Quando, nel 1981, ho preso servizio nella polizia municipale di Forte dei Marmi, come “vigile stagionale”, certamente sentivo in me la confortevole speranza di non restare un “vigile stagionato”, se non un agente della polizia municipale proiettato sol per questo verso un cammino di crescita professionale ed umana.
Osservo, oggi, giovani (e meno giovani) colleghi che vagano tra un comando ed un altro, o passano tra le più disparate esperienze di lavoro nella pubblica amministrazione, sino a constatare con mano la precarietà non solo del lavoro ma ciò che più conta della speranza per il futuro, nell’accettazione di un contratto pubblico privatizzato, rinnovato ogni quindici giorni!
Beh, sento il bisogno di esternare uno stato d’animo che è trasversale ad ogni professionalità della polizia municipale, ma che vuole essere provocatoriamente diretto al sentire di ciascun Collega, in quanto professionista pubblico ma, in quanto cittadino e magari, madre o padre di uno di questi giovani che rischia di divenir ben presto “uccel di gabbia”.
Lo faccio ora, perché la mia provocazione è trasversale ad ogni governo che si andrà a formare e che auspico governi per il bene e per il futuro del Paese, il cui ordinamento costituzionale è fondato sul lavoro non già come mero strumento di arricchimento individuale, ma come valore sociale della Nazione.
Ringrazio l’Editore che sarà sensibile a questa mia pubblica esternazione e quanti, pur critici nei miei confronti e nel mio pensiero, contribuiscano comunque a dare certezza per il domani ai nostri giovani “impiegati in divisa” della polizia municipale.
LA GUARDIA DEL COMUNE ED IL VIGILE URBANO
Come già dicevo, quando sono entrato nella polizia municipale, era il lontano 1981: il periodo che stava a cavallo tra due importanti contratti collettivi del lavoro che, se non sbaglio, erano due decreti del ’79 e del ’83… non sono importanti le date, in fondo.
Ciò che più conta, la guardia del comune trasformava il suo rapporto di impiego con l’Ente locale, trasformando il suo regime contrattuale da salariato (quale “bassa manovalanza” della gestione della cosa pubblica locale) a quello di impiegato (in divisa e nell’ottica di partecipare al governo del territorio e della sicurezza locale).
Insomma, eravamo vigili urbani e rifiutavamo, come categoria, di sentirci definire ancora con l’epiteto di guardie.
C’era un bisogno di riconoscimento della nostra dignità professionale, tanto che associazioni di categoria quali l’ANVU (all’epoca, Associazione Nazionale Vigili Urbani, per l’appunto) diffondevano l’idea di una legislazione quadro sulla polizia municipale: quella che poi sarebbe stata pubblicata come la famosa e tutt’ora vigente legge n. 65 del 1986.
Il raggiungimento di quell’obiettivo faceva esultare chi, come me, continuava a credere nel futuro della categoria, se non altro perché era presente in me la certezza del futuro della e per la mia professione, in termini contrattuali: all’onere della professione pubblica, il legislatore continuava a riconoscere l’onore del riconoscimento delle garanzie del contratto pubblico, con dei contratti nazionali che unificavano il territorio nazionale, se non in ragione di differenziazioni locali non rilevanti. Insomma, si sviluppava sul territorio dello Stato, per quanto parcellizzato in piccole realtà locali, un concetto uniforme di rapporto di impiego con l’Ente Locale.
Certamente, quello stesso legislatore sentiva anche il brusio della gente che cercando il vigile, “lo trovava solo al bar” (come si diceva). Ma questa non era soltanto una battuta ironica, se non il segnale di un disagio e di un cattivo rapporto tra i cittadini e, in generale, la pubblica amministrazione. Ad onor del vero, non era neppure una battuta errata − per certi versi − giacché la pubblica amministrazione, nel suo insieme e per come era organizzata, ma non certo per le responsabilità dei suoi dipendenti politicizzati, dava di sé l’immagine più pessima.
Ma la legge di Marphie dice che quando si spara tra la folla, per colpire chi fa rapina, spesso restano feriti coloro i quali si trovavano lì solo per caso e che magari sono stati rapinati poco prima!
Così abbiamo avuto una riforma del codice di procedura penale che ci ha umiliati, continuando a definirci quali guardie del comune, per fare un esempio.
VERSO LA PRIVATIZZAZIONE DEL PUBBLICO IMPIEGO E LA SINDACALIZZAZIONE DELLA POLIZIA MUNICIPALE
Non vogliamo perdere la via maestra e l’ultimo “affondo” volva solo essere una semplice sottolineatura di come (s)ragionava il nostro legislatore…ma del resto, di come ancor oggi continua a (s)ragionare.
Piuttosto, l’inefficienza della pubblica amministrazione dava vita a moti dell’animo politico tutti tesi a dimostrare la forza e la capacità della nostra classe politica.
Ma un reale problema di miopia politica osservava da lontano, quello che non riusciva o, per meglio dire, non voleva osservare da vicino.
Così, anziché di culturalizzare (sia consentito il termine infelice, ma calzante) gli amministratori pubblici (“pontificati” dal partito, ancorché professionalmente impreparati al ruolo di amministratore) in primis ed i dipendenti pubblici (comunque non eletti, ma “santificati” al ruolo a seguito di superamento di pubblico concorso) poi, si è scelta la strada di punire i nullafacenti dell’amministrazione locale (solitamente, proprio questi ultimi), in quanto espressione non già di autonomia locale, ma di azione di governo centrale in sede locale.
Chi di noi non ricorda l’assurdo contratto capestro che andava a sanzionare la reiterata assenza per malattia, al fine di scoraggiare coloro i quali approfittavano palesemente della certificazione medica: costoro continuavano nel loro malaffare, se non aggravando la loro “patoruberia” e coloro che erano ammalati per davvero, si recavano in servizio o subivano la beffa della sanzione contrattuale. Ma certamente, in quel modo, il governo del Paese raccontava al popolo scontento che i dipendenti pubblici non restavano più impuniti.
Sicuramente, ci si organizzava per privatizzare il pubblico impiego.
Probabilmente, agli occhi del nostro legislatore i costituzionalisti ebbero solo un moto dell’animo quando elaborarono un dettato costituzionale che riconosceva particolare dignità ed onore ai c.d. “servitori dello Stato”: servitori, siamo rimasti, ma probabilmente non con lo stesso significato di dignità che ci riconosce la Costituzione!
Del resto, la nostra controparte, i nostri rappresentanti sindacali, probabilmente non avevano nelle vene quello stesso sangue che scorreva nelle vene dei metalmeccanici.
Le grandi sigle confederate erano presenti nei comuni ma, solo formalmente.
Certamente, la nostra categoria era quella meno rappresentata in quanto già minoranza di una dipendenza che non amava poi così molto la presenza di un sistema che potesse realmente sindacare le scelte opinabili di amministratori così abili nella prestidigitazione.
Così ebbi la fortuna − o la sfortuna, in termini di passional sentire − di veder nascere il S.U.L.P.M.
Sempre a Camaiore. Sempre nella stessa località dove anni prima si formava l’A.N.V.U. e che subiva l’ombra derivante dalla fascinazione di questa nuova sigla rappresentativa.
Ma ricordo il forte spirito innovativo di quell’idea di sindacato: non già quella di sostituirsi alle grandi confederazioni del lavoro ma, piuttosto, attraversandole tutte, stimolare la loro attenzione ad una causa molto importante: quella della polizia municipale che non poteva più essere considerata una questione impiegatizia, ma una risorsa reale per il governo della sicurezza e del territorio.
Ma il potere fa gola agli uomini “forti” e così il S.U.L.P.M. divenne la sigla che andava non più a stimolare ma a fare da parte la confederazione dei sindacati dei lavoratori, di tutti i lavoratori.
Una sigla che ha fatto veramente molto per la categoria ma che, se posso dire, non ha avuto la capacità di coinvolgere tutte le sigle sindacali − confederate o meno − per ottenere una contrattazione della polizia municipale, svincolata dai lacci e laccioli dei dipendenti degli enti locali.
Così ci sono “aneddoti” simpatici quale quello che mi è capitato con un collega dell’elettorale che si lamentava del fatto che io fossi indennizzato dal rischio professionale, quando a lui poteva cadere la macchina da scrivere su di un piede… ero tentato di vedere sul posto se il suo grido poteva essere simile a quello di qualche Collega caduto sotto una pallottola di un rapinatore o, anche più semplicemente, così simile al silente vibrare della sopportazione di quelli che ti minacciano (fino alla terza e quarta generazione), ti oltraggiano, di dileggiano, ti percuotono sino a renderti così simile proprio a San Sebastiano, non per niente il nostro martire di riferimento!
Ancora oggi siamo dentro i nuovi “contratti di garanzia” (chiamati così da me, perché prevedono soglie minime di contrattazione) e quelli decentrati con i quali si fa tutto ed il contrario di tutto: dipende solo dalla capacità del rappresentante sindacale, dalla buona disponibilità dell’amministratore, dalla realtà economica locale,… il lavoratore è solo una persona più o meno fortunata in ragione di dove è capitato, indipendentemente dalla sua funzione in concreto.
Ciò che più conta, siamo stati privatizzati.
Come dire, che se come amministratore, non ho più bisogno del poliziotto municipale, o di quello locale, o del vigile urbano o, ancora, della guardia del comune, poco male: lo prendo e lo sposto, o lo sbatto, o lo ghettizzo, o lo umilio a seconda della esigenza locale di funzionalità della cosa pubblica o di visibilità elettorale del “coraggio” dell’amministratore locale.
CONCLUSIONI
Chissà se su qualche rivista sono realmente arrivato alle conclusioni.
Beh, se questo è accaduto e non rischio troppo ad esternare un pensiero (che è quello di molti), certamente mi fa male pensare che io oggi sono qui e domani posso essere da tutt’altra parte: perché lo richiedono esigenze di efficacia e di efficienza dell’azione amministrativa ma, in certo qual modo, anche perché ho ficcato il naso dove non dovevo!
Ma soprattutto mi fa male pensare che come servitore dello Stato o del Comune − che nella nostra tradizione è la più intima essenza dello stato di diritto − posso percepire il dileggio della mia uniforme, senza che l’ordinamento possa reagire giustamente; senza che la mia funzione pubblica mi metta nella condizione di poter reagire, nell’interesse non della mia persona, ma della cosa pubblica.
Questo, come dipendente e come cittadino mi fa male, parecchio male.
Questo avviene perché siamo stati privatizzati e perché nei fatti − per quanto i nostri politici, nella variopinta bandiera che li elegge ad unica vera forza di governo del Parlamento, affermino di riversare fiducia estrema nella nostra categoria e nella nostra capacità di garantire la sicurezza sul territorio − siamo flessibili e quindi condizionabili: e questa è sì una forza, ma non la nostra!
Questo avviene perché anche per la polizia municipale si prevede e si riconosce il “valore” della flessibilità che non garantisce futuro e quindi, della consequenziale esigenza di costruire il futuro oggettivamente, ma sulle assicurazioni di chi può aiutarci a “crescere” soggettivamente.
Le elezioni sono alle porte e magari il popolo italiano saprà anche scegliere quali sono le differenze reali tra la destra e la sinistra o, addirittura, avrà pure la forza di non rinunciare al suo diritto fondamentale di libertà: quello di esprimere il voto, che è costato alla vita di milioni di persone.
Ma se ho un moto di speranza, è quello di credere che tanto la destra, come la sinistra, dimostrino di voler bene a questa Nazione garantendo quel valore costituzionale sul quale è fondata: il lavoro.
Il lavoro, come sistema di dignità del vivere che può passare anche per la flessibilità, quando tramite questa è comunque possibile garantire continuità a questo valore.
Per la polizia municipale, certamente, auspico il riconoscimento formale e sostanziale di dignità giuridica e pubblica, con un contratto categoriale e con garanzie assimilabili a quelle delle altre forze di polizia dello Stato, relativamente alle quali la polizia municipale si distingue solo per l’uniforme che indossa.
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