Il caso riguarda il processo celebrato nei confronti di un minorenne accusato di favoreggiamento alla clandestinità, cui, già in fase di udienza preliminare era stata negata la possibilità di ricorrere alla messa alla prova di cui all’art. 28 del DPR 448/1988.
La Corte d’Appello, rigettando l’appello proposto contro l’Ordinanza reiettiva già pronunciata in primo grado e condannando l’imputato nel merito, era pervenuta a tale conclusione in considerazione sia del prospettato stato di necessità addotto dall’imputato a sua discolpa; sia della richiesta di assoluzione che il difensore, a conclusione del processo, aveva formulato nell’interesse del proprio assistito: tutti elementi che secondo la Corte Territoriale sarebbero incompatibili con la richiesta di messa alla prova.
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L’istituto della sospensione del processo con relativa messa alla prova può essere considerato, senza alcun dubbio, la novità più rilevante e originale del nostro sistema penale minorile.
Si tratta di un Istituto con il quale lo Stato rinuncia, in tutto o in parte, alla sua pretesa punitiva in cambio della dimostrazione, da parte del reo, di aver compreso il disvalore della propria condotta deviante e di impegnarsi, con azioni concrete, a non commettere in futuro alcun tipo di reato.
La caratteristica qualificante di tale istituto, all’interno di un processo a carico di un imputato minorenne, risiede proprio nella sua collocazione: ricorrere alla messa alla prova, comporta, che la decisione sulla responsabilità penale e sulla conseguente (ed eventuale) irrogazione della pena, venga rimandata all’esito della prova.
Alla commissione di un gesto criminale, da parte di un minore, l’ordinamento, di fronte al reale e concreto impegno di cambiamento da parte dell’autore, rinuncia non solo a eseguire la pena ma, addirittura, a proseguire il processo, rimandando la pronuncia di una eventuale condanna alla reclusione.
L’istituto della messa alla prova diventa uno strumento di autostima e di responsabilizzazione per il minore autore di reato e, in linea con l’intera impostazione sottesa al processo minorile, si impegna a spostare l’attenzione dal fatto, alla personalità dell’imputato.
Il principio che è alla base, risponde alla consapevolezza che il recupero del giovane risulta più idoneo, alle esigenze di una personalità in formazione, se condotto nell’ambiente di vita quotidiana piuttosto che all’interno di un carcere che, come è noto, è solo in grado di impoverire e di isolare.
La Cassazione, accogliendo il ricorso, fondato quasi esclusivamente sull’illegittima reiezione della richiesta di messa alla prova – che rammentiamo non è altrimenti impugnabile se non la sentenza definitiva – precisa – non senza qualche richiamo a sentenza SS.UU. del 2016 – che la confessione può certo rappresentare un elemento utile per arrivare a un giudizio favorevole sull’evoluzione della personalità dell’imputato verso un pieno reinserimento sociale; tuttavia non ne costituisce un presupposto necessario per deliberare l’accesso alla messa in prova, potendo tale prognosi favorevole essere formulata anche in mancanza dell’espressa ammissione dell’addebito, sempre che la condotta dell’indagato o imputato “non trasmodi nella corriva negazione delle evidenza fattuali certe e, sottraendosi alla leale collaborazione nel processo, finisca per determinare la contestazione da parte sua della stessa funzione della messa alla prova, che nell’alveo di quel processo, gli viene offerta come opportunità di reinserimento sociale, impregiudicata la verifica conclusiva dell’ipotesi accusatoria“.
Maggior peso deve invece avere un’attenta considerazione della condotta per valutare se il fatto contestato possa essere considerato un episodio del tutto occasionale o se, invece, costituisce il sintomo di un sistema di vita e, quindi, per determinare se sussista la concreta possibilità dell’evoluzione della personalità del minore verso modelli socialmente adeguati.
Le stesse Sezioni unite (seppur chiamate a formulare il principio di diritto circa l’immediata impugnabilità o meno dell’Ordinanza reiettiva della richiesta sulla messa alla prova), con la sentenza n. 33216, sottolinearono come “il giudice nella concessione della messa in prova anticipa una sorta di cripto-processo sul fatto, sull’autore e sull’efficacia del beneficio, con il conseguente spostamento in sede di cognizione degli aspetti relativi al profilo trattamentale e per alcuni profili esecutivo, sino alla pronuncia in sede di cognizione, all’esito della positiva conclusione della esecuzione della messa alla prova, della dichiarativa dell’estinzione del reato in caso di esito positivo”.
La Corte di Cassazione dunque, con la sentenza in commento, ha sottolineato come i criteri che il Giudice, chiamato a valutare la possibilità di sospendere il processo e inserire l’imputato in un percorso di messa alla prova, debba valutare primariamente, oltre alla capacità di intendere e di volere del reo, sono la sua effettiva inclinazione – attraverso un positivo giudizio prognostico – a collaborare con il sistema penale, ciò che può essere riscontrato nella non negazione delle circostanze fattuali; il fatto che l’imputato non si ponga come “vittima incompresa”; esclusa invece la necessità che sussista una confessione che, al contrario, laddove la messa alla prova avesse esito negativo e il processo per l’accertamento della penale responsabilità dell’imputato riprendesse, si porrebbe in contrasto con le regole del giusto processo e con le tecniche defensionali.
In conclusione e in applicazione di tali principi, la sentenza della Corte d’Appello è stata annullata e rinviata la decisione sul punto del ricorso alla messa alla prova, ad altra sezione dello stesso Giudice d’appello.
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