Con la pronuncia in commento il Consiglio di Stato, nel ribadire il carattere sanzionatorio della c.d. penalità di mora – introdotta, nell’ambito del giudizio di ottemperanza, dall’art. 114, comma 4, lettera e), del codice del processo amministrativo -, ne estende la portata applicativa anche alle sentenze di condanna pecuniarie della Pubblica Amministrazione.
L’istituto in parola (parzialmente ispirato al modello francese dell’Astreinte, con funzione indennitaria in favore del creditore, e della Geldstrafe, rinvenibile nell’ordinamento tedesco, con finalità sanzionatoria a beneficio del fisco), rappresenta una misura coercitiva indiretta, ovvero uno strumento di coartazione della volontà del debitore, che si traduce nella minaccia di una sanzione pecuniaria in caso di mancata, non esatta o intempestiva esecuzione dell’ obbligazione sancita, a suo carico, dall’ordine del giudice.
Tale misura compulsiva, già regolata dall’art. 614 bis del codice di procedura civile (ed ivi limitata alle sole sentenze avente per oggetto obblighi di fare infungibile o di non fare, in ossequio al noto principio del nemo praecise ad factum cogi potest), presenta una portata applicativa più ampia rispetto all’omologo istituto di matrice processual-civilistica, non rinvenendosi, nella stessa, il predetto limite della infungibilità dell’obbligazione.
Il Consesso Amministrativo – riproponendo, in gran parte, le motivazioni già precedentemente espresse nella sentenza n. 6688/2011 – individua la ratio sottesa alla vis espansiva del rimedio in discorso (da cui il su citato approdo applicativo) nella stessa natura del giudizio di ottemperanza, caratterizzato dal potere sostitutivo del giudice (esercitato, nell’ambito di una giurisdizione estesa al merito, in via diretta o mediata, con la nomina di un commissario ad acta), e, quindi, dalla conseguente indifferenza alla non surrogabilità degli atti necessari ad assicurare l’esecuzione in re del precetto giudiziario.
Quanto, poi, al carattere sanzionatorio dello strumento in argomento, lo stesso è da ricercare (così come esplicitato nella primigenia sentenza del 2011) nella formulazione dell’art. 614 bis, comma 2, c.p.c. (il cui rimando si impone in assenza di disposizioni sul punto da parte del codice del processo amministrativo) che, nel declinare i criteri guida per la quantificazione della sanzione, utilizza (oltre alla misura del danno quantificato e prevedibile, di per sé sola insufficiente a collocare il rimedio in oggetto nell’alveo risarcitorio) parametri valutativi estranei alla logica riparatoria, quali il valore della controversia, la natura della prestazione e ogni altra circostanza utile.
Trattasi, in definitiva, di una pena e non di un risarcimento. Ciò che si vuole stigmatizzare è la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e, nel contempo, stimolare il debitore all’adempimento.
Nel caso di specie il Collegio adito, nel ritenere sussistenti tutti i presupposti stabiliti dal citato articolo 114, comma 4, lett.e) del c.p.a. (id est : richiesta di parte; l’insussistenza di profili di manifesta iniquità e la non ricorrenza di altre ragioni ostative), ha condannato l’amministrazione comunale resistente – inottemperante agli obblighi risarcitori imposti dalla precedente pronuncia resa tra le parti in causa – al pagamento di una somma pari ad € 50,00 pro die da corrispondere per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione della sentenza.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento