Lo scorso 4 luglio 2024, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata sulla violazione dell’art. 3 della Convenzione in relazione al protrarsi della custodia in carcere del ricorrente, affetto da un disturbo psichiatrico in relazione al quale aveva posto in essere vari tentativi di suicidio.
La Corte ha accolto la doglianza in relazione al periodo compreso tra il 4 luglio 2019 e il 3 settembre 2020.
Sul versante normativo viene in evidenza l’art. 3 della Convenzione EDU che proibisce la tortura, le pene e i trattamenti inumani e degradanti.
Indice
1. Il fatto
Il ricorrente nel corso del 2019 aveva tentato il suicidio, in ragione di ciò era stato ricoverato in ospedale, dove gli era stato diagnosticato un disturbo della personalità e una grave sindrome depressiva. Il personale medico penitenziario del carcere di Bari nel quale era stato traferito nel luglio del 2019, successivamente confermava la diagnosi. Il ricorrente intraprendeva pertanto una terapia farmacologica, la quale tuttavia sulla base di un rapporto del maggio 2020 e di uno dell’agosto 2020, risultava inefficace. Il ricorrente, durante la restrizione presso il carcere di Bari, aveva messo in atto quattro tentativi di suicidio. Alla luce di tali fatti, il 2 luglio 2019, i difensori del ricorrente, chiedevano il differimento della custodia in carcere o in alternativa la sostituzione della medesima con la misura degli arresti domiciliari, sulla base dell’incompatibilità dello stato mentale del ricorrente con la detenzione in carcere, messa in luce da una perizia psichiatrica di parte. In conseguenza di tale richiesta, il magistrato disponeva la sottoposizione del ricorrente ad un periodo di osservazione psichiatrica; tuttavia l’ordine del magistrato rimaneva ineseguito per diversi mesi. Si procedeva in tal senso solo in data 18 giugno 2020, mediante il trasferimento temporaneo del ricorrente presso il carcere di Spoleto. Nell’aprile del 2020, la difesa del ricorrente reiterava la richiesta di sostituzione della custodia in carcere con gli arresti domiciliari, presentando una nuova istanza, che veniva poi rigettata. Nel luglio del 2020 il rapporto conclusivo dell’osservazione psichiatrica confermava la diagnosi ospedaliera del 2019, evidenziando come il ricorrente fosse a stento compatibile con la detenzione in carcere, l’assenza di psicoterapia e cure psichiatriche, la scarsa incidenza della terapia farmacologica, l’elevato rischio di suicidio e l’opportunità che fosse collocato in una struttura terapeutica del luogo d’origine in modo che fosse più agevole per il ricorrente mantenere i rapporti familiari.
Il ricorrente intanto depositava ricorso presso la Corte EDU, affinché sulla base dell’art. 39 del Regolamento della Corte venissero adottate misure provvisorie. In conseguenza di ciò la Corte chiedeva al Governo che il ricorrente, in pendenza della decisione del Tribunale di Sorveglianza, fosse sottoposto a terapia e a supervisione.
Successivamente essendo terminato il periodo di osservazione, il ricorrente veniva trasferito presso il carcere di Bari e successivamente presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere, sebbene nello stesso non vi fosse disponibilità nell’ATMS. Il ricorrente veniva allora collocato in una cella ordinaria con sostegno integrato intensivo, che implicava la presenza di un’équipe di psichiatri e psicologi, una cura farmacologica, la presenza di un piantone. Ciononostante, il ricorrente tentava nuovamente di suicidarsi. Il tribunale di sorveglianza di Bari non accoglieva la richiesta di scarcerazione. Il ricorrente presentava nuovamente istanza alla Corte ex art 39 del regolamento e la stessa veniva rigettata.
Il ricorrente con ricorso alla Corte Edu lamentava quindi la violazione degli artt. 2, 3, 4, 51 e 37 della Convenzione.
2. L’art. 3 CEDU
L’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo rubricato “Proibizione della tortura”, sancisce che nessuno possa essere sottoposto a pena o a trattamenti inumani o degradanti.
E’ opportuno operare una distinzione alla luce della giurisprudenza della Corte tra trattamenti degradanti, inumani e tortura.
Un trattamento si qualifica come degradante quando lede la dignità di un individuo, umiliandolo, generando uno stato di inferiorità, così da comportare ripercussioni sulla condizione fisica e morale dell’individuo.
Nel caso Kudla c. Polonia n. 30210/96, si dava una definizione di trattamento inumano come quello volto a provocare una sofferenza di particolare intensità a livello fisico o mentale.
Ciò che differenzia il trattamento inumano dalla tortura è la gravità della sofferenza, più acuta e crudele nel caso della tortura; quest’ultima viene così definita nel caso Irlanda c. Regno Unito n. 5310/71. Sulla base della giurisprudenza della Corte si può ricavare che nel caso di trattamento inumano così come nel caso di trattamento degradante non è richiesta l’intenzionalità, a differenza che nel caso della tortura, dove l’intenzionalità costituisce un presupposto per la sussistenza della stessa.
Affinché si registri la lesione dell’art. 3 CEDU, la giurisprudenza della Corte (v. caso Kudla c. Polonia n. 20210/96 par. 91; sentenza Raninen c. Finlandia del 16 dicembre 1997, Raccolta delle sentenze e delle decisioni 1997-VIII, pp. 2821-22, § 55) richiede che venga superata una soglia di gravità che prenda in considerazione le circostanze oggettive del fatto come la durata, il tipo e le modalità di trattamento e le qualità soggettive della vittima, comprensive anche dello stato di salute.
3. Custodia in carcere e disturbo psichiatrico: la decisione della Corte
La Corte ritiene il ricorso ricevibile; nel merito la Corte opera una distinzione tra due profili temporali. Per il periodo che va dal 4 luglio 2019 al 3 settembre 2020 vi sono poche prove del sostegno effettivo fruito dal ricorrente, in quanto i rapporti sono sporadici, non vi è cartella clinica ed eccetto che per il mese di agosto non sono fornite prove di sostegno psicoterapeutico, inoltre l’esame da parte delle autorità delle condizioni di salute del ricorrente era stato caratterizzato da notevoli ritardi, in ordine all’avvio dell’iter e per la decisione sulla richiesta di scarcerazione; ciò implica che in tale periodo temporale, ad avviso della Corte, si sia verificata la lesione dell’art. 3 della Convenzione.
Il secondo periodo che va dal 3 settembre 2020 e coincide con il trasferimento presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere è connotato da adeguatezza delle cure e prove in ordine alle medesime fornite dal Governo, tali da escludere la violazione dell’art. 3 della Convenzione in ordine a tale periodo.
La Corte rigetta l’istanza che lamenta la lesione dell’art. 5 della Convenzione in quanto ritiene che non soddisfi i requisiti di ricevibilità e che non vi sia stata una violazione in tal senso.
La Corte ritiene che non vi sia la necessità di analizzare le restanti doglianze, in particolare quella relativa alla lesione dell’art. 2 della Convenzione, dovuta secondo il ricorrente alla mancata osservazione da parte delle autorità nazionali delle indicazioni della Corte ex art 39 del Regolamento.
La Corte ritiene pertanto che lo Stato convenuto debba versare 10 000 euro per il danno non patrimoniale e 8000 per le spese, a queste somme vanno aggiunte quelle dovute eventualmente a titolo di imposta. Viene rigettata la richiesta di equa soddisfazione per il resto, avanzata dal ricorrente.
4. Conclusioni
L’attenzione ai disturbi psicologici dovrebbe comportare una maggiore celerità nell’accertamento dei medesimi e nella presa d’atto delle decisioni, in modo da garantire un pieno rispetto della dignità umana e misure adeguate per evitare conseguenze disastrose che impattino la vita di chi è sottoposto a trattamenti non adeguati o all’assenza dei medesimi.
L’art 3 CEDU viene confermato anche a livello sovranazionale dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (UNCAT), tuttavia la stessa contiene solo una definizione di tortura e non anche di trattamento o pena inumana o degradante; per quanto concerne nello specifico le persone con disabilità, a livello sovranazionale si registra la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, il cui art 15 prevede la libertà dalle torture e da trattamento o pena crudele, inumana o degradante.
Questo conferma l’importanza di un approccio più attento alle esigenze di persone che si trovano in condizioni di particolare vulnerabilità dettate dal loro stato di salute.
Sotto il profilo del trattamento inumano e degradante, l’Italia era già stata condannata con la sentenza Sulejmanovic, in relazione al problema del sovraffollamento carcerario, poi accertato come problema sistemico con la sentenza Torreggiani e altri c.Italia. Il rispetto dell’art 3 CEDU, pone dunque la questione di ripensare ai meccanismi in un’ottica più efficiente e rapida, ma allo stesso tempo implica che i trattamenti (in specie quelli carcerari) avvengano nel rispetto della dignità umana e che gli Stati, nel solco della giurisprudenza della Corte, adempiano a delle obbligazioni positive, per consentire il pieno rispetto dell’art. 3 CEDU.
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