«Per evitare duplicazioni e garantire il migliore impiego possibile delle risorse, l’Istituto dovrebbe lavorare a stretto contatto sia con i programmi che con gli organismi della Comunità, in particolare con la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro
[1], con l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro
[2], con il Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale
[3] e con l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali
[4]», così recita il
considerando n. 14 del Regolamento (CE) n. 1922/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 dicembre 2006, che istituisce un Istituto europeo per l’uguaglianza di genere. Da questo punto si può cogliere la stretta connessione esistente tra le diverse norme, connessione che in certa misura il legislatore nazionale, nel recepire le direttive europee in materia di pari opportunità e di istituzione degli organismi con funzioni nella sostanza rispecchianti quelle precipue dell’Istituto europeo, pare sfuggire salvo poi aprire, non potendo fare altrimenti, in tutte le situazioni in cui sottolinea come il soggetto possa chiedere il risarcimento per danno non patrimoniale (artt. 37 comma 4, 38 comma 1, 55 quinquies comma 7, del D.lgs. 11 aprile 2006 n. 198) in sede di ricorso avverso atti o comportamenti che ne ledano o abbiano leso la dignità.
Perché sostenere che esista una stretta correlazione? Vediamo di ricostruire alcuni passaggi delle normative europee.
L’aver precisato la necessità di evitare duplicazioni richiama la costante di tutta la produzione legislativa comunitaria consistente nel rispetto e nell’applicazione dei principi di proporzionalità, efficacia
[5], dissuasività e sussidiarietà
[6]. Perché tali principi trovino un corretto collocamento in un ambito così delicato quale quello dell’uguaglianza di genere, si rende altrettanto indispensabile individuare criteri rigorosi per attuare le scelte legislative attraverso strategie e strumenti metodologici ed operativi altrettanto rigorosi ma al tempo stesso non costretti e ridotti ad un unico ambito. In altri termini, poiché la realizzazione delle pari opportunità avviene in tutti i settori della vita, appare pacifico che si trovino ad interagire le norme specifiche per ciascuno di essi. Quanto ai criteri, il Regolamento (CE) n. 1922/2006 li precisa all’art. 3, nr. 1, lett. b) quando l’Istituto è chiamato a perseguire i propri obiettivi apprestando “metodi per migliorare l’obiettività, la comparabilità e l’attendibilità dei dati a livello europeo, definendo criteri atti a migliorare la coerenza delle informazioni e a tenere conto delle questioni di genere nella raccolta dei dati”. Ritroviamo pertanto la necessità della
obiettività, che potremmo leggere nel senso anche del rispetto e dell’applicazione della proporzionalità
[7], della
comparabilità e ciò significa che se leggiamo un dato relativo ad una discriminazione che determini sul posto di lavoro fenomeni riconducibili a stress andranno richiamate le disposizioni in materia di salute e una comparazione della corretta valutazione dei rischi e di tutti i rischi lavoro-correlati, dell’
affidabilità che per realizzarsi richiede il rispetto dei principi della efficacia e della capacità dissuasiva delle disposizioni messe in campo. Questo punto ci viene chiarito meglio dal Regolamento (CE) n. 1922/2006 là ove sottolinea il richiamo e la diffusione delle informazioni sugli esempi positivi (art. 3, comma 1, lett. h)) e ove, ribadendo nuovamente lo scopo di evitare duplicazioni e garantire il miglior uso delle risorse, conferisce all’Istituto il compito di garantire un coordinamento adeguato con tutte le agenzie comunitarie e gli organismi dell’Unione pertinenti da definirsi, se del caso, in un memorandum d’intesa (art. 4, comma 4). Ancor meglio cogliamo come possa intendersi l’affidabilità aggiunta a efficacia e dissuasione se andiamo al
considerando n. 11 che così recita: “l’uguaglianza tra uomini e donne non può essere conseguita esclusivamente attraverso una politica antidiscriminatoria, ma richiede misure volte alla promozione di una coesistenza armoniosa e di una partecipazione equilibrata di uomini e donne nella società”.
Se queste sono le impostazioni date al fine di rendere operativo, efficace e propositivo il ruolo dell’Istituto, occorre fare un ulteriore passo e ricostruire i passaggi normativi che stanno a monte di tutta la costruzione destinata a caratterizzare l’interazione tra direttive sulle pari opportunità e valutazione dei rischi in ambiente di lavoro anche e soprattutto alla luce dei principi su citati imprescindibili.
Il Regolamento (CE) n. 1922/2006 apre la serie dei considerando citando gli articoli fondamentali dei trattati europei:
i) gli artt. 21 e 23 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che vietano ogni discriminazione fondata sul sesso e dispongono che la parità tra gli uomini e le donne debba essere assicurata in tutti i campi;
ii) l’art. 2 del trattato istitutivo della Comunità europea che stabilisce che la parità tra uomini e donne è uno dei compiti fondamentali della Comunità;
iii) l’art. 3, paragrafo 2 del trattato istitutivo della Comunità europea che stabilisce che la Comunità mira ad eliminare le ineguaglianze e a promuovere la parità tra uomini e donne in tutte le sue attività, garantendo in tal modo l’integrazione della dimensione dell’uguaglianza tra uomini e donne in tutte le politiche della Comunità;
iv) l’art. 13 del trattato istitutivo della Comunità europea che conferisce al Consiglio il potere di prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate, tra l’altro, sul sesso in tutti gli ambiti di competenza della Comunità;
v) l’art. 141 del trattato istitutivo della Comunità europea sul principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione.
Se queste sono le disposizioni generali che fondano e consentono di costruire l’intero impianto presupponendo in via sussidiaria l’intervento della Comunità per la parte di sua competenza, andiamo a questo punto a definire le norme speciali che individuano la materia in esame per concludere con il rimando alle parti del decreto legislativo italiano che effettivamente consentano di sviluppare il discorso nell’ottica della completezza e della sinergia di settori e di competenze volute dal legislatore comunitario. Qui si renderà necessario chiudere con una riflessione sulla recente pronuncia della corte di Cassazione che ha ridotto lo spazio di riconoscimento del cosiddetto danno esistenziale per ragionarne nell’ottica della disposizione di legge che parla di ‘danno non patrimoniale’.
La direttiva 2006/54/CE al considerando n. 24 ribadisce che “la Corte di giustizia ha costantemente riconosciuto la legittimità, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, della protezione della condizione biologica della donna durante la gravidanza e la maternità nonché dell’introduzione di misure di protezione della maternità come strumento per garantire una sostanziale parità. La presente direttiva non dovrebbe pertanto pregiudicare né la direttiva 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento né la direttiva 96/34/CE del Consiglio, del 3 giugno 1996, concernente l’accordo quadro sul congedo parentale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES”. Successivamente all’art. 26 prevede che “gli Stati membri incoraggino, in conformità con il diritto, gli accordi collettivi o le prassi nazionali, i datori di lavoro e i responsabili dell’accesso alla formazione professionale a prendere misure efficaci per prevenire tutte le forme di discriminazione sessuale e, in particolare, le molestie e le molestie sessuali nel luogo di lavoro, nell’accesso al lavoro nonché alla formazione e alla promozione professionale come pure nelle condizioni di lavoro” e suggerisce che ciò avvenga anche introducendo “nei rispettivi ordinamenti giuridici le disposizioni necessarie per proteggere i lavoratori, inclusi i rappresentanti dei dipendenti previsti dalle leggi e/o prassi nazionali, dal licenziamento o da altro trattamento sfavorevole da parte del datore di lavoro, quale reazione ad un reclamo all’interno dell’impresa o ad un’azione legale volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento” (art. 24) per arrivare, attraverso il richiamo alla protezione contro i rischi professionali quali l’infortunio sul lavoro e la malattia professionale (art. 7, comma 1, lett. iv)), all’affermazione che costituendo la tutela legale un diritto fondamentale, è opportuno garantire che i lavoratori continuino a goderne anche dopo la fine del rapporto che ha dato origine alla presunta violazione del principio della parità di trattamento. La stessa tutela andrebbe assicurata a ogni dipendente che difenda una persona tutelata ai sensi della direttiva sulle pari opportunità o che testimoni in suo favore (considerando n. 32). Questo ultimo punto riallaccia il discorso alla problematica strettamente connessa alla sicurezza e salute sul luogo di lavoro con riferimento da un lato al ruolo che possono rivestire le rappresentanze sindacali (RSU) e quelle per la sicurezza (RLS), dall’altro alle vertenze che in applicazione di entrambe le disposizioni di legge (direttive 2006/54/CE e 89/391/CEE) si collegano a episodi di mobbing, stress, violazione delle pari opportunità. Entra allora in gioco l’ultimo richiamo normativo qui necessario e precisamente la direttiva 89/391/CEE del Consiglio, del 12 giugno 1989, concernente l’attuazione di misure volte al miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro al cui articolo 5 (1) stabilisce che “il datore di lavoro è obbligato a garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi con il lavoro” dal momento che, come si legge agli artt. 17 e 28 comma 1 del D. lgs. 9 aprile 2008 n. 81, la valutazione del rischio deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo quadro europeo dell’8 ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 26 marzo 2001 n. 151, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi.
Se questi sono i riferimenti normativi e se il D.lgs. n. 198/2006 precisa le connessioni tra l’azione degli organismi incaricati di realizzare e monitorare l’effettivo rispetto e/o ristabilimento della parità di trattamento e gli spazi di intervento delle altre figure che interagiscono nel mondo del lavoro (artt. 37, 38, 42, 43) e se, come si è visto, sono previste forme di risarcimento per danni non patrimoniali, è altrettanto vero che fuori e oltre le ipotesi che configurino fattispecie penali, le cause civili e amministrative non possono escludere né il danno biologico, né quello morale, né quello ‘esistenziale’. La recenti sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione dell’11 novembre 2008 (nn. 26972 – 26973 – 26974 – 26975) si sono soffermate sulla possibilità di valutare e riconoscere il danno determinato da lesioni di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, dando atto della necessità che si tratti di danno afferente diritti costituzionalmente garantiti.
Ora, premesse le norme derivanti dai trattati europei e dalle direttive di settore, sottolineato come non sia di poco conto che vi sia il richiamo alla impossibilità di prevedere il quantum del risarcimento su ipotesi di lesioni di diritti certamente fondamentali (disparità di trattamento dipendenti da discriminazioni costituiscono una diretta e/o indiretta violazione di principi costituzionalmente garantiti) che, nei casi gravi possono sfociare in un conseguente danno alla salute e alle relazioni familiari, sarebbe interessante stabilire su quali basi, ove ovviamene sia riscontrato un danno che non consista nella semplice mancata considerazione ad una domanda, potrebbe essere negato un risarcimento a fronte di un danno che si riveli ‘esistenziale’ perché coinvolge la sfera dell’esistenza della persona alterandone il corretto rapporto professionale e relazionale a causa di una sofferenza determinata da un comportamento che nella migliore delle interpretazioni configurerebbe la colpa grave in capo all’autore per la possibilità di prevederne le conseguenze, ma più spesso il dolo per l’intenzionalità che accompagna dati comportamenti. Va da sé che la stessa Cassazione ha indicato, nella sentenza n. 26972, alcuni criteri interpretativi di non poco conto là dove riconosce la sussistenza di pregiudizi non patrimoniali per i quali ammette la possibilità delle prove testimoniali, documentali e presuntive, formulazione che tuttavia sembra andare nella direzione opposta a quel principio di inversione dell’onere della prova che la direttiva 2006/54/CE ha chiaramente previsto all’art. 19 e che il D.lgs. n. 198/2006 ha recepito all’art. 40.
Paola Balbo
[1] Regolamento (CEE) n. 1365/75 del Consiglio, del 26 maggio 1975, concernente l’istituzione di una Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Regolamento modificato da ultimo dal regolamento (CE) n. 1111/2005.
[2] Regolamento (CE) n. 2062/94 del Consiglio, del 18 luglio 1994, relativo al’istituzione di un’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro. Regolamento modificato da ultimo dal regolamento (CE) n. 1112/2005.
[3] Regolamento (CEE) n. 337/75 del Consiglio, del 10 febbraio 1975, relativo all’istituzione di un Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale. Regolamento modificato da ultimo dal regolamento (CE) n. 2051/2004.
[4] Gli Stati membri, riuniti nell’ambito del Consiglio europeo del dicembre 2003, hanno chiesto alla Commissione di elaborare una proposta di agenzia per i diritti umani tramite l’estensione del mandato dell’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia.
[5] Direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006 riguardante l’attuazione del principio delle apri opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego al considerando n. 33 recita: “La Corte di giustizia ha chiaramente stabilito che per essere efficace, il principio della parità di trattamento comporta che il risarcimento del danno riconosciuto in caso di violazione debba essere adeguato al danno subito. E’ dunque opportuno vietare la fissazione di un massimale a priori per tale risarcimento, fatti salvi i casi in cui il datore di lavoro può dimostrare che l’unico danno subito dall’aspirante a seguito di una discriminazione ai sensi della presente direttiva è costituito dal rifiuto di prendere in considerazione la sua domanda”.
[6] Direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006 riguardante l’attuazione del principio delle apri opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego al considerando n. 35 recita: “ Gli Stati membri dovrebbero prevedere sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive in caso di mancata ottemperanza agli obblighi derivanti dalla presente direttiva”; al considerando n. 36 recita: “ Poiché gli obiettivi della presente direttiva non possono essere realizzati in misura sufficiente dagli Stati membri e possono dunque essere realizzati meglio a livello comunitario, la Comunità può intervenire in base al principio di sussidiarietà sancito dall’articolo 5 del trattato. La presente direttiva si limita a quanto necessario per conseguire tali obiettivi, in ottemperanza al principio di proporzionalità enunciato nello stesso articolo”.
[7] Direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006 riguardante l’attuazione del principio delle apri opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego al considerando n. 19 recita:
“ Ai fini dell’applicazione del principio della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, è essenziale garantire la parità di accesso al lavoro e alla relativa formazione professionale. Pertanto, le eccezioni a tale principio dovrebbero essere limitate ad attività professionali che necessitano l’assunzione di una persona di un determinato sesso data la loro natura o visto il contesto in cui sono svolte, purché l’obiettivo ricercato sia legittimo e compatibile con il principio di proporzionalità”.
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