1) “Tutto sarebbe perduto se un’unica persona o un unico corpo di notabili, di nobili o di popolo esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le risoluzioni pubbliche e quello di punire i delitti o le controversie dei privati” (Montesquieu, Lo spirito delle leggi);
2) Il testo vigente dell’art. 96 della Costituzione recita: “Il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei Deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale”;
3) “Il Collegio” (il c.d. Tribunale dei Ministri), “effettuate le indagini e le valutazioni del caso, può disporre l’archiviazione, ovvero rimettere, per il tramite della Procura della Repubblica, gli atti al Presidente della Camera competente ai sensi dell’art. 5 per il prosieguo” (art. 8, comma 1, l. cost. n. 1 del 1989).
“L’assemblea si riunisce entro sessanta giorni dalla data in cui gli atti sono pervenuti al Presidente della Camera competente e può, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, negare l’autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo” (art. 9, comma 3, della l. cost. n. 1 del 1989).
4) Se è vero che la qualificazione del reato rientra nella competenza della magistratura, “questa Corte deve però precisare che tale asserzione non equivale a privare il Parlamento dello spazio di apprezzamento, anche in ordine alla natura del reato contestato al Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero ad un ministro, che l’art. 96 Cost. gli riserva …” (Corte Costituzionale, sentenze “gemelle” n. 87 e n. 88 del 2012): spazio questo cui si accede attraverso lo strumento del conflitto di attribuzione da attivarsi dal Parlamento innanzi alla stessa Corte.
5) L’affermare la sussistenza di tale potestà costituisce approdo di tutto rilievo in quanto il suo esercizio si colloca – sotto i profili sostanziali e quindi, a fortiori, procedimentali – a monte della verifica della sussistenza o meno dell’esimente (l’aver agito il Ministro a tutela del preminente interesse pubblico), sulla quale la Camera chiamata a decidere sulla richiesta di autorizzazione a procedere potrebbe non doversi più pronunciare, ove avesse avuto previamente a sollevare ed a veder risolto in suo favore il conflitto di attribuzione innanzi alla Corte Costituzionale.
Milady e il cardinale Richelieu (quaestiones)
L’art. 96 della Costituzione recita: “Il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei Deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale ”.
Tale testo è quello vigente a seguito dell’introduzione nell’ordinamento della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 che:
– ebbe così a novellare l’art. 96 Cost., che fino ad allora aveva recitato: “Il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri sono posti in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni“,
– ed ebbe, in conseguenza, a sopprimere dall’art. 134 Cost., a mente del quale la Corte Costituzionale giudica(va) sulle accuse contro il Presidente della Repubblica ed i Ministri, l’inciso “ed i Ministri”, così lasciando devoluto al giudizio della Corte solo le “accuse promosse contro il Presidente della Repubblica” e non più anche quelle contro i Ministri, affidate alla giurisdizione ordinaria dal novellato art. 96.
La conclamata ratio della disposizione ad oggi vigente è quella di garantire il pieno rispetto dei principi della divisione dei poteri, di legalità (art. 25 Cost.) e di eguaglianza (art. 3 Cost.): risultati cui si giungerebbe (sarebbe giunti) fra l’altro attribuendo, come avvenuto con la novella, la giurisdizione per i reati ministeriali al giudice ordinario.
Il percorso per pervenire alla modifica dell’art. 96 Cost. è stato lungo ed accidentato e si è imposto per superare gli aspetti di specialità che connotavano i procedimenti a carico dei Ministri percepiti dal corpo elettorale come un privilegio, da risolvere attraverso la loro equiparazione agli altri cittadini e la sottoposizione delle loro condotte ad un controllo effettivo.
Ad esser, dalla gente, contestata era (stata) sia l’attività della “Commissione bicamerale inquirente”, l’organismo parlamentare fin lì deputato a valutare la notitia criminis ed accusata di esercitare tale attribuzione con criteri politici più che di diritto, sia, nei casi in cui la commissione aveva ravvisato gli estremi per la messa in stato di accusa, quella dello stesso intero Parlamento, a sua volta accusato di “salvare” i ministri, sottraendoli alla giustizia.
Non vi è spazio in questa sede per ripercorrere le vicende fattuali e le posizioni di dottrina e giurisprudenza, anche costituzionale, che segnarono il percorso della riforma costituzionale.
Va solo ricordato che la riforma divenne giuridicamente obbligata a seguito del referendum del novembre del 1987 che vide la netta affermazione dei “ sì ” all’abrogazione della Commissione parlamentare inquirente, con quanto ne aveva a conseguire, e va ancora ricordato che, per le medesime ragioni (uso improprio del sistema di guarentigie/immunità), ad analoghi interventi di ingegneria costituzionale si pose mano in appresso (a partire dalla l. cost. n. 3 del 1993) per riformare l’art. 68 Cost., ovvero il sistema di tutele già previsto in favore dei parlamentari.
In definitiva, il coacervo di riforme spostò l’asse dell’equilibrio interno alla “giustizia politica” – tecnicamente da intendersi come “istituto previsto per particolarissime ipotesi di controversie giuridiche che, alla fine, tali restano fondamentalmente, anche se, dato il rilievo politico che presentano, determinano un diverso atteggiarsi su diversi punti degli strumenti predisposti per risolverle” (così Gustavo Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, edizione 1983) – facendo pendere il pendolo a favore della sfera della giustizia, intesa come il regno della serenità e della imparzialità in contrapposizione alla sfera politica, dominata dalle passioni e dalla partigianeria.
Non è revocabile in dubbio che il “furore” popolare fosse giustificato dal concreto, distorto, utilizzo fattosi degli strumenti di guarentigie, ma altrettanto indubbio è il dato che una linea di equilibrio va tracciata a difesa dei compositi valori che fondano e presiedono ogni democrazia; linea di equilibrio che il Costituente aveva rivenuto con la sottrazione dei reati ministeriali alla giurisdizione ordinaria, affidandoli al giudizio della Corte Costituzionale “… e ciò allo scopo di garantire d’altro lato la indipendenza del potere politico contro ogni indebita ingerenza suscettibile di alterare la reciproca parità e la necessaria distinzione tra i poteri dello Stato” (Corte Costituzionale n. 13 del 1975; per il principio di non interferenza, omisso medio, cfr. anche, da ultimo, Corte Costituzionale n. 52 del 2016).
Del resto, “tutto sarebbe perduto se un’unica persona o un unico corpo di notabili, di nobili o di popolo esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le risoluzioni pubbliche e quello di punire i delitti o le controversie dei privati” (Montesquieu, Lo spirito delle leggi).
Molta acqua è passata sotto i ponti da Montesquieu, molti distinguo son sopravvenuti, a partire da quello fra separazione dei poteri e divisione dei poteri; molti regimi ibridi, oscillanti fra democrazia ed autoritarismo, si son dati e si danno per lo vasto mundo.
Per dirla con Panebianco (Corriere della Sera del 29/1/2019) “Due tipi possibili (fra i tanti) sono la «democrazia illiberale» e la «democrazia giudiziaria». Nella prima vige il panpoliticismo: il governo controlla, almeno in linea di principio, tutto e tutti…
La «democrazia giudiziaria» è diversa, è un’altra varietà di regime ibrido (democrazia più autoritarismo). Per molti versi, è l’opposto della democrazia illiberale. Qui il governo è solo formalmente al posto di comando. Nei fatti, la discrezionalità politica di cui esso gode è quasi nulla. Non c’è decisione politica possibile se essa non ottiene il placet, quanto meno tacito, delle magistrature. Se il panpoliticismo impazza nella democrazia illiberale è il pangiuridicismo a celebrare i propri trionfi nella democrazia giudiziaria. Concretamente, se nella democrazia illiberale è un delitto di lesa maestà contrapporsi al governo, nella democrazia giudiziaria lo è contestare le decisioni dei magistrati…”.
Come da condivisibile conclusione di Panebianco “… in medio stat virtus”: le democrazie liberali seguono (finché non cessano di essere tali) una strada intermedia che consenta loro di evitare sia il panpoliticismo delle democrazie illiberali che il pangiuridicismo delle democrazie giudiziarie.
In concreto, una democrazia liberale resta tale fin quando funzionano i limiti che si sono auto-imposti tanto le classi politiche che le magistrature. Le prime non attentano all’indipendenza delle magistrature (dei giudici), le seconde rispettano la discrezionalità dell’azione politica, riconoscono l’esistenza di «domini riservati», di ambiti di decisione ove solo le scelte del potere rappresentativo devono avere l’ultima parola. Racconteremmo una favoletta moralistica se dicessimo che questa auto-autolimitazione sia solo il portato delle «virtù» civili di cui (qualche volta) sono dotati politici e magistrati. Ma no: se quei limiti ci sono e funzionano (quando funzionano) è solo perché le tradizioni costringono tutti ad accettarli. Quei limiti funzionano se la «guardiana dei luoghi comuni» (alimentati dalle tradizioni del Paese), ossia l’opinione pubblica, impone ai due gruppi suddetti di rispettarli.
Orbene, se ed in qual misura in Italia questi auto limiti abbiano funzionato e funzionino è analisi (pur compiuta da Panebianco nel seguito del suo ragionamento) sulla quale non intendo qui soffermarmi per mantenermi su di un piano il più possibile asettico e concentrarmi sull’art. 96, ovvero sui rapporti fra Esecutivo e Magistratura. Anzi, sempre al fine di (tentar di) evitare profili che prefigurino in qualche modo appartenenze a “schieramenti”, focalizzerò la mia attenzione non più sull’art. 96 e sulla devoluzione alla giurisdizione ordinaria (anche) dei reati ministeriali, oltre che di quelli comuni di cui si sian resi responsabili i ministri, ma solo su taluni aspetti procedurali meritevoli di attenzione ai fini dell’equilibrio dei piatti della bilancia.
Orbene, per quanto più rileva ai fini che qui riguardano, la legge costituzionale n. 1 del 1989 ha disposto che:
I rapporti, i referti e le denunzie concernenti i reati indicati dall’articolo 96 della Costituzione sono presentati o inviati al Procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio.
Il procuratore della Repubblica, omessa ogni indagine, entro il termine di quindici giorni, trasmette con le sue richieste gli atti relativi al collegio di cui al successivo articolo 7, dandone immediata comunicazione ai soggetti interessati perché questi possano presentare memorie al collegio o chiedere di essere ascoltati (art. 6).
Il Collegio (il c.d. Tribunale dei Ministri, la cui composizione è normata dall’art. 7 della legge), effettuate le indagini e le valutazioni del caso, può disporre l’archiviazione, ovvero rimettere, per il tramite della Procura della Repubblica, gli atti al Presidente della Camera competente (al Senato, ove il ministro non sia anche parlamentare) per il prosieguo (artt. 8 e 9).
Espletata l’istruttoria, con possibilità di audizione del “soggetto interessato” (del ministro), dovuta in caso di sua richiesta, da parte della Giunta per le autorizzazioni a procedere, il caso, accompagnato dalla relazione scritta della stessa Giunta, viene rimesso all’Assemblea.
L’assemblea si riunisce entro sessanta giorni dalla data in cui gli atti sono pervenuti al Presidente della Camera competente e può, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, negare l’autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo.
L’assemblea, ove conceda l’autorizzazione, rimette gli atti al collegio di cui all’articolo 7 perché continui il procedimento secondo le norme vigenti (art. 9, commi 3 e 4).
Or dunque, chiaro essendo che questo scritto trae occasione dal provvedimento cui tramite il Tribunale dei Ministri di Catania ha chiesto al Senato della Repubblica l’autorizzazione a procedere contro il Ministro degli Interni, sen. Matteo Salvini, è bene fare ad esso diretto ed esplicito riferimento, ancorchè solo per render chiari i corni della questione di diritto costituzionale, lungi da me il volere entrare nel merito della fattispecie specifica e concreta e/o dei suoi risvolti penalistici.
L’art. 96 Cost
Orbene, assume il Tribunale che: “L’esercizio delle funzioni rimesse a questo Tribunale dall’art. 96 Cost. e dalla correlata legge cost. n. 1/989, in virtù della quale esso rappresenta il primo filtro nell’accertamento della commissione di un reato ministeriale (il secondo è quello parlamentare), passa attraverso una duplice valutazione: la prima, a carattere negativo, tende a verificare che la condotta criminosa ascritta al Ministro non sia riconducibile alla categoria di “atto politico”, il quale è sottratto ad ogni sindacato giurisdizionale (v, per la giurisdizione amministrativa, art. 7 d. l.vo n. 104/2010, Codice del processo amministrativo); la seconda, a contenuto positivo, ha ad oggetto la qualificazione del fatto penalmente rilevante contestato al Ministro in termini di “reato ministeriale”, laddove la ministerialità della condotta segna il confine con la giurisdizione ordinaria, chiamata a giudicare dei reati comuni …” (pag. 12).
Ed assume ancora il Tribunale che: << … In particolare, con la legge costituzionale n. 1/89, il Parlamento ha dismesso la veste accusatoria ed assunto quella difensiva della funzione ministeriale (la quale, nel perseguimento di interessi preminenti, potrebbe aver sacrificato altri beni ordinariamente protetti dalle norme penali) segnando il passaggio da una giustizia politica ad un sistema che contempla una “giustificazione politica” del reato ministeriale. Invero, la Camera di appartenenza del Ministro inquisito ha il compito di accertare la ricorrenza o meno degli estremi per concedere l’autorizzazione a procedere, la quale è negata allorquando l’assemblea “reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo. Trattasi di esimenti speciali, che escludono l’antigiuridicità dei fatti, altrimenti qualificati come reati, attraverso una valutazione di natura politica, sebbene ai limitati fini di preservare (dalla giurisdizione ordinaria) l’attività di governo che presenti una chiara destinazione alla tutela dei valori essenziali per l’interesse generale. Tale considerazione consente di individuare, per differenza, il tipo di giudizio rimesso al c.d. Tribunale dei Ministri, il quale, anche in ragione della sua struttura di sezione specializzata inserita nella giurisdizione ordinaria, è chiamato a compiere una valutazione di tipo tecnico-giuridico, applicando la legislazione penale comune, senza vagliare (ai fini giustificativi) l’eventuale fine politico della condotta criminosa, spettando un tale giudizio esclusivamente alla Camera competente…>> (pag.14).
Tale, testuale, la cornice di diritto ricostruita dal Tribunale dei Ministri che poi prosegue ritenendo fondata la notitia criminis a carico del Ministro Salvini in ordine al delitto di sequestro di persona contemplato dall’art. 605 c.p., nella dichiarata sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi del reato, partitamente indicati, e, infine, escludendo, sempre con ampio argomentare, che la condotta possa essere ricondotta ad “atto politico in senso stretto e, in quanto tale, sottratta al sindacato dell’Autorità Giudiziaria” (pag. 43 e ss.).
Nel ribadire ancora che non intendo in alcun modo commentare il merito delle valutazioni del Tribunale, prendo le mosse dalla ricostruzione teorica dell’istituto e dei suoi profili procedimental/processuali, quale da esso operata.
Tanto per economia di trattazione, sol facendo osservare che la pur pregevole ricostruzione teorica non appare poter esser sussunta nel c.d. “diritto vivente”, posto che ancora di recente la Camera dei Deputati ha sostenuto che “la competenza alla qualificazione del reato come ministeriale spetta in via esclusiva alla camera competente” (Ricorso n. 7/2011 per conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato proposto della Camera con l’intervento “ad adiuvandum” del Senato) ed avuto presente che la Corte Costituzionale ne ha sì affermata la spettanza al Tribunale dei Ministri, ma in fattispecie in cui venivano in evidenza reati comuni e, anche lì, nella precisazione che “Questa Corte deve però precisare che tale asserzione non equivale a privare il Parlamento dello spazio di apprezzamento, anche in ordine alla natura del reato contestato al Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero ad un ministro, che l’art. 96 Cost. gli riserva …”. (C.C. sentenze “gemelle “ n. 87 e n. 88 del 2012): spazio questo cui si accede, come già detto, attraverso lo strumento del conflitto di attribuzione da attivarsi dal Parlamento innanzi alla stessa Corte.
La richiesta di autorizzazione
E dunque, non appare dubbio che la Camera cui sia pervenuta la richiesta di autorizzazione, ancora prima di pronunciarsi sulla sussistenza o meno dell’esimente prevista dall’art. 96 cost., abbia pieno titolo a sollevare conflitto di attribuzione innanzi alla Corte Costituzionale per contestare, ove lo ritenga, la qualificazione del reato e la sua avvenuta sottrazione alla categoria degli atti politici insindacabili, quale operata dal Tribunale dei Ministri.
Ammettere la sussistenza di tale potestà è approdo di tutto rilievo, in quanto il suo esercizio si colloca – sotto i profili sostanziali e, quindi, a fortiori, procedimentali – a monte della verifica della sussistenza o meno dell’esimente.
Ed invero, ove la Corte Costituzionale avesse a concludere per l’erroneità della qualificazione del reato, per la sua natura di atto politico insindacabile, potrebbe ritenersi che la Camera (il Senato, nel caso di specie) non abbia alcun obbligo residuo di procedere con la verifica della ripetuta esimente. In breve, se il reato non vi era, alcuna necessità vi è di verificare se i fatti/atti siano intervenuti nella tutela del preminente interesse pubblico.
Al di là del chiaro monito contenuto nelle pronunce cennate, ammettere il previo conflitto di attribuzione sul punto appare innegabile, ove non si intenda comprimere le prerogative del Potere esecutivo, già assoggettato alla giurisdizione ordinaria dal novellato art. 96 e già privato – ed anche questo punto meriterebbe ulteriori riflessioni – di attribuzioni “difensive” dirette dal coacervo di previsioni costituzionali date.
Ed invero, lo ius positum non consente al Ministro, neppure per il tramite del Consiglio dei Ministri, di adire direttamente la Corte Costituzionale, ma lo sottopone, oltre che al giudizio della magistratura ordinaria, a quello del Parlamento (anche in esito alla qualificazione del reato).
Certo, le ragioni di tale assetto son da rinvenire nello “svolgimento della vita parlamentare e nella disciplina del rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo”, posto che è in esso “che si rinviene la via ufficiale di interessamento alla fattispecie da parte delle Camere, cui i soggetti interessati – e ciò anche al fine di consentire loro l’esercizio del diritto di difesa – ben possono direttamente rivolgersi per informarle degli accadimenti e porle nelle condizioni di sollevare conflitto innanzi a questa Corte.” (Corte Costituzionale n. 87/2012).
E tuttavia, non può non osservarsi che la posizione dell’Esecutivo ne viene in qualche modo a soffrire; si intende, in quanto venuto meno, con la novella dell’art. 96 Cost., la configurazione della Corte Costituzionale quale “giudice naturale” dei reati ministeriali: configurazione e procedimento speciale già ritenuti dalla dottrina giustificati “da una esigenza di equilibrio fra i poteri” (Gustavo Zagrebelsky, La Giustizia costituzionale ed. 1983, pagg. 235/236).
E dunque, traendo le fila del ragionamento, non può che concludersi esternando il convincimento secondo cui, vieppiù nel quadro normativo oggi dato, al diritto di difesa vada assicurato il massimo possibile di vis espansiva, a tutela sia del “soggetto interessato” esponente del Potere Esecutivo che del cittadino, a contrappeso del fatto che non gli sarà stato dato di sventolare il salvacondotto concesso a Milady da Richelieu: “è per mio ordine e per il bene dello Stato che il latore della presente ha fatto quel che ha fatto”.
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