Una breve esposizione dei fatti di causa
La vexata quaestio prende avvio dalla delibera approvata da un Consiglio dell’Ordine circa l’apertura di un procedimento disciplinare nei confronti di un avvocato per avere, quest’ultimo, agito in spregio agli artt. 6, 7, 8, 38, 40, 41 e 44 del Codice Deontologico del 1997.
Nello specifico, al professionista venivano contestati: l’inosservanza dei doveri di lealtà, correttezza e fedeltà verso il proprio assistito; il mancato rispetto degli obblighi di diligenza professionale; l’omissione di informazioni circa lo svolgimento del mandato; il trattenimento di somme destinate al cliente, senza esser stato autorizzato dal proprio assistito a porre in essere le compensazione con i crediti professionali vantati.
Il Consiglio dell’ordine di appartenenza del legale accertava la responsabilità dello stesso in ordine alle predette violazioni e procedeva ad irrogare la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per un anno.
Seguiva impugnazione, a cura del professionista, dinanzi al Consiglio Nazionale Forense il quale, in via principale, chiedeva la dichiarazione di nullità della decisione assunta dal Consiglio dell’Ordine per genericità, incompletezza e indeterminatezza delle incolpazioni. In subordine, invocava la prescrizione dell’azione disciplinare ex art. 51 L.P. nonché sollevava questione di legittimità costituzionale del combinato disposto delle disposizioni di cui agli artt. 38, 47, 48, 50 e 51 della Legge Professionale in relazione agli articoli 111 e 3 della Costituzione, per avere il Consiglio dell’ordine agito cumulando le funzioni di inquirente e giudicante.
Il C.N.F. rigettava il ricorso presentato dal professionista, ritenendolo palesemente infondato nonché le conseguenti questioni di costituzionalità dallo stesso sollevate.
In ultima battuta, il legale interveniva presentando ricorso innanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, cui seguiva controricorso dell’ intimato Consiglio Nazionale Forense.
Quatto le motivazioni evidenziate dal professionista.
Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente/professionista deduceva la nullità della pronuncia per omessa e/o apparente motivazione; ciò sull’assunto che il Consiglio Nazionale Forense non avesse tenuto in debita considerazione la documentazione versata in atti dallo stesso limitandosi, così, a prestare adesione alla decisione del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Ritenendo, di guisa, la motivazione addotta dal C.N.F. non idonea a consentire una comprensione delle ragioni del rigetto di ogni singola questione proposta dal ricorrente nonché carente di logicità ed esattezza sotto il profilo del ragionamento[1].
Con la seconda doglianza invocava la violazione e falsa applicazione dell’art. 51 R.D. d.l. n. 1578 del 1933. In sostanza, il ricorrente sottolineava l’intempestività dell’azione disciplinare avviata nel 2014 in quanto i fatti a lui ascritti risalivano ad un arco temporale ricompreso tra il 2005 ed il 2008.
Il terzo punto di ricorso ruotava attorno alla violazione e falsa applicazione dell’art. 38 R.d.l. 1578/1933. In particolare, se per un verso riconosceva che il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati ben può attivare e/o iniziare d’ufficio un procedimento disciplinare per altro, invece, rilevava che il C.N.F. aveva agito in spregio alla suddetta previsione normativa (art. 38 D.d.l. 1578/1933) in quanto aveva trascurato un dato fondamentale, ovvero che il Consiglio dell’Ordine deve attivarsi in esito a denuncia e non anche sulla base di semplici informazioni e/o notizie non meglio definite.
Infine, con la quarta ed ultima motivazione il ricorrente lamentava la violazione e falsa applicazione dell’art. 111, secondo comma, Costituzione, atteso che il Consiglio Nazionale Forense sarebbe incorso pubblicando la sentenza impugnata nel 2018 e, dunque, in un periodo di gran lunga superiore rispetto alla decisione avvenuta in Camera di consiglio nel 2016.
Di qui, invocava la compromissione del diritto di difesa costituzionalmente prescritto ex art. 24 Cost. nonché una inosservanza del principio di ragionevolezza, quale baluardo posto a fondamento del giusto processo.
La risposta delle Sezioni Unite
La Corte, a Sezioni unite, ritiene privo di fondamento il ricorso presentato dal legale con conseguente rigetto dello stesso e condanna alle spese.
In particolare, il Supremo Consesso disattende tutte le doglianze esposte nel ricorso sulla base delle argomentazioni di seguito indicate.
In primo luogo, i giudici escludono che la motivazione addotta dal Consiglio Nazionale Forense sia da considerarsi meramente apparente. Motivano tale asserzione specificando che, nel caso di specie, la sentenza del C.N.F. presenta un iter logico-argomentativo puntuale, dettagliato ed analitico in quanto teso ad esporre chiaramente le ragioni del rigetto dell’impugnativa proposta dal legale avverso la decisione dell’Ordine degli Avvocati,.
In proposito, gli Ermellini pongono l’accento sul consolidato orientamento a mente del quale: “la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo, allorquando, seppur graficamente esistente, non renda percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture”[2].
Ancor più, riportandosi alla prima doglianza invocata dal ricorrente in riferimento alla denuncia di falsa applicazione e violazione degli artt. 9, 19, 10, 12, 26, 27, 30 e 31 del nuovo Codice Deontologico Forense, sottolineano come la stessa non trovi alcuno sviluppo argomentativo nel caso de qua laddove il vizio della sentenza ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. trova la propria ratio giustificatrice non solo nella indicazione delle disposizioni che si assumono violate bensì in argomentazioni intellegibili ed esaurienti. Ciò in quanto è attraverso l’indicazione di argomentazioni specifiche, motivate e dettagliate che si rende possibile l’individuazione di potenziali situazioni di conflittualità tra le affermazioni in diritto presenti in una pronuncia e le norme regolatrici della fattispecie o l’interpretazione delle medesime fornite dalla giurisprudenza di legittimità.
In seconda battuta, i giudici di legittimità ritengono insussistente la violazione della previsione di cui all’art. 51 R.d.l. n. 1578 del 1933[3]. A tal proposito, asseriscono che il Consiglio Nazionale Forense ha ravvisato le caratteristiche della condotta disciplinarmente rilevante a carico del professionista ponendo in essere un giudizio di carattere complessivo, ovvero tenendo conto non solo dell’attività professionale svolta bensì anche del trattenimento di somme di spettanza del cliente. Punto focale sul quale, come abilmente sottolineano le Sezioni Unite, già ha avuto modo di intervenire la giurisprudenza di legittimità, giungendo alle seguenti conclusioni: “l’avvocato che si appropri dell’importo del’assegno emesso a favore del proprio assistito dalla controparte soccombente in un giudizio civile, omettendo di informare il cliente dell’esito del processo che lo aveva visto vittorioso e di restituirgli le somme di sua pertinenza, pone in essere una condotta connotata dalla continuità della violazione deontologica, destinata a protrarsi fino alla messa a disposizione del cliente delle somme di sua spettanza, sicchè, ove tale comportamento persista fino alla decisione del Consiglio dell’ordine, non decorre la prescrizione ex art. 51 del R.d.l. n. 1578 del 1933”[4].
Ancora, la Suprema Corte di Cassazione ritiene non meritevoli di accoglimento il terzo ed il quarto motivo.
In particolare, con riferimento al terzo punto del ricorso, sostiene che l’art. 38 R.d.l. n. 1578/1933[5] sia stato pienamente osservato dal Consiglio Nazionale Forense, chiarendo che il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati ha il potere-dovere di promuovere d’ufficio l’azione disciplinare in tutti i casi in cui venga a conoscenza di fatti che pregiudichino l’onore ed il decoro dei professionisti iscritti e della classe forense[6].
Infine, Sezioni Unite propendono per una inammissibilità del quarto motivo dedotto dal ricorrente sull’assunto che si sostanzia non già in una censura rivolta all’impugnata sentenza ma, al contrario, in una mera doglianza atta ad evidenziare il mancato rispetto dei termini di deposito della pronuncia.
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Note
[1] Al riguardo, va precisato che il legale riportava, a fondamento, della motivazione la violazione e falsa applicazione degli artt. 9, 19, 10, 12, 26, 27, 30 e 31 del nuovo Codice Deontologico Forense.
[2] Cfr. SS. UU. 22232/2016.
[3] Art. 51 R.d.l. n. 1578/1933, sistematicamente inserito nel Tiolo IV rubricato “Della disciplina degli avvocati e dei procuratori.“ e statuisce che: “L’azione disciplinare si prescrive in cinque anni”.
[4] Cfr. SS. UU. 13379/2016; SS. UU. 5200/2019.
[5] Art. 38 R.d.l. n. 1578/1933: “Salvo quanto è stabilito negli articoli 130, 131 e 132 del codice di procedura penale e salve le disposizioni relative alla polizia delle udienze, gli avvocati ed i procuratori che si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale sono sottoposti a procedimento disciplinare. Il direttorio del sindacato che ha la custodia dell’albo in cui l’incolpato trovasi iscritto inizia il procedimento disciplinare di ufficio o su richiesta del pubblico ministero presso la corte d’appello o il tribunale, oppure su ricorso dell’interessato. Il potere disciplinare in confronto degli avvocati e dei procuratori che siano membri del direttori di un sindacato locale spetta al direttorio del sindacato nazionale. Nel caso preveduto nell’art. 33, comma sesto, le funzioni inerenti al potere disciplinare, attribuite al direttorio del sindacato nazionale, sono esercitate dal comitato di cui allo stesso art. 33, comma sesto”.
[6] SS.UU. n. 406/1999; SS.UU. n. 25633/2016.
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