37.

[5] Giglione, Fabio; Lariccia, Sergio, voce “Partecipazione dei cittadini”, Enc. diritto, Aggiornamento, Giuffrè, Milano, 2000, p. 943.

[6] Giglione, Fabio; Lariccia, Sergio, voce “Partecipazione dei cittadini”, cit., p. 943.

[7] Vedi nota precedente.

[8] Sepe, Onorato, voce “Circoscrizioni comunali”, in Noviss. dig. ital., UTET, Appendice, 1980, p. 1253.

[9] Art. 50/1 dello statuto.

[10] Art. 1 regolamento vigente e attualmente in fase di modificazione.

[11] Art. 39/2 bis, rispettivamente lett. “b” e “c” dello statuto comunale.

[12] Come già contemplati a livello comunale dall’art. 40/6 dello statuto.

[13] Art. 39 del regolamento.

[14] Quest’ultima precisazione risulta nell’art. 39 non del regolamento attualmente vigente, ma della bozza di modificazione adeguando così lo stesso all’art. 39/2 bis dello statuto, come si è visto sopra.

[15] Sono questi i servizi nell’ambito culturale, sportivo, sociale, ambientale, della tutela del territorio, del tempo libero e dell’informazione, come chiaramente indica l’art. 28 del regolamento.

[16] Allo stesso modo si chiarisce meglio al comma successivo il quale prevede che il consiglio circoscrizionale, entro il 30/06 provveda autonomamente a presentare alla Direzione Decentramento, per l’istruttoria e l’inoltro agli organi comunali, i progetti dei servizi di base che intenderebbe gestire, con l’indicazione delle finalità, il tipo di gestione ed i costi.

[17] Vedi attuale art. 28/5, ad avviso del quale il Consiglio comunale esamina il progetto del quartiere per verificarne la compatibilità agli indirizzi politico-amministrativi dell’ente e provvede, poi, a deliberare l’assegnazione dei servizi con decorrenza dall’anno successivo; ma potrebbe anche non approvare e rinviare il progetto al consiglio circoscrizionale.

[18] Art. 28/4 della bozza di regolamento.

[19] Pubusa, A., “Sovranità popolare e autonomie locali nell’ordinamento costituzionale italiano”, Giuffrè, Milano, 1983, p. 290.

[20] Art. 2/4 lett. “b”, legge 131/2003.

[21] In questo secondo caso, però, sarebbe da correggere lo statuto, procedura più gravosa che non la correzione del solo regolamento.

[22] Forse la soluzione migliore visto che della somma complessiva di 1.649.000 €, 1.020.000 è dovuto alle spese per il personale.

[23] Vandelli, L., “Ordinamento delle autonomie locali”, 3° ed., Maggioli, Rimini, 2000, p. 307; “L’ordinamento delle autonomie tra rilanci, conferme e svolte”, in Giornale dir. amm., 12, 1999, p. 1144; “Le linee fondamentali dell’evoluzione legislativa in materia di autonomie locali”, Comuni d’Italia, 2000, p. 651; Bertolissi, M., (a cura di), “L’ordinamento degli enti locali”, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 136.

[24] Domenico Giorgio, “Sulle nuove forme di autonomia delle circoscrizioni di decentramento comunale”, in Comuni d’Italia, 2002, p. 655.

[25] Art. 50/3 dello statuto.

[26] Art. 25 del regolamento.

[27] Art. 50/5 dello statuto.

[28] Bertolissi, M., (a cura di), “L’ordinamento degli enti locali”, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 136; Vandelli, L., “Ordinamento delle autonomie locali”, 3° ed., Maggioli, Rimini, 2000, p. 308; “L’ordinamento delle autonomie tra rilanci, conferme e svolte”, in Giornale dir. amm., 12, 1999, p. 1144.

[29] Art. 49/1 dello statuto.

[30] Art. 49/3 dello statuto.

[31] Dal punto di vista strettamente giuridico, nulla vieterebbe ai consiglieri neoeletti di non votare il candidato alla presidenza che si era proposto agli elettori, preferendo un altro soggetto. Questo però, sarebbe un comportamento gravido di conseguenze politiche e degno di ogni più negativo giudizio di disvalore morale e politico.

[32] All’inizio timidamente, solamente con il prevedere l’abolizione del voto segreto per l’elezione dei membri dell’esecutivo e stabilendo un termine perentorio di sessanta giorni dalle elezioni per la formazione delle giunte. Il vano decorso di questo periodo temporale comportava la comminazione dello scioglimento del consiglio locale e la necessità di procedere a nuove elezioni. Altro istituto con cui si cercava di pervenire allo stesso scopo, era quello della cosiddetta fiducia costruttiva, consistente nella possibilità per il consiglio di sfiduciare il sindaco e la giunta (lo stesso valeva in provincia) e, simultaneamente, eleggere un nuovo esecutivo sulla base di diverse dichiarazioni programmatiche.

[33] Fusaro, C., “La legge elettorale e la forma di governo regionale”, in “Saggi e materiali di diritto regionale”, di Barbera, A., Califano, L., (a cura di), Maggioli, Rimini, 1997, p. 298. Altra caratteristica degna di essere ricordata di questa legge era la cosiddetta “clausola antiribaltone”, contenuta all’art. 8. In forza di essa, quando il rapporto fiduciario che si instaurava fra il consiglio da una parte e presidente e giunta dall’altra era “comunque posto in crisi” (art. 8) entro i primi due anni di governo regionale, l’eventuale mozione di sfiducia o dimissione comportava la attribuzione della parola agli elettori e la indizione di nuove elezioni. Criticabile però, era che la formula antiribaltone durava per i primi due anni e basta lasciando che poi tornasse in auge il regno della partitocrazia.

[34] Vedi sopra, nota n. 31.