IL RUOLO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA NEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE EUROPEA di Andrea Sirotti Gaudenzi
Sommario
La lunga storia del processo di unificazione europea si caratterizza per levoluzione degli strumenti integrativi, il continuo aggiornamento e lampliamento delle finalità perseguite: dal progetto iniziale del MEC, fino al recente Trattato di Amsterdam, passando in rassegna lAtto Unico e il Trattato di Maastricht, gli obiettivi di integrazione si sono fatti sempre più ambiziosi. In questo panorama di integrazione comunitaria, la Corte di Giustizia della Comunità Europea ha svolto un ruolo decisivo, attraverso unintensa azione che ha enormemente accelerato il processo di conformare i sistemi giuridici nazionali ai principi su cui si fonda il Trattato, consentendo al nuovo ordinamento comunitario di affiancarsi agli ordinamenti giuridici nazionali, modificandoli e aggiornandoli, senza eliminarli. La Corte, ai sensi dellart. 220 (ex art.164) assicura il rispetto del diritto nellinterpretazione e nellapplicazione dei trattati e degli atti normativi derivati. Inizialmente, la Corte era costituita da sette giudici, affiancati da due avvocati generali; il numero dei componenti si rivelò inadeguato a seguito delladesione alla Comunità di nuovi Stati e, di fronte al moltiplicarsi delle cause, si giunse alla composizione di 15 giudici e 8 avvocati generali, che ai sensi dellart. 233 (ex art. 167) devono essere nominati di comune accordo tra i governi degli Stati membri, tra "personalità che offrano tutte le garanzie di indipendenza, e che riuniscano le condizioni richieste per lesercizio, nei rispettivi paesi, delle più alte funzioni giurisdizionali, ovvero che siano giureconsulti di notoria competenza". Le competenze della Corte di Giustizia in tema giurisdizionale riguardano i casi di:
Inoltre, la Corte ha la facoltà di comporre le controversie tra gli Stati in virtù di compromessi, agendo in qualità di giudice internazionale (art. 239, ex 182). Lart. 234 (ex 177) precisa che quando una questione di interpretazione e validità degli atti comunitari è "sollevata davanti a una giurisdizione di uno degli Stati membri, tale giurisdizione può, qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, domandare alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sulla questione". Dalla sua creazione, la Corte è stato lo strumento attraverso il quale la Comunità ha perseguito specifici obiettivi, utilizzando un diritto nuovo, denominato diritto comunitario, caratterizzato dalla propria autonomia, indipendenza ed uniformità in ogni Paese membro. Distinguendolo dal diritto nazionale, i giudici del Lussemburgo hanno posto il diritto comunitario su un piano diverso rispetto a questultimo e ne hanno stabilito la superiorità. In effetti, non può non riconoscersi come lelemento più caratteristico di questa dinamica integrativa sia rappresentato dal fatto che il nuovo ordinamento "sovranazionale" presupponga il mantenimento degli ordinamenti nazionali, dei quali è fondamentale la continuità di funzionamento, nellottica del perseguimento degli obiettivi comunitari. La Corte, così, ha rappresentato lo strumento per realizzare un sistema di tutela giurisdizionale di un nuovo ordinamento giuridico autentico, assicurandone lapplicazione in tutti gli Stati membri. Per migliorare la tutela giurisdizionale affidatale, la Corte è stata affiancata a partire dal 1989- dal Tribunale di primo grado (1), che le ha permesso di concentrarsi sul proprio compito fondamentale: fornire uninterpretazione uniforme delle norme di diritto comunitario, permettendone lapplicazione negli Stati membri. 2. IL RICONOSCIMENTO DI UN NUOVO ORDINAMENTO GIURIDICO Attraverso la propria attività, la Corte di Giustizia ha fornito ad istituzioni e cittadini la consapevolezza di poter contare sul riconoscimento di veri e propri diritti, tutelabili in sede giurisdizionale, sia dagli stessi giudici del Lussemburgo, che dai giudici nazionali. Nel suo intenso percorso, la Corte ha dovuto confrontarsi con lindifferenza delle istituzioni, è riuscita a superare liniziale ostilità degli organi di giustizia nazionali (in particolare, Corte costituzionale italiana e Corte federale tedesca), ha affermato la basilare importanza delle libertà fondamentali indicate dal Trattato di Roma (libertà di circolazione delle persone e delle merci, libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi). In questi anni, per merito della giurisprudenza della Corte di Giustizia, il diritto europeo ha affermato una sorta di competenza di carattere generale, stabilendo il proprio carattere assolutamente nuovo, attraverso laccertamento delle infrazioni degli obblighi assunti dai Paesi membri. Con sentenza del 5 febbraio 1963 (2), la Corte ha indicato la propria funzione nel garantire "luniforme interpretazione del Trattato da parte dei giudici nazionali". Nelloccasione, la Corte, chiamata a decidere sullefficacia dellart.12 del Trattato, ha affermato limportanza di uno dei principi su cui si regge il diritto comunitario: la diretta applicabilità delle norme contenute nel Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea. Sin dalle origini, lorientamento della Corte è stato quello di ritenere che la funzione del Trattato, dovendosi costituire un mercato comune incidente sui soggetti della Comunità, si proiettasse al di là di un accordo che si limitasse a costituire obblighi reciproci fra gli Stati contraenti. In effetti, il preambolo del Trattato, nel rivolgersi non solo oltre ai Governi nazionali, ma anche i popoli, chiarisce che le funzioni sovrane delle istituzioni comunitarie vanno esercitate sia sugli Stati membri, che sui cittadini della Comunità: si assiste alla formazione di un nuovo ordinamento che si basa non solo sulla partecipazione degli Stati membri, ma sullattiva collaborazione dei cittadini, ai quali viene riconosciuto lo status di soggetti di diritto europeo (3), diretti beneficiari dei diritti indicati nel Trattato, veri e propri diritti soggettivi che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare. E così, grazie alloperazione interpretativa della Corte, viene affermata limmediata efficacia delle norme del Trattato negli ordinamenti interni degli Stati membri, con lattribuzione della tutela dei diritti soggettivi riconosciuti in capo ai cittadini ai giudici nazionali (4). Nellesame dei rapporti tra normativa comunitaria ed ordinamenti nazionali, la Corte ha stabilito il principio secondo cui il Trattato istitutivo della C.E.E. ha dato vita ad un vero e proprio ordinamento giuridico, sorto dalla decisione degli Stati membri di rinunciare alla propria sovranità in taluni settori, che anche i giudici nazionali hanno il preciso dovere di applicare. Si esprime, quindi, il principio della superiorità del diritto comunitario su quello nazionale, facendo leva sullart.189, a norma del quale i regolamenti devono intendersi obbligatori e direttamente applicabili in ciascuno Stato membro (5). Lobbligo incombente sugli Stati membri di garantire lefficacia del diritto comunitario viene sancito da una serie di sentenze con le quali si assiste allopera di definitivo inserimento dei principi del nuovo ordinamento allinterno degli ordinamenti nazionali (6). 3. REGOLAMENTI, DIRETTIVE E DIRETTA APPLICABILITA La diretta applicabilità è la caratteristica principale del regolamento, che ai sensi dellart. 249 (ex art. 189), è atto "di portata generale" ed "è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri". Non è necessario, pertanto, alcun adeguamento da parte degli ordinamenti nazionali, dato che il regolamento può produrre i propri effetti direttamente nellordinamento nazionale di ogni Paese membro, così come più volte precisato dalla Corte di Giustizia, nellattribuire ai singoli veri e propri diritti che il giudice nazionale ha il preciso dovere di tutelare. Recentemente, la Corte ha avuto loccasione di precisare come ci si debba comportare di fronte allincompatibilità tra norme di diritto nazionale interno e norme di diritto comunitario, stabilendo di fatto la superiorità del diritto europeo rispetto a quello nazionale: "ogni giudice nazionale ha lobbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge nazionale, sia essa posteriore o anteriore alla norma comunitaria". I maggiori problemi, si pongono di fronte alladeguamento del legislatore nazionale agli atti delle istituzioni che non sono suscettibili di applicazione diretta, quali le direttive e le decisioni, che necessitano di un atto di recepimento da parte del legislatore nazionale. Secondo le costanti interpretazioni dei giudici del Lussemburgo, una direttiva comunitaria può considerarsi direttamente applicabile a condizione che sia:
Con la sentenza "Van Duyn" del 1974 (7), la Corte ha espresso per la prima volta questo principio: "nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano, mediante direttiva, obbligato gli Stati membri a adottare un determinato comportamento, la portata dellatto sarebbe ristretta se i singoli non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderlo in considerazione come norma di diritto comunitario" (8). Daltra parte, lart. 177, che autorizza i giudici nazionali a domandare alla Corte di Giustizia di pronunziarsi sulla validità e sullinterpretazione di tutti gli atti compiuti dalle istituzioni, senza distinzioni, "implica il fatto che singoli possano far valere atti dinanzi a detti giudici" (9). I giudici del Lussemburgo forniscono il modus operandi per gli operatori del diritto: è necessario fare una valutazione caso per caso, interpretando la natura, lo spirito e la lettera della disposizione. Di fronte a queste considerazioni, cè chi ha affermato un principio generale di libertà delle forme (per cui una direttiva dettagliata dovrebbe ritenersi un regolamento vero e proprio, pur non rivestendone lo specifico habitus giuridico). La Corte di Giustizia, per affermare il principio della diretta applicabilità delle direttive comunitarie chiare, incondizionate e scadute, ha agito in due modi: o attraverso decisioni di tipo sanzionatorio, o attraverso sentenze che stabilissero il principio dellinterpretazione conforme. Nel primo caso, la Corte ha affermato il principio secondo cui i cittadini possano chiedere che la direttiva trovi diretta applicazione. Con la sentenza "Ratti"(10), che ha riguardato il nostro Paese, i giudici comunitari hanno stabilito che "lo Stato membro che non abbia adottato entro i termini, i provvedimenti dattuazione imposti dalla direttiva non può opporre ai singoli linadempimento, da parte sua, degli obblighi derivanti dalla direttiva stessa". Con la successiva sentenza "Foster" del 1990 (11), la Corte ha ampliato il concetto di "Stato", comprendendovi anche gli enti pubblici, mentre con la sentenza "Marshall" del 1984 (12), ha chiarito che la direttiva non può essere fatta valere "in senso orizzontale", vale a dire contro il singolo, ma solo nei confronti dello Stato membro cui è rivolta, sulla base dellinterpretazione dellart. 189 del Trattato. Altro orientamento è stato tenuto dalla Corte, quando ha seguito la teoria della "interpretazione conforme". Nella sentenza "Von Colson e Kamann" del 1983 (13), la Corte, chiamata a decidere su discriminazioni basate sul sesso in occasione dellaccesso al lavoro, ha stabilito che lo Stato deve interpretare la legge nazionale alla luce della direttiva. "La direttiva non implica alcun obbligo assoluto e sufficientemente preciso che possa essere fatto valere, in mancanza di provvedimenti dattuazione adottati entro il termine, dal singolo onde ottenere un determinato risarcimento in forza della direttiva, qualora una conseguenza del genere non sia contemplata o consentita dal diritto nazionale". Seguendo questorientamento, pertanto, il giudice nazionale si dovrebbe far carico di interpretare la legge in maniera conforme ai principi comunitari, applicando la normativa interna con un occhio di riguardo alle esigenze espresse dalla specifica direttiva non ancora applicata nel proprio ordinamento nazionale. Ultimamente, però, la Corte ha recuperato i principi iniziali; dalla sentenza Francovich del 1990 (14) in poi, non solo ha ribadito il principio della responsabilità dello Stato membro che non adegui la propria normativa alla direttiva, ma ha addirittura sancito la responsabilità per fatto illecito dello Stato inadempiente, con conseguente obbligo di risarcire i danni subiti dai cittadini a seguito del mancato adeguamento. Il messaggio è semplice: il diritto comunitario rappresenta un ordinamento giuridico che si impone ai Paesi membri, per cui laffermazione della responsabilità di cui risponde lo Stato per danni causati ai singoli per le violazioni del diritto della Comunità Europea ad esso imputabili è perfettamente in linea con i principi ispiratori del Trattato istitutivo. 4. IL RECEPIMENTO DEI PRINCIPI ESPRESSI DALLA CORTE DI GIUSTIZIA NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE ITALIANA Negli anni 60, la Corte costituzionale rifiutò la tesi in base alla quale la legge nazionale contenente disposizioni difformi dai principi comunitari dovessero intendersi incostituzionali per violazione indiretta dellart. 11 della Costituzione (15). La possibilità di disapplicazione da parte degli organi di giustizia interni delle norme nazionali in contrasto con quelle comunitarie doveva intendersi quale "privazione di efficacia della volontà sovrana degli organismi legislativi degli Stati membri" (16). La Corte Costituzionale precisò che le norme di diritto comunitario erano da porre nello stesso piano delle norme della legge ordinaria, facendo leva sul fatto che i trattati istitutivi fossero stato recepiti attraverso leggi ordinarie. Pertanto, secondo questa interpretazione, la relazione tra norme interne e norme comunitarie si sarebbe dovuta proporre secondo la logica della successione della legge nel tempo, con la conseguente possibilità di vedere una norma comunitaria abrogata da una successiva norma nazionale successiva, secondo il principio in virtù del quale "lex posterior derogat priori". Successivamente, con lacquisizione di una diversa sensibilità, la Corte costituzionale incominciò ad aprirsi al diritto comunitario, riconoscendone la superiorità sulle norme ordinarie di diritto interno, affermando che i principi espressi dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia comunitaria partecipano della stessa natura del diritto comunitario. Quindi, la Consulta iniziò a ritenere che anche le sentenze della Corte di Giustizia debbano intendersi prevalenti sul diritto nazionale, sancendo la diretta applicabilità dei principi espressi dai giudici del Lussemburgo, a condizione che fossero chiari, precisi e concordanti. Con la nota chiarezza, il prof. PAOLO MENGOZZI, in una delle sue pubblicazioni, ha sintetizzato la svolta della Consulta: "la Corte costituzionale, innovando rispetto a proprie precedenti più caute posizioni e accogliendo in larga misura la pretesa della Corte di Giustizia che i giudici ordinari nazionali assicurino il pieno rispetto del diritto comunitario, ha riconosciuto a questi ultimi il potere di non applicare norme statali che siano incompatibili con precedenti norme comunitarie o con precedenti statuizioni della Corte di Giustizia, a condizione che, gli uni o gli altri valori giuridici comunitari, presentino la caratteristica di avere un contenuto sufficientemente chiaro, preciso e determinato e non risultino in contrasto con principi fondamentali dellordinamento costituzionale italiano o con diritti fondamentali da esso tutelati" (17). In questo senso, può dirsi dimportanza storica la sentenza n. 170/84 (Granital S.p.A. c. Amministrazione delle Finanze) (18), con cui la Consulta ha indicato la nuova chiave di lettura dei rapporti tra ordinamento interno e diritto comunitario: "le disposizioni di legge contrarie al regolamento comunitario non possono considerarsi nulle od inefficaci, ma sono costituzionalmente illegittime e vanno in quanto tali denunziate in questa sede, per violazione dellart. 11 della Costituzione". Così, La Corte costituzionale, dovendo dirimere i dubbi relativi ai rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, ha svolto un esame ermeneutico dei principi del Trattato e ha precisato che questultimo prevale rispetto alle confliggenti statuizioni del legislatore nazionale (19). Recentemente, con sentenza del 7/10 novembre 1994, n.384, la Corte Costituzionale ha stabilito che, quando davanti ad un giudice interno si pone un conflitto insanabile fra norma comunitaria e norma interna, il giudice non deve più rinviare la questione alla Consulta, ma ha il preciso dovere di applicare direttamente la norma comunitaria, anche se successiva. La sentenza, nello scindere il giudizio relativo al problema del contrasto tra norme comunitarie direttamente applicabili e norme interne (di competenza dei giudici di merito) e il giudizio di costituzionalità (di spettanza della Consulta), si ispira al principio secondo cui un provvidemento incompatibile con disposizione del Trattato "crea una situazione di fatto ambigua" e costituisce "una trasgressione degli obblighi imposti dal Trattato", citando una sentenza della Corte di Giustizia (20). Note
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