Il danno da responsabilità professionale: dalla responsabilità da inadempimento alla responsabilità sanitaria

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1.Profili generali della responsabilità professionale

La responsabilità professionale si inserisce nel più ampio sistema della disciplina del contratto di prestazione d’opera e degli effetti che da esso derivano.

Nell’esecuzione della prestazione, il professionista deve comportarsi secondo la diligenza ex art. 1176, comma 2, c.c., ossia secondo le regole di comune diligenza e correttezza da valutarsi con riguardo alla natura dell’attività professionale esercitata.

Ciò implica una diligenza maggiore rispetto a quella richiesta dal comma 1 della norma richiamata, sicchè, in luogo della generica diligenza del buon padre di famiglia, si richiede una diligenza qualificata all’osservanza di specifiche regole ed all’impiego di strumenti tecnici adeguati allo standard professionale della sua categoria.

La disciplina della diligenza del buon padre di famiglia è espressamente richiamata nel testo normativo di cui all’art. 2236 c.c. il quale testualmente dispone che “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”.

Tale ultima disposizione sembra porsi in stridente distonia con l’art. 1176, comma 2, c.c., in quanto quest’ultima impone al professionista una diligenza qualificata quale criterio di determinazione del contenuto della prestazione e, al contempo, come parametro di imputazione della responsabilità da inadempimento che si configura anche per colpa lieve; l’art. 2236 c.c., invece, pone in evidenza la difficoltà della prestazione configurando l’ipotesi di responsabilità solo per colpa grave.

A questo punto è opportuno analizzare il dato letterale della disciplina dettata dall’art. 2236 c.c., al fine di ricomporre campo di applicazione della norma.

Invero, è evidente che il legislatore si pone in un’ottica di favore rispetto al professionista non solo limitandosi a garantire uno speciale trattamento in ragione del ruolo da esso rivestito, ma anche per evitare di disincentivare l’iniziativa del professionista il quale, per il timore di andare in contro a ritorsioni da parte del cliente, è indotto a riprovevoli inerzie.

Da ciò si trae il logico corollario che, mentre l’art. 1176, comma 2, c.c. è norma generale e trova applicazione nei confronti di tutti i professionisti esercitanti qualsivoglia attività professionale, l’art. 2236 c.c. è norma eccezionale, applicabile ai soli professionisti intellettuali, quando sia in discussione la perizia del professionista.

2. Responsabilità da inadempimento

 

Avendo delineato i tratti della disciplina relativa la responsabilità professionale, occorre una previa disamina della responsabilità da inadempimento e della sua natura giuridica, nonché un esame delle fonti normative regolatrici della stessa.

La responsabilità da inadempimento è una tipica responsabilità di fonte obbligatoria, sebbene la dottrina tradizionale la faccia coincidere con la responsabilità contrattuale, distinguendola perciò dalla differente responsabilità aquiliana. Pur tuttavia tale assunto non è del tutto corretto, stante che l’espressione “responsabilità contrattuale” è una sineddoche, cioè esprime il tutto con una parte. La dicotomia responsabilità aquiliana – responsabilità contrattuale discende infatti dalle “Istitutiones” di Gaio, in cui le obbligazioni derivavano “vel ex contractu vel ex delicto” (o da contratto o da delitto, cioè o da contratto o da fatto illecito). La conseguenza di questa impostazione è che tutte le obbligazioni che non derivavano dal fatto illecito, venivano considerate di fonte contrattuale, ovvero obbligazioni risarcitorie secondarie. Tuttavia, nel paradigma attuale, la responsabilità alternativa a quella aquiliana non è più quella contrattuale, ma quella da inadempimento e la bontà di questa affermazione si ricava dall’art. 1173 c.c. Le fonti dell’obbligazione non sono solo il fatto illecito o il contratto ma anche “ogni altro atto o fatto idoneo a produrla secondo l’ordinamento giuridico”.

Le fonti delle obbligazioni, grazie quindi all’allargamento compiuto dal legislatore, hanno assunto portata aperta, arrivando a ricomprendere nel proprio genus anche fonti diverse dal delitto e dal contratto, quale il contatto sociale qualificato, l’arricchimento senza causa e le obbligazioni indennitarie. E’ quindi più corretto qualificare la responsabilità contrattuale quale modello esplicativo della responsabilità da inadempimento, che ha invece portata più ampia ed articolata.

Chiarita la natura della responsabilità da inadempimento, occorre quindi passare alla disamina del modello generale di responsabilità da inadempimento, delineato dall’art. 1218 cc, per poi verificare come esso operi in combinato disposto con l’art. 1176 c.c., avente ad oggetto la diligenza richiesta al debitore nell’adempimento dell’obbligazione.

L’art. 1176 c.c., difatti, delinea il quantum di diligenza richiesto al debitore generico, facendo riferimento alla nozione di “diligenza del buon padre di famiglia”, con ciò escludendo la responsabilità dello stesso, qualora incolpevole. Si tratta dunque di un modello soggettivo di responsabilità il quale richiede l’accertamento di un quantum colposo.

Differentemente, l’art. 1218 c.c. sembra delineare un modello di responsabilità oggettiva, laddove prevede che il debitore sia tenuto al risarcimento del danno da inadempimento, salvo che non provi che l’inadempimento o il ritardo sia stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

Le due disposizioni sembrano quindi delineare differenti modelli di responsabilità, in antitesi l’un con l’altro ma potremmo dire, mutuando l’espressione dal diritto penale, che si tratta di un semplice “concorso apparente di norme”, stante che l’apparente contrasto normativo non esiste, potendosi combinare le norme al fine di ottenere un differente modello di responsabilità.

Dal combinato disposto dell’art. 1218 c.c. con l’art.1176 c.c. ne deriva infatti un modello di responsabilità misto, in cui per impossibilità della prestazione per causa non imputabile si intende, non l’impossibilità della prestazione per causa oggettivamente non imputabile, bensì l’impossibilità della prestazione per causa soggettivamente non imputabile. Il modello di responsabilità da inadempimento che deriva dall’integrazione tra le due regole è quindi un modello soggettivo, per colpa, ma al tempo stesso l’art. 1218 c.c. introduce una presunzione per cui l’inadempimento è imputabile al debitore. Quindi si tratta di un modello di responsabilità soggettiva presunta, in quanto il debitore risponde se non prova che l’inadempimento è dovuto a causa soggettivamente non imputabile.

Dalla combinazione di tali norme ricaviamo, tuttavia, il solo modello generale di responsabilità da inadempimento, al quale si affiancano degli ulteriori modelli che derogano alla disciplina generale, quale il modello di inadempimento da responsabilità oggettiva e quello da responsabilità professionale.

 

3. … vs responsabilità oggettiva

 

La responsabilità oggettiva, in particolare, si caratterizza per l’elisione dell’elemento soggettivo, laddove l’addebito di responsabilità avviene sulla base del solo nesso causale e della verificazione del danno. Quale esempio di responsabilità oggettiva si pensi a quella ex recepto, cioè quella da inadempimento dell’obbligo di custodia.

Gli obblighi di custodia, infatti, possono essere accessori o principali (contratto di deposito ex artt. 1766 ss. c.c.): l’inadempimento degli obblighi accessori segue il modello generale della responsabilità per colpa presunta, mentre per l’inadempimento degli obblighi principali si applica il principio di derivazione romanistica del receptum, cioè la responsabilità del debitore è oggettiva nel senso che la mancata custodia della cosa equivale a inadempimento a prescindere dallo sforzo di diligenza, per cui egli deve provare l’impossibilità per causa oggettivamente non imputabile (caso fortuito, forza maggiore, il fatto del terzo), cioè la prova della mancanza, non di un elemento soggettivo, ma della mancanza del nesso di causalità tra il fatto inadempimento e la custodia/restituzione.

4. … vs responsabilità professionale

 

Ulteriore modello derogatorio alla disciplina generale di cui all’art. 1218 c.c. è, come detto in epigrafe, quello che riguarda la responsabilità professionale, per la quale l’art. 1176, comma 2, c.c. dispone che “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata” e l’art. 2236 c.c., secondo cui “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”.

Dal combinato disposto di tali norme emerge dunque come la responsabilità del professionista non segua la normale regola di diligenza delineata dal comma 1 dell’art. 1176 c.c., ovvero la “diligenza del buon padre di famiglia”, ma istituisca quale parametro di valutazione della stessa la natura dell’attività esercitata, potendosi quindi parlare di cd. “diligenza qualificata”. È difatti evidente come, la stessa natura professionale dell’attività esercitata importi un quantum di diligenza differente da quello richiedibile al normale debitore “quisque de populo” e, al tempo stesso, imponga di tenere in considerazione il tipo di attività esercitata, la quale potrebbe comportare, di per sé, un naturale e potenziale aggravamento di responsabilità.

Da sempre, dunque, la responsabilità professionale ha posto il problema del bilanciamento della tutela della parte lesa e, al tempo stesso, di non aggravare eccessivamente la posizione del professionista a fronte di attività che, per quanto lecite e ben più spesso utili alla collettività, importano rischi intrinsechi.

Tale problema è stato in parte risolto per quanto attiene al professionista intellettuale, per il quale vige la limitazione di responsabilità di cui al 2236, grazie alla quale lo stesso va esente da responsabilità laddove, a fronte di problemi di particolare difficoltà, abbia procurato danni non riconducibili tuttavia a dolo o colpa grave (cd. responsabilità soggettiva qualificata attenuata).

In tale complesso quadro di bilanciamento tra l’esigenza di responsabilizzare il professionista per il tipo di attività che svolge, imponendo un onere di diligenza qualificata, e l’esigenza di evitare che l’eccesso di responsabilizzazione possa portare ad una mortificazione dell’iniziativa del professionista, è insorta la ben nota distinzione tra le obbligazioni di mezzi e di risultato.

Le obbligazioni di mezzi si caratterizzano per uno sforzo di diligenza attenuata laddove, a fronte di attività di particolare complessità (si pensi alla stessa attività forense) per esentare il debitore da responsabilità, non è richiesto il raggiungimento del risultato, ma unicamente un corretto e diligente comportamento del debitore. Differentemente le obbligazioni di risultato mirano a valutare l’attività del professionista sulla sola base del risultato conseguito, con la conseguenza che l’adempimento coincide con il conseguimento del risultato e l’inadempimento coincide con il mancato conseguimento del risultato, a prescindere dalla diligenza. Potremmo quindi dire che si tratta di una responsabilità oggettiva, in quanto svincolata da una valutazione sulla condotta soggettiva del professionista.

Tale dicotomia, che per lungo tempo è stata utilizzata dalla dottrina e dalla giurisprudenza per dare fondamento a modelli attenuati di responsabilità, quale quella del medico o dell’avvocato, nei tempi più recenti è lentamente venuta meno, a fronte di diverse criticità sollevate. In particolare, sotto il profilo istituzionale, la dottrina più avveduta ha sottolineato come tale dicotomia sia frutto dell’opera creativa, stante che il codice non sembra delineare tale distinguo. A maggior vigore della tesi prospettata si è inoltre evidenziato come in ogni obbligazione sia presente la componente del mezzo e la componente del fine, con un dosaggio variabile a seconda della tipologia dell’obbligazione, non potendosi parlare di obbligazioni di soli mezzi o di soli risultati. Queste e le ulteriori criticità insorte su tale dicotomia hanno giustificato il tendenziale abbandono della distinzione da parte della giurisprudenza.

 

5. La responsabilità medica….

 

Un ambito pratico in cui ha trovato terreno fertile il problema del bilanciamento tra la responsabilizzazione del professionista e l’esigenza di evitare la mortificazione dell’attività è proprio quello medicale in cui il legislatore è intervenuto diverse volte (si pensi alla Legge Balduzzi ed in ultimo alla legge Gelli Bianco), al fine di ridurre il diffuso fenomeno della medicina preventiva, che ha cagionato un rilevante aumento dei costi pubblici in materia di sanità, nonché un generale adeguamento a determinate e non sempre auspicabili prassi mediche, volte a ridurre il perimetro di responsabilità dei medici e delle strutture sanitarie.

Quanto alla responsabilità del medico e della struttura sanitaria, occorre scindere le stesse, ricostruendo l’articolato e ancora in divenire paradigma normativo, sì da mettere in luce come si sia evoluta la natura della responsabilità, laddove la stessa non trovi un’immediata fonte regolamentare, quale può essere quella contrattuale.

Al riguardo occorre in primo luogo chiarire come la responsabilità della struttura sanitaria sorga sempre in virtù di un contratto atipico con il paziente, ben noto con il nome di cd. spedalità. In base a tale contratto insorgono una serie di obbligazioni, tra le quali alcune principali ed altre accessorie.

Quanto alle obbligazioni principali, non si dubita sulla natura della responsabilità della struttura sanitaria, la quale risponderà di un eventuale inadempimento, ai sensi dell’art. 1228 c.c. (responsabilità del debitore che si avvale dell’opera del terzo), ovvero secondo un modello di responsabilità oggettiva.

Ugualmente chiaro e privo di perplessità è anche l’inquadramento della natura della responsabilità del medico, laddove tra lo stesso ed il paziente intercorra direttamente un rapporto contrattuale, dovendosi conseguentemente ritenere operative le regole di cui al 1228, come interpretate alla luce dell’art. 1176 cc.

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6. …e la sua difficile collocazione giuridica.

Piuttosto problematico ed in continuo divenire è invece il problema della qualificazione giuridica della responsabilità del medico, laddove il paziente concluda unicamente un contratto con la struttura sanitaria e manchi quindi un idoneo titolo contrattuale tra lo stesso ed il medico curante.

In origine la giurisprudenza, stante l’assenza di un titolo contrattuale, ricostruiva la responsabilità medica in termini extracontrattuali, sobbarcando il paziente del pesante onere probatorio previsto dalla responsabilità aquiliana e degli ulteriori evidenti corollari derivanti da tale qualificazione (si pensi al riguardo al termine di prescrizione). Detto orientamento, tuttavia ha susseguentemente lasciato il passo al differente orientamento giurisprudenziale, che facendo leva sulla natura aperta ed atipica delle fonti obbligazionarie, ha ricostruito il rapporto tra medico e paziente tramite il ricorso al contatto sociale qualificato, ritendo che sul primo,  in assenza di un titolo contrattuale, non gravi una responsabilità da prestazione, quanto più da protezione, posto che il rapporto tra il medico e il paziente non è un rapporto tra estranei, tra soggetti terzi, bensì, anche in assenza di un contratto, è un rapporto che instaura un contatto sociale qualificato. Tale contatto sociale, conseguentemente, trova propria disciplina nel genus della responsabilità da inadempimento, comportando l’applicazione dell’alleggerimento probatorio previsto per tale tipo di responsabilità, nonché delle regole generali di cui all’art 1218 cc.

Tale ricostruzione, che per lungo tempo è prevalsa in giurisprudenza, ha trovato una difficile convivenza con il Decreto Balduzzi, introdotto nel 2012, tramite il quale il legislatore, almeno in apparenza, ha voluto ricondurre la responsabilità medica al paradigma extracontrattuale, ammettendo un esonero di responsabilità del medico, laddove il sanitario si sia attenuto a linee guida, nei limiti della sola colpa lieve. Tuttavia la tesi prevalente in materia, a cui ha aderito la giurisprudenza preponderante, ha ritenuto che il riferimento all’art. 2043 c.c. non valesse come operazione di qualificazione della natura della responsabilità del medico, ma quale mezzo di responsabilizzazione dello stesso. Quindi la giurisprudenza, nonostante il Decreto Balduzzi, ha continuato ad affermare che, in mancanza di contratto, si applicasse la responsabilità da contatto sociale qualificato, per inadempimento di un’obbligazione di protezione preesistente.

Quanto all’ampiezza di tale clausola di esonero di responsabilità per colpa lieve occorre chiarire come la giurisprudenza maggioritaria abbia limitato l’applicazione della Balduzzi alla sola forma dell’imperizia, escludendo quindi le altre due forme di negligenza e imprudenza. Tale restrizione era stata motivata sulla base di un sillogismo logico, secondo cui causa di esclusione della responsabilità era rappresentato dal perseguimento delle regole previste dalle linee guida, le quali sono solo regole di perizia. Da ciò ne discendeva che l’unico tipo di responsabilità scusata non può che essere quella derivante da imperizia e non anche da negligenza ovvero imprudenza.

In tale solco normativo si è inserita la Legge Gelli Bianco, nel 2017, tramite la quale il legislatore ha posto dei paletti in ordine alla natura della responsabilità del medico, trasformandola da responsabilità da inadempimento ad aquiliana, con validità delle regole stabilite ex art. 2043 cc.

Ulteriore novità ha riguardato l’inserimento nel codice penale dell’art. 590 sexies, in base al quale “Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.

Il legislatore è dunque intervenuto direttamente prevedendo che la clausola di esonero della responsabilità operi esclusivamente in relazione all’imperizia e a fronte dell’osservanza delle linee guida o, alternativamente, delle buone pratiche assistenziali e, a patto che le stesse risultino adeguate al caso di specie.

Ne consegue che il regime delineato dalla Legge Gelli Bianco ripropone i medesimi interrogativi del passato, in relazione al pesante onere probatorio scaricato sul paziente, nonché ne aggiunge di nuovi, per quanto attiene al doppio binario di responsabilità che viene a porre in essere laddove il paziente si trovi a dover agire contrattualmente contro la struttura sanitaria ed extracontrattualmente nei confronti del medico curante, senza tener conto delle numerose problematicità di carattere intertemporale, insorte a seguito dell’evoluzione normativa sul tema.

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Silvia Ingrosso

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