Il caso origina da un pronunciato giurisdizionale (Sentenza TAR Lazio – Sez. Latina n. 1476 del 10/10/2008) che riguarda un procedimento di gara finalizzato alla formazione di una graduatoria per la successiva assegnazione di tratti di aree demaniali marittime da conferire in concessione d’uso e che ha qualificato illegittimi gli atti di assegnazione del lotto "13 C” per due motivi, il primo dei quali riguarda il censurato operato della Commissione per aver stabilito criteri di valutazione ex post, ed il secondo relativo proprio alla composizione della Commissione che, secondo il giudice, ha operato in violazione della previsione regolamentare dell’Ente che stabiliva che i componenti dovessero essere interni all’Amministrazione, motivi che investono anche gli atti di gara di tutti i lotti oggetto dello stesso procedimento di assegnazione in concessione.
Precisa il giudice di prime cure che benché il codice dei contratti non sia direttamente applicabile alla procedura in contestazione, che non attiene all’aggiudicazione di un contratto avente per oggetto l’acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere ma alla selezione del soggetto cui assentire la concessione di un bene demaniale, si deve comunque ritenere che il modus operandi della commissione, e in particolare la sua decisione di introdurre criteri per l’attribuzione dei punteggi a buste ormai aperte, abbia irrimediabilmente compromesso i risultati della gara, in quanto costituisce principio generale delle procedure a evidenza pubblica che la definizione degli elementi di valutazione delle offerte, quale che ne sia la natura (sub-criteri, sub-pesi, sub-punteggi, criteri di valutazione per l’attribuzione di punteggi tra il minimo e il massimo), sia preclusa allorchè le buste contenenti le offerte siano state aperte e pertanto ne sia divenuto noto o conoscibile il contenuto. Si tratta di un principio che tutela esigenze elementari e inderogabili di trasparenza e di parità di trattamento dei concorrenti e la cui violazione determina l’illegittimità della gara, indipendentemente dalla dimostrazione – che peraltro risulterebbe molto difficile, se non impossibile – che essa ne abbia in qualche modo condizionato l’esito (Consiglio di Stato, sez. VI, 27 febbraio 2008, n. 726).
Con il secondo motivo di ricorso si è dedutta, invece, l’illegittimità della composizione della commissione di gara per violazione dell’articolo 84 del codice degli appalti; in particolare viene denunciata la violazione delle disposizioni secondo cui “i commissari diversi dal presidente sono selezionati tra i funzionari della stazione appaltante. In caso di accertata carenza in organico di adeguate professionalità, nonché negli altri casi previsti dal regolamento in cui ricorrono esigenze oggettive e comprovate, i commissari diversi dal presidente sono scelti tra funzionari di amministrazioni aggiudicatrici di cui all’art. 3, comma 25, ovvero con un criterio di rotazione tra gli appartenenti alle seguenti categorie: a) professionisti, con almeno dieci anni di iscrizione nei rispettivi albi professionali, nell’ambito di un elenco, formato sulla base di rose di candidati fornite dagli ordini professionali; b) professori universitari di ruolo, nell’ambito di un elenco, formato sulla base di rose di candidati fornite dalle facoltà di appartenenza”.
Nella fattispecie i membri della commissione diversi dal Presidente sono stati scelti in persona di due professionisti (un dottore in economia e commercio e un architetto) legati all’amministrazione da un semplice rapporto di collaborazione professionale di natura autonoma. In ogni caso nel ricorso introduttivo si denuncia la violazione anche dell’articolo 27 del regolamento per l’attività contrattuale adottato con delibera C.C. n. 60 del 27 maggio 2004 secondo il quale la commissione, nominata dal competente dirigente, che la presiede, è formata da “funzionari di livello adeguato”.
In merito, non vi è dubbio che, se ai soggetti che non hanno proposto impugnazione non possono essere estesi gli effetti propri del giudicato, essi tuttavia sono soggetti terzi di un provvedimento (l’aggiudicazione) da ritenersi illegittimo proprio alla luce della surrichiamata sentenza, che ha riguardato sì un solo caso, ma trasversale e contestuale a tutti i lotti oggetto dell’unica procedura di gara.
Una ulteriore considerazione merita il secondo aspetto della questione.
Precisato che, per effetto della surrichiamata sentenza, l’aggiudicazione definitiva disposta con determina dirigenziale dell’aprile 2008, e relativi atti a questa preordinati, sono da considerarsi illegittimi per le ragioni sopra precisate, si pone il problema dei limiti entro i quali sia esperibilile il rimedio di cui all’art. 21-nonies della legge 241/90, come introdotto dalla legge 15/05, che al primo comma così stabilisce :“Annullamento d’ufficio – 1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.”
Orbene, rispetto ad un simile pronunciato, la Pubblica Amministrazione si trova costretta a riconsiderare i propri comportamenti e, precisamente, a valutare se esercitare il potere di annullamento in via autotutela allo scopo di eliminare i vizi degli atti posti in essere. Ma entro quali limiti e quali termini temporali può legittimamente operare l’Amministrazione?
Nel merito, il legislatore in un solo caso ha stabilito il termine entro il quale si possa legittimamente provvedere all’annullamento d’ufficio in via di autotutela, ed è quello previsto dalla formulazione dell’art 1 comma 136 della legge 30/12/2004 n.311 il quale stabilisce che “Al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, può sempre essere disposto l’annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l’esecuzione degli stessi sia ancora in corso. L’annullamento di cui al primo periodo di provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall’eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall’acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante”. I
Oltre i limiti sopra precisati , la giurisprudenza in materia è assolutamente granitica nel precisare che l’interesse pubblico all’eliminazione dell’atto illegittimo non può identificarsi, sic et simpliciter, nell’interesse alla reintegrazione dell’ordine giuridico violato, ma deve essere specificato e dimensionato in relazione ad esigenze concrete ed attuali (si rinvia, fra le tante pronunce sul punto, a Consiglio di Stato, sez. VI, sent. n. 591 del 1983, a TAR Lombardia, Brescia, sent. n. 399 del 2003, a Consiglio di Stato, sez. IV, sent. n. 3909 del 2005 e, da ultimo, a TAR Campania, Napoli, sez. IV, sent. n. 2026 del 2006) ed, inoltre, che non è consentito ricorrere, in sede di motivazione, a clausole di stile o formule sterotipe come, ad esempio, la necessità di garantire il corretto sviluppo edilizio del territorio (si veda sul punto, per la sua rilevanza, la recente sent. n. 671 del 2006 resa dalla sez. VI del Consiglio di Stato la cui massima, testualmente, recita: “Il provvedimento di autotutela non si sottrae, in parte “de qua”, alla censura di insufficienza ed inadeguatezza della motivazione, ove si consideri che esso interviene a salvaguardia dell’interesse di rilievo pubblico al corretto sviluppo urbanistico ed edilizio del territorio, la cui compromissione, prima di pervenire alla statuizione di annullamento d’ufficio, va valutata sul piano dell’effettività, in raffronto alle posizioni soggettive del privato beneficiario del provvedimento autorizzatorio”).
Quanto, invece, al periodo temporale trascorso, il quale non appare giustificare di per sé l’esercizio del potere di autoannullamento, è d’uopo precisare che l’ articolo 21 nonies della legge 241/90 , introdotto dalla legge 15/2005,. oltre a configurare come meramente eventuale, e dunque discrezionale, l’effettivo esercizio del potere di annullamento di ufficio, dispone che lo stesso debba essere dispiegato “entro un termine ragionevole”. Sulla base di tale formulazione legislativa, ad onta della laconicità della stessa, parrebbe potersi dedurre che il decorso di un lasso temporale sufficientemente ampio dall’adozione dell’atto ampliativo impedisca, de facto, il suo successivo annullamento, qualora ne venga accertata l’originaria illegittimità, e ciò anche in presenza di un interesse pubblico specifico e concreto alla rimozione dall’ordinamento dell’atto viziato (spunti di ulteriore riflessione sul punto possono essere sollecitati dalla lettura della sentenza n. 426 del 21.02.2006 resa dal TAR Sicilia, Palermo, sez. III).
Per altro verso, i giudici, laddove ritengono legittimamente esperibile il rimedio dell’autoannullamento, sono particolarmente rigorosi circa l’onere di motivazione, allorché sia trascorso lungo tempo dall’emanazione del provvedimento (Cons. St., sez. V, 13.02.1998, n. 158 – Cons. St., sez. V, 19.02.2003, n. 899.)
Pertanto, nel caso di specie, la scelta di provvedere o meno all’annullamento della determina dirigenziale di che trattasi non può prescindere sia dal tenore letterale della disposizione normativa che conferisce il potere di provvedere, che dall’orientamento della giurisprudenza in materia.
In proposito, non vi è dubbio che il breve lasso temporale che separa l’emanazione degli atti da qualificarsi illegittimi ad oggi è tale che rende oltremodo ragionevole l’esercizio del potere di annullamento non soltanto per l’attualità del contesto temporale in cui si inserisce il potere di autotutela dello stesso dirigente che ha emesso l’atto illegittimo, e che di per sé rende concreto ed attuale l’interesse pubblico al ristabilimento dell’ordine violato, ma anche con riferimento alla posizione di affidamento dei controinteressati. ( Cons. St., sez. VI, 27.7.1994, n. 634; Cons. St, sez. IV, 02.07.2002, n. n. 6113).
Invero, nel caso di specie, per quanto attiene all’aspetto degli interessi coinvolti nel procedimento di annullamento d’ufficio e, cioè, dei suoi destinatari ed eventuali controinteressati, non va sottovalutato che proprio “il modus operandi” della Commissione di gara, consistente nell’introdurre elementi di valutazione e di attribuzione del punteggi a buste aperte, ha indubbiamente prodotto una violazione dei principi di trasparenza e di par condicio tra gli stessi partecipanti alla gara che di fatto non sono stati tutelati, senza poi trascurare la circostanza per cui si è in assenza di uno specifico provvedimento di assegnazione, ampliativo della sfera giuridica dei destinatari, laddove, invece, ci si trova in presenza di un mero provvedimento di approvazione di gara, che chiudendo il procedimento censurato, costituisce il mero presupposto dell’emanando provvedimento finale. Sicchè nessuna posizione di tutela può considerarsi consolidata in capo ai soggetti coinvolti, destinatari di un provvedimento (approvazione graduatoria) avente valore meramente endoprocedimentale, ancorché autonomamente impugnabile.
Pertanto, l’annullamento degli atti di gara, operato allo scopo di ripristinare l’ordine violato nell’immediatezza della sequenza temporale (tempo ragionevole) che ha caratterizzato l’emanazione degli atti censurabili ( determina dirigenziale del 9/4/2008 – sentenza TAR Latina n.1476 del 10/10/2008 dep. Il 3/11/2008), si caratterizzerebbe proprio, in ragione delle valutazioni sopra riferite, come legittimo esercizio del potere di autotutela della P.A., teso al ripristino dell’ordine violato in un contesto procedimentale ancora attuale, che postula l’esigenza di tutelare l’interesse al corretto esercizio dei poteri pubblici, in uno all’altro aspetto concomitante al motivato esercizio del potere di autotutela, del quale ne costituisce ulteriore presupposto, che si riferisce alla valutazione dell’interesse pubblico che induce l’Amministrazione a determinarsi per un eventuale diverso utilizzo del bene demaniale oggetto della procedura annullata.
Due, infatti, si profilano le ipotesi percorribili.
Nell’un caso, l’amministrazione potrebbe impartire direttive in ordine all’espletamento di una nuova procedura di evidenza pubblica intesa alla corretta assegnazione di tutti o parte dei lotti originariamente interessati dal procedimento di che trattasi e, comunque, già oggetto di una destinazione d’uso.
Nell’altro caso, l’Amministrazione, (Consiglio comunale) in considerazione di una rinnovata valutazione dell’interesse pubblico, potrebbe determinarsi in ordine ad una nuova destinazione dell’uso dei beni demaniali in questione diverso dal regime della concessione a privati, in occasione del doveroso adempimento prescritto dall’art.58 del D.L. n.112/08, convertito nella legge n.133/08, che stabilisce, in occasione dell’approvazione del bilancio di previsione dell’esercizio 2009, l’allegazione di un piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari.
Avv. Pasquale Russo
Segretario Generale del Comune di Formia (LT)
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