*** 1.
Il significato originario del negozio giuridico: il ruolo del giudice in
ordine al controllo ed alla integrazione degli effetti negoziali - 2. Segue.
Il sistema del codice Pisanelli: il principio di eguaglianza formale dei
contraenti. L’assenza di un generale controllo dell’affare privato -
3. Il sistema del codice attuale. Il ruolo del giudice nella
determinazione degli effetti (o del contenuto) del contratto incompleto -
4. Segue. L’art. 1374. I
tentativi dottrinali volti a modificare il rapporto tra i criteri
integrativi - 5. Il nuovo diritto dei contratti. L’esplosione delle
clausole generali. La buona fede e l’equità nei rapporti contrattuali
1.
Il
significato originario del negozio giuridico: il ruolo del giudice in
ordine al controllo ed all’integrazione degli effetti negoziali
Il
principio della libertà del volere, portato del giusnaturalismo, conduce
alla elaborazione di un concetto di negozio, e dunque di contratto,
squisitamente soggettivistico. Il negozio è inizialmente concepito come
volontà idonea alla produzione di effetti sul piano del diritto il quale
riconosce ai contratti la natura di “affari privati”.
In
tale ottica il ruolo dell’ordinamento, e dunque del giudice in ordine al
controllo del contenuto negoziale ed alla integrazione della efficacia,
non assumono una particolare rilevanza. Il contratto, come la legge,
appare fenomeno insuscettibile di lacune: si afferma il principio dell'autointegrazione,
corollario del dogma della completezza del voluto.
Il principio
d’indifferenza dell’ordine positivo in ordine ai problemi della
disuguaglianza di fatto tra i contraenti e, conseguentemente,
l’impossibilità per il giudice di ingerirsi nell’affare privato dando
rilievo giuridico ai problemi della giustizia contrattuale risulta
peraltro anche il riflesso dell’assetto economico precapitalistico.
Nell’epoca precedente lo sviluppo industriale, infatti, l’abuso
contrattuale non appare fenomeno “sociale” essendo piuttosto legato
alla successiva contrattazione di massa conseguente alla standardizzazione
della produzione.
2.
Segue.
Il sistema del codice Pisanelli: il principio di eguaglianza formale dei
contraenti. L’assenza di un generale controllo dell’affare privato
Il
codice Pisanelli appare ispirato alla medesima filosofia liberistica
connotante i sistemi europei ottocenteschi dell’area occidentale. Emerge
in esso l’idea dell’eguaglianza formale dei contraenti, portato
dell’individualismo e della politica del “laissez
faire”.
E’
certo presente una norma (art. 1124) che opera un riferimento all’equità,
dunque all’attività valutativa discrezionale del giudice,
nell’integrazione del contenuto delle obbligazioni delle parti, ma tale
indice normativo viene del tutto svalutato in sede applicativa sicché
l’affermazione di principio non mina, di fatto, le consolidate
acquisizioni in merito alla natura del contratto ed ai suoi rapporti con
l’ordine positivo.
Mancano,
peraltro, ad eccezione della disposizione, certo rilevante, del primo
inciso dell’art. 1124, generali richiami alla buona fede (oggettiva)
(ora presente, a prescindere dalla normativa extracodicistica, anche nella
disciplina delle trattative, in quella dell’interpretazione), e minore
risulta, in generale, l’uso di clausole generali, sicché l’esame
sistematico non offre alla dottrina il verso per una deviazione dalla
tradizione liberale.
Significative,
a tal proposito, risultano le parole di un insigne civilista, formatosi
nel vigore del codice ottocentesco, strenuo difensore della teoria
soggettivistica di negozio, il quale con vigore, anche (o,
“addirittura”) nel neonato sistema del codice del ’42, afferma il
carattere eccezionale di ogni intervento esterno sul contratto in quanto
espressione della sola libertà individuale dei paciscenti (v. G. Stolfi, Teoria del
negozio giuridico, Padova, 1947, p. XXVIII).
3.
Il sistema del codice attuale. Il ruolo del giudice nella
determinazione degli effetti (o del contenuto) del contratto incompleto
Il
dibattito sul negozio giuridico, conducente al ripudio della sua accezione
volontaristica, l’incertezza dunque sul significato dogmatico e sul
valore interpretativo della categoria, hanno condotto il legislatore
italiano al consapevole rifiuto dell’istituto nel sistema del codice in
cui è invece disciplinato il principale atto di privata autonomia, il
contratto appunto, la cui disciplina è estesa agli atti (id
est negozi) unilaterali inter
vivos a contenuto patrimoniale (G.
Benedetti, Il diritto comune
dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale,
Napoli, 1997).
Dall’impianto
normativo, pur sempre ispirato dalla filosofia liberale della tradizione,
emerge tuttavia un istituto contrattuale assai diverso da quello
ricavabile dalle norme del codice Pisanelli.
Sulla
base delle teorie oggettivistiche e in particolare di quella precettiva
del Betti (Teoria
generale del negozio giuridico, Torino,
1955) si
costruisce un contratto del tutto differente da quello della tradizione
liberale. Caratterizzante il medesimo è, infatti, il limite positivo
della funzionalizzazione dell’autonomia privata al perseguimento di
interessi metaindividuali, meglio sociali (id
est, nelle intenzioni, dei valori del sistema corporativo).
L’apprezzamento
di tale meritevolezza è affidato al giudice il quale per le
contrattazioni atipiche viene deputato ad attuare il controllo della
“funzione economico sociale” perseguita dai contraenti. Tale limite
resisterà alla caduta del sistema corporativo e verrà utilizzato in
dottrina per “funzionalizzare” l’istituto contrattuale, non più al
perseguimento dei non più esistenti interessi corporativi, ma a quelli
scaturenti dalla Carta Costituzionale. Il giudice è così investito della
funzione di apprezzare, sulla base dei valori costituzionali, la
meritevolezza degli interessi dei paciscenti (per tutti
P.
Perlingieri,
Il
diritto civile nella legalità costituzionale,
Napoli, 1991, p. 193 ss., e M.
Costanza, Meritevolezza degli
interessi ed equilibrio contrattuale, in Contratto e impresa, 1987, p. 423).
Autorevole
dottrina ha poi proposto l’utilizzazione del predetto limite della
meritevolezza nel controllo del contenuto atipico id est delle pattuizioni
atipiche difformi dalle norme dispositive, soprattutto ove si sia in
presenza di una deroga sistematica e diffusa mercé l’uso dei contratti
standard al diritto dispositivo. In quest’ottica il giudice avrebbe il
compito di accertare la non meritevolezza del contenuto contrattuale
atipico, dichiararne l’inefficacia e ricostruire il contenuto negoziale
con la normativa dispositiva. Tale disciplina, si afferma, è invero
ispirata al perseguimento della giustizia distributiva per cui la deroga
alla stessa, specialmente nei casi in cui sia generalizzata e sistematica,
non può avvenire senza una giustificazione economica e dunque giuridica.
Tale
teoria (per cui soprattutto P.
Perlingieri, Appunti
sull’inquadramento della disciplina delle c.d. condizioni generali di
contratto, in Condizioni
generali di contratto e tutela del contraente debole,
Milano, 1970, p. 28) va inquadrata nell’ambito della reazione di parte
consistente della dottrina civilistica italiana avverso il fenomeno della
contrattazione di massa, traducentesi nell’imposizione ad opera delle
imprese - contraenti forti - di un contenuto contrattuale squilibrato. La
stessa non ha tuttavia trovato riscontro in giurisprudenza, fedele agli
antichi dogmi ed al principio della ripartizione dei poteri dello Stato.
4.
Segue.
L’art. 1374. I tentativi dottrinali volti a modificare il rapporto tra i
criteri integrativi
L’art.
1374 riproduce, modificandola, la formula consegnata all’art. 1124 del
codice Pisanelli il cui primo capoverso corrisponde sostanzialmente
all’odierna disposizione dell’art. 1375. E’ evidente l’inversione
dell’ordine dei criteri di integrazione: in presenza di una lacuna del
contenuto contrattuale la stessa è riempita mercé l’applicazione della
disciplina legale, in mancanza con gli usi (normativi), in via del tutto
subordinata con l’equità.
Qui
l’equità deve intendersi come attività equitativa giudiziale id
est come attività valutativa, discrezionale, non arbitraria, volta ad
individuare, sulla base delle concrete circostanze del caso, degli
interessi effettivamente coinvolti nella vicenda negoziale, gli effetti
integrativi del contratto.
L’attività
del giudice deve dunque finalizzarsi al perseguimento, nella creazione
della singola regola contrattuale integrativa, del risultato che in
concreto appare equo. Certo i criteri cui debba ispirarsi l’interprete
in tale attività di “contemperamento degli opposti interessi” non
risultano specificati, per cui resta aperto il problema se l’attività
debba esplicarsi sulla base dei valori sociali, della morale, dei principi
economici. Un risultato interpretativo è comunque certo: l’attività
giudiziale deve produrre un risultato equilibrato alla luce della concreta
economia dell’affare.
L’aver
relegato il criterio equitativo all’ultimo gradino tra i canoni di
integrazione degli effetti negoziali porta evidentemente ad un giudizio
svalutativo della sua pratica importanza. Appare invero del tutto
residuale l’ipotesi in cui la lacuna contrattuale non può essere
integrata con norme di legge o col richiamo di usi normativi. Il ruolo del
giudice in ordine alla costruzione degli effetti del contratto appare
pertanto, in un sistema così concepito, del tutto evanescente.
Il
sistema del codice del ’42 tuttavia, si è rilevato, contiene numerose
norme di carattere generale che appaiono idonee a contestare il
tradizionale rapporto tra autonomia privata ed ordine giuridico (sul punto
v. anche A. Trabucchi, Il
nuovo diritto onorario, in Riv.
dir. civ., 1959, p. 495).
Oltre
al limite della meritevolezza è usuale nella civilistica il riferimento
alle differenti disposizioni che si occupano di buona fede (oggettiva).
In
particolare, facendo leva sul disposto dell’art. 1175 (più che
sull’art. 1375), un autore è pervenuto ad una “connotazione
solidaristica” dell’istituto contrattuale (S.
Rodotà, Le fonti di
integrazione del contratto, Milano, 1969, in part. pp. 112, 115, 117,
145, 178, 180, 182). Partendo dalla critica al volontarismo, allo
psicologismo dal primo scaturente e postulante l’autointegrazione del
fenomeno contrattuale, l’autore perviene a negare il carattere
eccezionale dell’art. 1339, a negare in sostanza che il regolamento
contrattuale è il risultato di un’unica fonte: l’autonomia dei
privati. La giusta rilevanza sistematica degli artt. 1339, 1175, 1176,
1374, 1375 conduce l’autore a concepire il contratto come il risultato
di un sistema di fonti: quella privata e quella legale (e,
conseguentemente, quella giudiziale). Non pare pertanto corretto, in
quest’ottica, neppure parlare di “lacune” del contenuto
contrattuale. L’intervento di integrazione invero, si afferma, non
riguarda gli effetti ma il “contenuto” dell’atto; lo stesso non è
perciò fenomeno eccezionale e ciò non snatura il contratto in quanto
l’autonomia privata ne rimarrebbe “il motore”.
La
dimostrazione compiuta conduce l’autore alla esaltazione del valore
normativo dell’art. 1175.
La
buona fede, in quanto di previsione legale, deve essere ricondotta nel
primo criterio integrativo (del contenuto) del contratto di cui all’art.
1374.
La
sua diretta discendenza dal principio costituzionale della solidarietà
contrattuale, precisa Bianca, (Il
contratto, Milano, 1987, p. 474), fa del canone di buona fede
oggettiva il primo criterio di integrazione del contenuto. La sua natura e
il suo fondamento costituzionale, giustificano la preminenza dello stesso
anche sulle regole autonome. Il principio di buona fede è cioè proposto
quale criterio integrativo e quale canone valutativo delle pattuizioni
private che, se con esso in contrasto, subiscono il giudizio di nullità
per violazione dell’ordine pubblico.
Parallelamente
il canone di buona fede è proposto quale primo criterio di determinazione
del contenuto del rapporto obbligatorio, con preminenza anche sulle
previsioni pattizie (C.M. Bianca,
L’obbligazione, Milano, 1993, p. 88).
E’
evidente che in detta prospettiva teorica il ruolo del giudice sia in
posizione primaria nel controllo e nella costruzione del regolamento
contrattuale.
Il
giudizio di difformità della pattuizione dalla buona fede conduce alla
dichiarazione di nullità del patto ed alla sua sostituzione con la
“regola giusta del caso concreto” che normalmente sarà la disciplina
di carattere dispositivo.
Nel
caso di lacune la preminenza valorativa del canone di buona fede rispetto
a tutti gli altri criteri integrativi si concretano in una vera attività
creativa del giudice.
A
questi tentativi dottrinali, volti a scardinare la rigidità del sistema
in quanto fonte di ingiustizie nei rapporti tra soggetti tipicamente
diseguali, va aggiunta la teoria del Gazzoni (Equità e autonomia privata, Milano, 1970, in part. pp. 92, 93, 192,
255, 276, 310, 336) il
quale ha reinterpretato la disposizione dell’art. 1374 assegnando al
criterio equitativo un rilevante spazio applicativo. Per tale autore il
criterio legale andrebbe limitato ai soli contratti tipici, il criterio
degli usi invece ai contratti socialmente tipici mentre il criterio
equitativo a tutte le pattuizioni atipiche. Al giudice sarebbe così
consentito di valutare l’equità di ogni clausola derogativa alla
normativa dispositiva. Il contrasto della regola pattizia con l'equità
legittimerebbe lo stesso interprete alla creazione della giusta regola per
il caso concreto.
Tutte
queste teorie, seppure sostenute da autorevoli civilisti, e per lo più
mosse dal fine di trovare nel sistema strumenti di tutela del contraente
debole più efficaci di quelli tradizionali, non hanno tuttavia trovato
conforto nelle pronunce giurisprudenziali.
La
costruzione costituzionalmente orientata di Rodotà e Bianca si infrange
contro la struttura del codice, chiaro nell’assegnare alla buona fede,
per quanto qui rileva, solo valore integrativo nella fase attuativa del
contratto (così già U. Natoli,
L’attuazione del rapporto obbligatorio, Milano, 1974, p. 35).
L’idea
del Gazzoni appare invece arbitraria laddove opera una limitazione del
criterio legale e di quello degli usi ai soli contratti (legalmente o
socialmente) tipici. La stessa inoltre appare eccessiva e conduce
conseguentemente l’autore, seppure a scapito della coerenza della
costruzione avanzata, alla sua limitazione al solo squilibrio normativo.
5.
Il nuovo diritto dei contratti. L’esplosione delle clausole
generali. La buona fede e l’equità nei rapporti contrattuali
Con
l’avvento della nuova normativa, per lo più a tutela del consumatore e
dell’impresa debole, e in massima parte di derivazione comunitaria, si
è trascorsi ad un nuovo (rectius:
rinnovato) sistema contrattuale in cui l’uso della buona fede e
dell’equità, dunque il richiamo dell’attività discrezionale del
giudice con funzione valutativa e di creazione normativa è sempre più
diffuso.
Quanto
alla buona fede si segnala il nuovo Capo XIV-bis
del Titolo II del Libro IV sul contratto in generale. Nella disciplina
consumeristica tale criterio assurge a canone primario di valutazione
della vessatorietà delle clausole non negoziate dal consumatore.
L’equità,
id est l’assenza di squilibrio
nelle stesse, o all’opposto l’iniquità, lo squilibrio, dunque la
vessatorietà sono risultati di un’attività valutativa del giudice che
va condotta alla stregua della concreta economia dell’affare ed
eventualmente tenendo conto anche di contratti collegati a quello in
questione.
Il
giudizio di vessatorietà, conducente all’inefficacia (rectius:
nullità relativa) della clausola è dunque frutto dell’accertamento
giudiziale.
Analogo
discorso, sebbene manchi un esplicito riferimento al canone di buona fede,
va effettuato con riguardo all’ipotesi disciplinata dall’art. 9 l.
192/98.
La
ricorrenza di un abuso di dipendenza economica è accertamento rimesso
all’attività giudiziale in cui l’eccessività dello squilibrio (che
qui è, per diffusa opinione dottrinale, giuridico ed economico) si
apprezza con il canone della buona fede id
est mercé il riferimento a tutte le circostanze che compongono
l’economia dell’affare.
La
maggior ampiezza dei poteri giudiziali in ordine al controllo e in
particolare alla costruzione della regola negoziale si apprezza tuttavia
solo chiarendo il significato che il concetto di equità assume nel
rinnovato diritto contrattuale.
L’interpretazione
sistematica della nuova normativa generale (artt. 1469-bis
e ss.; art. 1 l. 281/98 sui diritti fondamentali dei consumatori; art. 9
l. 192/98 sul divieto di abuso della dipendenza economica; art. 644 c.p.)
conduce a rilevare l’esistenza di un “principio di equità”
caratterizzante tutti i contratti non negoziati perché non negoziabili, id
est “con contenuto imposto” (sul punto v. il nostro Sull’equità
dei contratti, Napoli, 2001, p. 75 ss., ove la dimostrazione della
rilevanza, nei contratti “con contenuto imposto”, anche dello
squilibrio economico sopravvenuto al di là dei limiti tracciati dal
tradizionale rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità
sopravvenuta).
Dalla
considerazione delle discipline a carattere protettivo emerge, con
riguardo ai contratti stipulati tra soggetti tipicamente diseguali cioè
nei casi di squilibrio strutturale
dei contraenti, un nuovo requisito di liceità del contenuto imposto:
l’equità. Da intendere, come si evince da un esame complessivo delle
norme in cui è fatto riferimento a tale concetto, come equilibrio
normativo e/o economico.
Non
solo dunque assume rilevanza lo squilibrio normativo, com’è facile
desumere dalla lettura del Capo XIV-bis
e dell’art. 9 della legge sulla subfornitura, ma anche lo squilibrio
economico, nei casi “disfunzionali” del sistema economico, conduce
alla nullità relativa e legalmente parziale del contratto postulando
l’esigenza di una ricostruzione del contenuto negoziale.
L’art.
1469-ter comma 2°, che pur
sembra in via generale escludere la rilevanza dello squilibrio economico,
consente il sindacato di vessatorietà sulla determinazione del
corrispettivo allorché questo non è determinato in modo trasparente.
La
ratio della norma è quella di
consentire un agevole accesso al mercato ad opera del consumatore il quale
deve esser posto in grado di effettuare la scelta tra più proposte
economiche alternative. La norma esclusiva presuppone dunque l’esistenza
e l’operatività del mercato sicché, argomentando a
contrario, il giudizio di vessatorietà può appuntarsi sulla
determinazione del corrispettivo allorché il mercato manca o non può
“tutelare” il consumatore offrendogli più alternative tra cui operare
la scelta di consumo. Tale interpretazione risulta coerente anche con il
significato normativo delle disposizioni consegnate agli artt. 81 e 82
Trattato Ce, 2 e 3 della legge antitrust (l. 287/90) laddove si sanzionano
le intese e pratiche concordate che influiscono sui prezzi e l’abuso di
posizione dominante consistente nell’imposizione di prezzi iniqui.
Analogo
risultato può esser raggiunto raccordando sistematicamente la norma in
commento con l’art. 1 l. 281/98, nel suo riferimento all’equità dei
rapporti contrattuali. L’apparente genericità dell’affermazione di
principio nasconde in verità una precisa regola, coerente con i principi
ispiratori del rinnovato diritto contrattuale. Se l’art. 1469-ter comma 2° esclude la sindacabilità della determinazione del
prezzo sul presupposto però che il mercato sia operante, tale norma (nel
suo significato “negativo”) non trova applicazione nei casi in cui il
mercato manca o non offre al consumatore scelte alternative sicché in
tale ipotesi emerge (se non la norma a
contrario ricavata sempre dall’art. 1469-ter)
la disposizione dell’art. 1 l. 281/98 che in tal modo vede delineato con
precisione, mercé il raccordo sistematico con la disposizione codicistica,
il suo campo applicativo (i casi “disfunzionali” del mercato).
Emerge
così dal nuovo sistema contrattuale, corollario di un liberismo che al
contempo è anche solidaristico (v. anche A.
Toffoletto, Il risarcimento
del danno per violazione della normativa antitrust, Milano, 1996, pp.
118 ss., 135 ss.), una maggiore attenzione per la giustizia contrattuale.
E in questa fase è il giudice ad esser deputato del compito più gravoso:
quello dell’accertamento delle situazioni di squilibrio strutturale,
dello squilibrio del contenuto contrattuale, della assenza di una
giustificazione economica del medesimo id
est dell’abuso negoziale.
La
valutazione dello squilibrio, della vessatorietà, dunque dell’abuso
condurrà lo stesso a dichiarare il contratto “nullo”. Si tratterà di
nullità relativa e legalmente o necessariamente parziale (art. 1469-quinquies;
art. 9 l. 192/98; art. 117 ss. T.U.B.;
art. 24 ss. T.U.F.; art. 1519-octies
etc.. Sul punto v. G.
Passagnoli, Le nullità
speciali, Milano, 1995, in part. pp. 176 ss., 223 ss.) cui corrisponde
una pronuncia dichiarativa e determinativa del contenuto negoziale.
Questa
“esplosione” delle clausole generali certo amplia i poteri valutativi
del giudice sollecitando conseguentemente anche un’attività di
verifica, tuttavia è da apprezzare come una conquista di civiltà essendo
i nuovi strumenti ed istituti funzionali ad assicurare la giustizia del
contenuto contrattuale nelle ipotesi di “squilibrio strutturale” dei
contraenti.
Nel
reagire agli abusi della condizione di illibertà contrattuale le nuove
regole appaiono pertanto, più che una rottura rispetto al passato, un
coerente sviluppo dei principi e dei valori costituzionali e comunitari
riflettendo il significato e la misura dell’autonomia dei privati,
libertà che ha in sé, quale limite “consustanziale”, il rispetto
dell’altrui libertà negoziale.
Domenico
Russo
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