Alcuni chiarimenti in relazione all’art. 625, co.1, n.7, c.p.

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In relazione all’art. 625, co. 1, n. 7, c.p., come devono intendersi le parole “destinazione”, “pubblica fede”, “necessità dell’esposizione alla pubblica fede” e “consuetudine”

     Indice

  1. Il fatto
  2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
  3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
  4. Conclusioni

(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 625, co. 1, n. 7)

1. Il fatto

La Corte di Appello di Palermo, in parziale riforma di una sentenza emessa dal Tribunale di Trapani, concesse le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alle contestate aggravanti, riduceva la pena inflitta all’imputato ad anni uno di reclusione ed euro duecento di multa in relazione ai reati di cui agli artt. 624 e 625, nn. 2 e 7, cod. pen..

In particolare, all’accusato era contestato di avere prelevato la borsa di proprietà della vittima contenuta nell’autovettura di proprietà di quest’ultima, contenente la somma di euro trecento, tessere personali, carte di pagamento ed altri effetti personali.

2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione 

Avverso il provvedimento emesso dai giudici di seconde cure proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato che deduceva i seguenti motivi: 1) violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’art. 625, n. 7, cod. pen. perché, ad avviso del ricorrente, non ricorrevano gli estremi della circostanza aggravante di cui all’art. 625, n. 7, cod. pen. perché, sempre ad avviso della difesa, la borsa della persona offesa consisteva in un accessorio femminile, non incluso nella normale dotazione di un autoveicolo, ed usualmente destinato alla custodia sulla persona del proprietario; 2) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 625, n. 2, cod. pen., ritenendosi come dovesse essere esclusa la circostanza aggravante prevista dall’art. 625, n. 2, cod. pen. in quanto, per la difesa, l’imputato non aveva esercitato energia fisica, provocando la rottura, il guasto o il danneggiamento dell’auto; 3) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 62, comma primo, n. 4, cod. pen. atteso che, per il difensore, stante l’esigua entità del danno economico cagionato (di trecento euro oltre al telefono cellulare), avrebbe potuto essere riconosciuta la circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità; 4) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al risarcimento dei danni in favore delle parti civili visto che, nonostante la carenza probatoria, era stata, per il legale, erroneamente, disposta la liquidazione del danno per cui sarebbe stato necessario pronunziare condanna generica e rimettere le parti dinanzi al giudice civile per la quantificazione dal momento che la valutazione equitativa dei danni non patrimoniali va affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito, qualora non abbia soddisfatto l’esigenza di una ragionevole correlazione tra gravità effettiva del danno e ammontare dell’indennizzo; 5) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 133 cod. pen., deducendosi che, alla luce dei parametri previsti dall’art. 133 cod. pen. e della ritenuta insussistenza delle circostanze aggravanti, la pena irrogata appariva essere eccessiva. 


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3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso era reputato fondato limitatamente alle statuizioni concernenti le contestate circostanze aggravanti.

Si osservava a tal riguardo, una volta fatto presente come il primo motivo di ricorso fosse fondato, che, comunque, per risolvere la tematica in esame, si dovevano prima di tutto analizzare gli elementi costitutivi dell’aggravante.

Orbene, era quindi rilevato che, per pubblica fede, deve intendersi il senso di affidamento verso la proprietà altrui in cui confida chi deve lasciare una cosa, anche solo temporaneamente, incustodita (Sez. 4, n. 5113 del 07/11/2007) fermo restando tale nozione si desume dalla ratio dell’aggravamento previsto dall’art. 625, comma primo, n. 7 cod. pen., e cioè la volontà del legislatore di apprestare una più energica tutela penale alle cose mobili che sono lasciate dal possessore, in modo permanente o per un certo tempo, senza diretta e continua custodia, per “necessità” o per “consuetudine” e che, perciò, possono essere più facilmente sottratte (Sez. 5, n. 38900 del 14/06/2019), tenuto conto altresì del fatto che la nozione di “necessità” dell’esposizione alla pubblica fede non ricomprende soltanto i beni esposti per destinazione o consuetudine, ma anche quei beni che in tale condizione si trovino in ragione di impellenti bisogni della vita quotidiana ai quali l’offeso è chiamato a far fronte (Sez. 2, n. 33557 del 22/06/2016, in fattispecie peculiare riguardante il furto di un portafoglio lasciato in un furgone con la portiera aperta, parcheggiato al fianco di una barca nella quale la persona offesa effettuava le pulizie, al fine di permettere il diretto collegamento delle apparecchiature necessarie, all’imbarcazione medesima), rilevandosi al contempo però che la nozione di necessità non è un concetto assoluto, ma da valutare volta per volta in relazione al caso concreto.

Ciò posto, a sua volta la destinazione è definita quale quella che si evince o dalla destinazione naturale della res o, al limite, dall’utilizzo cui la medesima viene destinata al fine di fornire all’uomo l’autentica utilità della quale è capace mentre la consuetudine indica le abitudini sociali generali o locali, comuni oppure relative a determinati contesti industriali, commerciali o lavorativi che, proprio in quanto consistono in comportamenti statisticamente «standardizzati», e, pertanto, prevedibili secondo un criterio di ordinarietà (specie da parte del cosiddetto «delinquente professionale») rendono in qualche modo minorata la difesa del possesso.

Oltre a ciò, era altresì notato che l’aggravante di cui all’art. 625, n. 7, cod. pen. ricorre non solo in relazione all’azione furtiva avente per oggetto l’auto, ma anche a quella riguardante gli oggetti in essa custoditi che costituiscono un suo accessorio e che, comunque, non sono facilmente trasportabili ovvero a quegli oggetti che, pur non costituendo parte essenziale del veicolo in sosta, ne formano, secondo l’uso corrente, la normale dotazione e non possono agevolmente essere portati con sé dal detentore nel momento in cui si allontana dall’autovettura (Sez. 4, n. 21262 del 26/03/2015, relativo ad un caso di asporto “cd” contenuti nel lettore in dotazione dell’auto e borse della spesa; Sez. 5, n. 44580 del 30/06/2015; Sez. 5, n. 34409 dell’08/06/2015, e Sez. 5, n. 44171 del 14/09/2015, in fattispecie di furto di un navigatore satellitare; Sez. 5, n. 12373 del 03/02/2003, in relazione ad un casco da moto lasciato sul veicolo in sosta in area di parcheggio).

In ordine agli accessori o pertinenze dei veicoli, quindi, il furto degli oggetti lasciati all’interno di una vettura dà vita all’integrazione dell’aggravante de qua allorquando gli oggetti medesimi possano ritenersi quali accessori o parti essenziali o pertinenze del veicolo.

Chiariti i principi operanti in materia, per la Suprema Corte, a questo punto della disamina, occorreva evidenziare che, al fine di ritenere applicabile l’aggravante de qua, bisogna tener conto della natura delle cose rubate ed accertare se l’averle lasciate all’interno dell’autovettura risponde a reale necessità o a consuetudine.

Ebbene, gli Ermellini prendevano come, nel caso di specie, nella sentenza impugnata, fosse stata sviluppata un’analisi di carattere generale circa i bisogni connessi “ai tempi ed alle modalità con i quali si attende alle incombenze della propria giornata nella società attuale” e il dato della sottrazione di beni lasciati temporaneamente in auto, ma non fosse stata verificata in concreto la sussistenza dell’elemento costitutivo della “necessità” di lasciare la borsa incustodita in auto.

Conclusa l’analisi di questa prima doglianza, anche il secondo motivo era reputato fondato.

Si osservava a tal proposito che, in tema di furto, la circostanza aggravante della violenza sulle cose si realizza tutte le volte in cui il soggetto faccia uso di energia fisica provocando la rottura, il guasto, il danneggiamento, la trasformazione, il mutamento di destinazione della cosa altrui o il distacco di una componente essenziale ai fini della funzionalità, tali da rendere necessaria un’attività di ripristino per restituire alla res la propria funzionalità ed essa, quindi, non è configurabile ove l’energia spiegata sulla cosa, mediante la sua forzatura, non determina una manomissione dell’opera dell’uomo posta a difesa o a tutela del suo patrimonio, ma si risolve in una semplice manipolazione che non implichi alcuna rottura, guasto, danneggiamento, trasformazione o mutamento di destinazione, per cui sia necessaria un’attività di ripristino per riportarla ad assolvere la sua originaria funzione (Sez. 5, n. 11720 del 29/11/2019, in fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza di appello che aveva riconosciuto l’aggravante in un caso di effrazione di un nastro di nylon che impediva l’accesso ad un locale, senza però verificare se esso fosse stato strappato o semplicemente sollevato).

Tanto premesso sulla nozione di violenza sulle cose, venendo all’esame della fattispecie de qua, si osservava prima di tutto che, nel capo di imputazione, risultava essere stato contestato all’imputato “la forzatura dello sportello per impossessarsi della borsa“.

Orbene, ad avviso della Suprema Corte, il Giudice di primo grado aveva riconosciuto l’esistenza dell’aggravante, senza descrivere le modalità della violenza, mentre, dal canto suo, la Corte di Appello aveva evidenziato come, secondo la persona offesa, il malvivente avesse “aperto il finestrino di dietro con qualcosa, un oggetto“.

A fronte degli specifici rilievi della difesa, quindi, per i giudici di piazza Cavour, la Corte territoriale non aveva illustrato le esatte modalità con le quali sarebbe stata esercitata la violenza sulle cose e quali conseguenze si fossero prodotte sul bene oggetto della presunta effrazione.

Invece, il terzo motivo di ricorso, con cui si censurava il diniego della circostanza attenuante prevista dall’art. 62, n. 4, cod. pen., era stimato infondato avendo la Corte di Appello rilevato che, tenuto conto del rilevante valore dei vari beni sottratti (la somma di euro trecento e il telefonino), la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. non poteva essere riconosciuta fermo restando che, alla luce dei predetti elementi, la Corte di merito aveva altresì osservato come il danno patrimoniale, sebbene non quantificabile, non fosse di speciale tenuità.

La pronuncia impugnata, pertanto, ad avviso degli Ermellini, sul punto appariva essere stata correttamente allineata al costante dictum della Cassazione secondo cui la concessione della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità  presuppone necessariamente che il pregiudizio cagionato sia lievissimo, ossia di valore economico pressoché irrisorio, avendo riguardo non solo al valore in sé della cosa sottratta, ma anche agli ulteriori effetti pregiudizievoli che la persona offesa abbia subìto in conseguenza della sottrazione della res, senza che rilevi, invece, la capacità del soggetto passivo di sopportare il danno economico derivante dal reato (Sez. 4, n. 6635 del 19/01/2017; Sez. U, n. 35535 del 12/07/2007) mentre, all’opposto, il ricorrente, sempre secondo la Corte di legittimità, si era limitato a censurare il logico iter motivazionale della sentenza, senza neanche illustrare adeguatamente le ragioni per le quali, nella fattispecie, il danno sarebbe stato di rilevanza economica minima.

Detto questo, anche il quarto motivo di ricorso, con cui si contestava la statuizione del risarcimento del danno, era considerato infondato.

Al riguardo, si faceva presente come la Cassazione abbia affermato che, in tema di risarcimento del danno, la liquidazione dei danni morali, attesa la loro natura, non può che avvenire in via equitativa, dovendosi ritenere assolto l’obbligo motivazionale mediante l’indicazione dei fatti materiali tenuti in considerazione e del percorso logico posto a base della decisione, senza che sia necessario indicare analiticamente in base a quali calcoli è stato determinato l’ammontare del risarcimento (Sez. 6, n. 48086 del 12/09/2018), rilevandosi al contempo che la liquidazione del danno morale è affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del giudice di merito il quale ha, tuttavia, il dovere di dare conto delle circostanze di fatto considerate in sede di valutazione equitativa e del percorso logico posto a base della decisione, senza che sia necessario indicare analiticamente i calcoli in base ai quali ha determinato il quantum del risarcimento (Sez. 4, n. 18099 del 01/04/2015).

Ebbene, una volta fatto presente che, nella sentenza impugnata, era stata ritenuta adeguata la somma di euro 1.800, liquidata equitativamente dal Giudice di primo grado, al fine di ristorare il danno economico e morale subito dalla parte offesa la quale, per tentare di bloccare l’imputata, era stata persino spintonata (azione violenta che aveva consentito a quest’ultima di fuggire), si reputava come fossero state correttamente quantificate la somma di euro 300, integrante il danno economico, e di euro 1.500, in ragione anche dei fastidi e delle perdite di tempo collegati alla necessità di denunciare l’accaduto.

L’apparato argomentativo e i criteri di determinazione del danno adottati apparivano essere quindi, per gli Ermellini, del tutto lineari e coerenti ed esenti da vizi deducibili in sede di legittimità.

Il Supremo Consesso, in conclusione, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, annullava la sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni inerenti alle contestate aggravanti, e, conseguentemente, al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Palermo, restando invece assorbito il quinto motivo di ricorso in tema di commisurazione della pena. Il ricorso, nel resto, era rigettato.

4. Conclusioni

La decisione in esame desta un certo interesse nella parte in cui chiarisce taluni aspetti riguardanti l’aggravante preveduta dall’art. 625, co. 1, n. 7, cod. pen..

Difatti, fermo restando che questa disposizione legislativa prevede, per il delitto di furto, la pena della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 927 a euro 1500, “se il fatto è commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o a pignoramento, o esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede, o destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità, difesa o reverenza”, in tale pronuncia, in buona parte sulla scorta di quanto già affermato dalla Cassazione in precedenti sentenze, si afferma che: 1) per pubblica fede deve intendersi il senso di affidamento verso la proprietà altrui in cui confida chi deve lasciare una cosa, anche solo temporaneamente, incustodita; 2) la nozione di “necessità” dell’esposizione alla pubblica fede non ricomprende soltanto i beni esposti per destinazione o consuetudine, ma anche quei beni che in tale condizione si trovino in ragione di impellenti bisogni della vita quotidiana ai quali l’offeso è chiamato a far fronte fermo restando che la nozione di necessità non è un concetto assoluto, ma da valutare volta per volta in relazione al caso concreto; 3) per “destinazione” deve intendersi quella che si evince o dalla destinazione naturale della res o, al limite, dall’utilizzo cui la medesima viene destinata al fine di fornire all’uomo l’autentica utilità della quale è capace; 4) la consuetudine indica le abitudini sociali generali o locali, comuni oppure relative a determinati contesti industriali, commerciali o lavorativi che, proprio in quanto consistono in comportamenti statisticamente «standardizzati», e, pertanto, prevedibili secondo un criterio di ordinarietà (specie da parte del cosiddetto «delinquente professionale») rendono in qualche modo minorata la difesa del possesso.

Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione ogni volta si debba verificare se sia configurabile tale aggravante in relazione ad alcuni dei termini ivi richiamati e definiti, come appena visto, in siffatta decisione.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta pronuncia, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su tale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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