Con l’espressione “danno da morte” o “danno tanatologico” si fa riferimento ai danni che cagionano la morte di un soggetto a causa dell’altrui fatto illecito, quando il decesso sia stretta conseguenza delle lesioni subite.
Si distingue tra danni risarcibili iure hereditatis e quelli iure proprio agli eredi.
I primi sono quelli che riguardano la vittima principale e possono trasmettersi in favore degli eredi iure successionis; gli altri sono i danni riflessi, noti anche come indiretti o da rimbalzo, incidenti sulle persone “vicine” alla vittima primaria dell’illecito, cosiddette “vittime secondarie”, che hanno diritto ad un risarcimento non in quanto eredi ma poiché danneggiati in proprio.
Proprio in riferimento ai danni iure successionis si sono posti problemi interpretativi.
A favore della tesi negativa emergono due rilievi.
In primis la natura giuridica della responsabilità civile è essenzialmente riparatoria, ciò vuol dire che l‘obiettivo della responsabilità è riparare il danno, ne segue che laddove il danno non è più riparabile, allora la responsabilità si estingue, in effetti nel caso di morte del danneggiato il danno non è più riparabile poiché è avvenuto il decesso. Estinguendosi dunque la responsabilità, automaticamente la pretesa risarcitoria non può essere trasmessa agli eredi. Inoltre, l’azione risarcitoria sarebbe un diritto della persona e come tale non trasmissibile agli eredi. Diversamente la giurisprudenza più recente afferma che lo schema iure successionis può operare purchè la vittima sia lucida, ribadito anche dalla Cassazione civile 14259/2011.
Tale tesi favorevole si basa sia sul fatto che la responsabilità civile è tendenzialmente riparatoria, ma quando non c’è più nulla da riparare diviene sanzionatoria, spiegando così il legame strettissimo intercorrente tra l’art. 2059 c.c. e l’art. 185 c.p., sia sulla considerazione che ciò che si trasferisce nell’apprezzabile lasso di tempo non è il diritto della persona, ma un credito risarcitorio, ovvero la pretesa di diritto ad avere una somma di denaro e questa ha una base oggettiva e come tale trasferibile sempre mortis causa.
Ciò che davvero conta è l’apprezzabilità del danno, cioè che la vittima sia in grado di valutare quello che concretamente è successo e soprattutto le conseguenze pregiudizievoli.
Con riferimento ai danni risarcibili iure hereditatis, la giurisprudenza sostiene che il danno biologico ricorre solo se tra la data dell’evento dannoso e quella del decesso sia trascorso un lasso di tempo sufficiente a permettere un consolidamento di tale danno, in tal caso il danneggiato ha diritto al risarcimento del danno biologico e si trasmette in favore degli eredi.
Le pronunce giurisprudenziali del 2009 precisano che tale danno va liquidato in base al calcolo dell’inabilità temporanea, non con il criterio tabellare e che per “apprezzabile lasso di tempo” si intende una durata pari a 24 ore o anche 3 giorni (alcune pronunce contrastanti dello stesso anno sostengono, invece, che 3 giorni non siano sufficienti).
Nell’ipotesi di decesso dopo poco tempo dalle lesioni si verifica un danno morale o danno tanatologico, non biologico, trasmissibile agli eredi a condizione che la vittima abbia potuto percepire le sue condizioni di salute, rendendosi conto della propria imminente morte.
Il danno biologico iure proprio per la perdita di un parente, invece, ricorre in caso di alterazione psicofisica dell’erede e vi è un reale danno alla salute.
Si tratta di un danno morale soggettivo che può degenerare in un trauma fisico o psichico permanente, il cui risarcimento va commisurato alla perdita di qualità personali e non semplicemente al pretium doloris in senso stretto (Cass. Civ. 116/2001).
L’orientamento prevalente sostiene che sia necessario un accertamento medico-legale sul soggetto richiedente onde provare l’esistenza del disturbo psichico e del nesso causale con l’evento della morte del parente, non basandosi su semplici presunzioni; il giudice può richiedere anche una consulenza medico-legale per accertare tale patologia.
Le SS.UU. del 2008 nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 e del 2009 n. 557 sostengono che non è possibile una duplice liquidazione del danno morale soggettivo e del danno parentale (come sostenuto dalle precedenti “sentenze gemelle” del maggio 2003) poiché il dolore per la perdita di un congiunto deceduto in conseguenza di un fatto illecito costituente reato, sia nel momento in cui si percepisce, sia nel corso della vita, rappresenta un pregiudizio suscettibile di un unico omnicomprensivo risarcimento.
La perdita di una persona cara non va considerata come danno autonomo, ma rientra nella categoria del danno non patrimoniale.
Le SS.UU. precisano che il danno biologico ed il danno morale sono due categorie di danno del tutto autonome, infatti, il primo tutela il diritto alla salute, il secondo l’integrità morale della persona protetta dall’art. 2 Cost..
Il danno va risarcito, secondo le sentenze del 2008, in maniera equitativa, personalizzata, tenendo conto delle condizioni soggettive della vittima e della gravità del fatto, non più secondo i parametri indicati in tabelle per la liquidazione del danno biologico.
La Cassazione SS. UU. con sentenza n. 26972/2008 ha superato la suddivisione del danno non patrimoniale nelle diverse categorie del danno morale, esistenziale e biologico, ed ha, altresì, precisato che anche il risarcimento del danno non patrimoniale deve seguire lo schema, articolato in danno emergente e lucro cessante, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1223 e 2059 c.c..
Per quanto riguarda i danni patrimoniali iure proprio vanno risarciti gli eredi, sia nella specie di danno emergente, riguardante le spese attinenti il decesso del parente, ad esempio le spese funerarie, tale danno può essere risarcito se debitamente provato dagli eredi, ciascuno per la quota di propria spettanza; sia nella specie di danno cosiddetto da lucro cessante che fa riferimento o alla diminuzione di contributi o sovvenzioni, oppure alla perdita di utilità che, per legge o per solidarietà familiare, sarebbero state conferite dal soggetto scomparso (Cass. 23/1998).
La sentenza 1361/2013 ha riaffermato la natura composita del danno non patrimoniale, costituito da molteplici voci, tra le quali il danno biologico, morale ed esistenziale; ha ribadito che tale danno si risarcisce in via equitativa; riconosce il danno da perdita della vita quale species del danno non patrimoniale risarcibile ex se, diritto assoluto ed inviolabile dell’individuo. Tale danno è riconosciuto alla vittima a prescindere dai requisiti dell’apprezzabile lasso di tempo intercorrente tra l’evento lesivo e la morte, nonchè dell’intensità della sofferenza della vittima che percepisce la sua prossima morte. Di conseguenza, il diritto al risarcimento per la perdita della vita si acquisisce subito, nel momento in cui si verifica l’illecito, ed è trasmissibile agli eredi.
La sentenza della Cassazione Civile 15491/2014, è pervenuta, invece, ad una conclusione diametralmente opposta, infatti sostiene che il danno biologico si configura solo se intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse, e che il diritto della vittima a conseguire il risarcimento di tale danno è trasmissibile agli eredi iure hereditatis.
La Cassazione con sentenza 759/2014 e con la recentissima 12722/2015 afferma che rientra nella categoria di danno non patrimoniale il cosiddetto danno catastrofale, ossia la sofferenza patita dal danneggiato, a causa delle lesioni riportate in seguito all’illecito nel rendersi conto della imminente propria morte nel lasso di tempo compreso tra l’evento illecito ed il decesso. Presupposto del risarcimento del danno catastrofale è, dunque, la lucidità della vittima delle sue gravi condizioni di salute dal momento delle lesioni fino alla morte. Tale danno, qualificabile come danno morale, può essere legittimamente trasmesso agli eredi iure hereditatis.
Considerando la tesi favorevole in tema di danni iure successionis, supportata da recenti pronunce giurisprudenziali, è giusto chiedersi se nel caso in cui la vittima è in coma, sia comunque idonea a sentire il danno.
Parte della giurisprudenza ritiene che, a rigore, laddove la vittima cada in coma non sia maturabile nella sfera giuridica del de cuius un autonomo diritto al risarcimento del danno non patrimoniale perché il danno alla persona esiste nella misura in cui la vittima è capace di percepire il dolore stesso, è danno alla persona infatti proprio perché collegato ad una capacità percettiva.
Inoltre, le Sezioni Unite di San Martino laddove hanno affermato che nell’ambito del danno biologico e del danno tanatologico è necessario che la vittima sia vigile, sembrano escludere che il danno possa esistere laddove la vittima non è vigile.
Alla luce pertanto di tali rilievi, parte della giurisprudenza ritiene che lo stato comatoso impedisce ex se il risarcimento del danno non patrimoniale con la conseguenza pratica che i sopravvissuti potranno agire solo iure proprio ma non anche iure successioinis.
Secondo la tesi prevalente, invece, matura un autonomo diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, ma bisogna vedere caso per caso se è un danno a natura oggettiva o soggettiva.
Il danno biologico o danno alla salute si basa su una componente biologica, fisica e come tale è oggettivo, non richiede la capacità percettiva della vittima stessa, con la conseguenza che il soggetto in coma potrà pretendere il risarcimento del danno collegato al pregiudizio della salute fisica, dunque in caso di morte la pretesa risarcitoria ben potrà essere trasmessa agli eredi.
I problemi si pongono soprattutto per quanto attiene al danno da reato ed al danno psichico perché sembrano avere una componente soggettiva.
Il danno da reato se si qualifica come turbamento psicologico allora non matura nella sfera giuridica del soggetto che versa in stato comatoso.
Se diversamente si qualifica tale danno, riprendendo essenzialmente la Cassazione Civile Sezione III 13530/2009, come lesione della dignità umana di cui all’art. 2 Cost., collegando così il danno da reato non alla salute stessa che richiederebbe un turbamento psicologico, ma diversamente alla dignità umana, ha una componente oggettiva perché la lesione della dignità non richiede la capacità percettiva della stessa, ma è un danno in sé.
Stando così le cose, allora, in questo caso, tale pretesa risarcitoria ben potrebbe maturare nella sfera giuridica del de cuius e poi trasferirsi iure successionis.
Per quanto riguarda il danno psichico o alla salute psichica, secondo alcuni non è risarcibile con riferimento al soggetto che versa in stato comatoso perché è un danno di natura essenzialmente soggettiva che richiede la permanenza in vita vigile del danneggiato, come ad esempio la depressione che non esiste in rerum natura, non esiste sul piano oggettivo, ma richiede nel dettaglio un accertamento soggettivo della capacità percettiva della vittima, normalmente con una perizia dello psichiatra.
Altri, invece, ritengono che il coma stesso è la prova evidente della lesione massima del danno psichico.
Alla luce pertanto di tali rilievi, una persona, anche se in coma, ben potrebbe aver maturato un autonomo diritto al risarcimento del danno non patrimoniale trasmissibile poi agli eredi iure sucessionis, dunque il danno non patrimoniale da lesione del diritto alla salubrità psichica protetto comunque dall’art. 32 Cost. e come lesione della dignità umana ex art. 2 Cost, nonché del danno biologico.
Pertanto gli eredi potranno vantare nei confronti di colui che ha causato l’evento dannoso, provando la colpa di quest’ultimo, sia un’azione iure proprio con cui far valere la loro singola posizione di danneggiati per i danni riflessi, quale il danno da lesione del diritto alla famiglia ex art. 2059 c.c. letto in combinato disposto con l’art. 29 Cost., nonché il danno da reato ed il danno biologico psichico se esistente, sia un’azione iure successionis con cui far valere il danno non patrimoniale subito dalla vittima che poi si è trasferito agli eredi, instaurando il giudizio dinanzi all’Autorità Giudiziaria competente.
Il diritto degli eredi al risarcimento dei danni non patrimoniali, ai sensi dell’art. 2947 c.c., si prescrive in 5 anni dal giorno in cui si è verificato il fatto illecito o nel diverso termine previsto dal 2° e dal 3° comma di tale articolo che disciplinano determinati casi.
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