IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Dott. ************** – Presidente
Dott. FERRUA Giuliana – Consigliere
Dott. ROTELLA Mario – Consigliere
Dott. *************** – Consigliere
Dott. OLDI Paolo – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
1) B.M. ***** (OMISSIS);
2) D.G. ***** (OMISSIS);
3) M.E. ***** (OMISSIS);
avverso la sentenza del 08/06/2006 emessa dal GIP presso il Tribunale di Roma;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Gennario Marasca;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Dott. ***************, che ha concluso per l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al GIP presso il Tribunale di Roma;
Udito il difensore della parte civile avvocato ****, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
Udito il difensore degli imputati avvocato ******, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
La Corte di Cassazione:
Nell’articolo venivano criticate anche le considerazioni sul caso svolte dal B. nel corso di una intervista rilasciata il giorno precedente sempre al quotidiano (OMISSIS).
Nei confronti del D., imputato del reato di cui all’art. 595 c.p., e di M.E., direttore del giornale imputato del reato di cui all’art. 57 c.p., il GIP presso il Tribunale di Roma, con sentenza ex art. 425 c.p.p., dichiarava non luogo a procedere perche’ il fatto non costituisce reato per esercizio del diritto di critica quanto al primo e perche’ il fatto non sussiste quanto al M.. Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione B. M. che deduceva la erronea applicazione della legge penale e precisamente degli artt. 595 e 51 c.p. ed il vizio di motivazione della sentenza impugnata sul punto.
Il ricorrente, dopo avere ricordato che gli erano state attribuite espressioni mai pronunciate nel corso della intervista rilasciata il giorno precedente, rilevava che dalla critica alla scelta processuale, certamente legittima, il giornalista era passato ad un attacco personale del tutto gratuito ed inutile, come era lecito desumere da passaggi dell’articolo in discussione ove si parlava della cultura giuridica del ricorrente lunatica e fantasiosa, di subalternita’ psicologica dello stesso nei confronti di una famiglia importante ed influente e del processo che nelle mani del B. diveniva arte da basso intrigo.
Riteneva il ricorrente certamente violato nel caso di specie il canone della continenza.
Con memoria depositata il 14 febbraio 2007 il ricorrente, richiamando una recente sentenza della Suprema Corte in materia di diffamazione a mezzo stampa di un magistrato di procura (Cass., Sez. Feriale, 8-30 agosto 2006, ******), indicava nuovi argomenti a sostegno della sua tesi.
Occorre preliminarmente verificare l’ammissibilita’ del ricorso. Nel suo testo originario l’art. 428 c.p.p. non prevedeva impugnazioni della parte civile, ma ammetteva il ricorso della sola persona offesa contro la sentenza di non luogo a procedere esclusivamente per vizi del contraddittorio (Cass., Sez. 5^, 25 marzo 2003, Mennino, m. 225334).
L’esclusione della parte civile dall’ambito dei soggetti legittimati ad impugnare la sentenza conclusiva della udienza preliminare era del resto confermata dall’art. 576 c.p.p., comma 1 incluso nella disciplina generale delle impugnazioni che alla parte civile riconosceva il diritto di impugnare solo contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio, oltre che ai soli effetti della responsabilita’ civile.
Siffatta disciplina, peraltro, era stata ritenuta costituzionalmente legittima dalla Corte Costituzionale con sentenza del 29 luglio 1992 n. 381.
La L. n. 46 del 2006 ha profondamente modificato il regime di impugnabilita’ della sentenza di non luogo a procedere, riconoscendo alla persona offesa la legittimazione a ricorrere per cassazione non solo per violazione del contraddittorio, ma, quando sia costituita parte civile, anche per gli altri motivi di cui all’art. 606 c.p.p.. Il ricorso della persona offesa costituita parte civile previsto dall’art. 428 c.p.p., comma 2, ultima parte, come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 4, non e’ limitato ai soli effetti civili, ma e’ validamente proposto agli effetti penali.
A tale conclusione si perviene in primo luogo per effetto di una interpretazione letterale delle norme in materia di impugnazione perche’ una limitazione della impugnazione ai soli effetti civili, imposta esplicitamente dall’art. 576 c.p.p., comma 1 per le impugnazioni della parte civile contro le sentenze pronunciate in giudizio, non e’ prevista dall’art. 428 c.p.p. per le sentenze di non luogo a procedere pronunciate dal GIP.
Inoltre una impugnazione ai soli effetti civili sarebbe incompatibile con la natura della decisione conclusiva della udienza preliminare che, come e’ noto, e’ priva di effetti irrevocabili sul merito della controversia (Cass., Sez. 5^ sent. n. 5698 del 15 gennaio – 9 febbraio 2007, ******** e Cass., Sez. 5^, 3 maggio – 6 giugno 2007, parte civile contro ********** ed altri, rv. 236250). Del resto non deve sorprendere che la persona offesa possa mettere in discussione gli effetti penali di una decisione, dal momento che anche in materia di archiviazione e’ prevista la opposizione della parte offesa alla richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero ed il ricorso per cassazione avverso il decreto di archiviazione, sia pure con le limitazioni previste dall’art. 409 c.p.p., comma 6.
E’ poi appena il caso di rilevare che correttamente e’ stato proposto nel caso di specie il ricorso per cassazione dal momento che la L. n. 46 del 2006 citata ha escluso la possibilita’ dell’appello avverso le sentenze di non luogo a procedere.
D’altra parte la sentenza della Corte Costituzionale n. 26 del 2007, che ha ripristinato l’appello del Pubblico Ministero avverso le sentenze di proscioglimento, non riguarda la L. n. 46 del 2007, art. 4 che disciplina le impugnazione avverso le sentenze di non luogo a procedere, tipologia di sentenze che non rientra nella piu’ ampia categoria delle sentenze di proscioglimento di cui alla citata L. n. 46 del 2007, artt. 1 e 10 (cosi’ Cass. Sez. 5^, 13 marzo 2007, n. 17417, ******* ed altri e da ultimo Cass. 15 giugno 2007, Sez. 1^, Fonte + 6).
Nel merito il ricorso proposto dal B., che ha dedotto, come gia’ rilevato, la erronea applicazione della legge penale e la illogicita’ e contraddittorieta’ della motivazione della sentenza impugnata, che aveva ritenuto sussistente la esimente dell’esercizio del diritto di critica, non e’ fondato ed anzi in numerosi passaggi e’ ai limiti della ammissibilita’ perche’, come e’ noto, la valutazione del contenuto diffamatorio di un articolo e quella relativa alla sussistenza dei presupposti per ritenere l’esercizio del diritto di critica sono di competenza dei giudici dei primi due gradi di giurisdizione trattandosi di valutazioni di merito, che, se sorrette da una motivazione immune da manifeste illogicita’, non sono censurabili in sede di legittimita’ (Cass., Sez. 5^, 21 dicembre 2000 – 20 febbraio 2001 n. 6924, in CED 218280).
In effetti la sentenza impugnata appare non censurabile perche’ fondata su una corretta interpretazione dell’art. 51 c.p. alla luce della elaborazione giurisprudenziale in materia di esercizio del diritto di critica.
E’ noto, invero, che l’esercizio del diritto di critica si differenzia nettamente dall’esercizio del diritto di cronaca perche’ non si concretizza nella narrazione di fatti, ma nella espressione di una opinione, che, come tale, non puo’ pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non puo’ che essere fondata su una interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e comportamenti (cosi’ Cass., Sez. 5^, 14 aprile 2000 – 27 giugno 2000, n. 7499, CED 216534).
Cio’ comporta che non si pone in materia di diritto di critica un problema di veridicita’ delle proposizioni assertive dell’articolista (Cass., Sez. 5^, 8 febbraio 2000 – 17 marzo 2000 n. 3477, CED 215577), essendo il requisito delle verita’ limitato alla oggettiva esistenza del fatto assunto a base delle opinioni e delle valutazioni espresse (Cass., Sez. 5^, 14 febbraio 2002 – 24 maggio 2002, n. 20474, in CP 03, 3019).
Nel caso di specie il D. ha fondato le opinioni espresse su fatti certi e non contestabili quali l’accordo sulla pena in sede di appello in relazione al c.d. caso J., che tante critiche aveva suscitato nella opinione pubblica milanese per il dimezzamento della pena inflitta in primo grado ritenuto ingiustificato per la efferatezza del delitto commesso, e la intervista concessa dal B. sul caso J. al quotidiano (OMISSIS).
Correttamente e’ stato, pertanto, ritenuto sussistente dal GIP il requisito della verita’ dei fatti sottoposti a critica dal D..
Nessun dubbio e’ poi possibile in ordine alla sussistenza del requisito dell’interesse sociale per la questione discussa nell’articolo incriminato.
Forte e’, infatti, la attenzione della pubblica opinione su gravi fatti di cronaca e sugli esiti giudiziari degli stessi.
Ed e’ giusto che sia cosi’ perche’ la discussione su episodi che hanno fortemente colpito la sensibilita’ dei cittadini contribuisce alla formazione di un profondo e condiviso senso di giustizia.
Particolare attenzione per i cittadini hanno da sempre prestato alla adozione di rilevanti provvedimenti giudiziari ed all’esito dei processi penali piu’ importanti non solo perche’ attraverso di essi si attua la giustizia, ma anche perche’ molti provvedimenti giudiziari incidono pesantemente sulla vita singoli cittadini e delle comunita’, che, quindi, non possono restare indifferenti.
Proprio per tale ragione le riflessioni sulla tempestivita’ dei procedimenti giudiziari e sulla correttezza delle decisioni assunte vengono particolarmente seguite dalla pubblica opinione, che reclama processi non solo rapidi, ma anche rispettosi dei principi costituzionali, specialmente di quelli della presunzione di non colpevolezza e di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge.
Va altresi’ rilevato che il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati deve essere riconosciuto nel modo piu’ ampio possibile non solo perche’ la cronaca e la critica possono essere tanto piu’ larghe e penetranti, quanto piu’ alta e’ la posizione dell’homo publicus oggetto di censura e piu’ incisivi sono i provvedimenti che puo’ adottare, ma anche perche’ la critica e’ l’unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell’esercizio di una rilevante attivita’ istituzionale che viene esercitata – e’ bene ricordarlo – in nome del popolo italiano da persone che, a garanzia della fondamentale liberta’ della decisione, godono giustamente di ampia autonomia ed indipendenza.
Resta da esaminare soltanto il profilo della cd. continenza espressiva, che anche il ricorrente ha considerato l’aspetto piu’ rilevante nel presente processo. E’ fuori contestazione che la critica giudiziaria possa essere contrassegnata da espressioni forti, aspre pungenti ed anche suggestive, spesso necessarie proprio per richiamare la necessaria attenzione dei lettori, che, bombardati da numerose notizie, debbono poter individuare prontamente quelle piu’ significative. D’altra parte e’ nota l’influenza del mezzo televisivo sul mutamento del linguaggio; proprio la grande efficacia dei messaggi televisivi, che accompagnano alle parole immagini che captano immediatamente l’attenzione dello spettatore, ha imposto un mutamento anche dei messaggi inviati con la carta stampata che, per catturare l’attenzione dei lettori, debbono non solo essere manifestati con linguaggio semplice ed immediato, ma anche resi con frasi, talvolta eccessive e/o suggestive, che siano tali da richiamare nel distratto lettore immagini e concetti significativi.
Del resto, per la ragione esposta e per altri complessi motivi che appare superfluo esaminare in questa sede, il linguaggio usato dai cittadini, dagli uomini politici, dai sindacalisti e dai cd. opinion leaders e’ molto mutato nell’ultima parte del secolo scorso.
Ormai siamo abituati, come telespettatori, ad assistere a vere e proprie aggressioni verbali televisive e, talvolta, a vere e proprie contumelie che affermati uomini politici non esitano a scambiarsi. Non potevano in giornali restare esenti da tali fenomeni.
Siffatto modo di esprimersi e di rapportarsi all’altro e’ certamente poco opportuno ed e’ sicuramente censurabile sul piano del costume, come non ha mancato di rilevare anche il giudice di primo grado, ma bisogna prendere atto che esso e’ ormai accettato, o forse e’ meglio dire sopportato, dalla maggioranza dei cittadini, che, pur contestando non di rado l’uso di un linguaggio troppo aggressivo, stentano a credere che si debba fare ricorso in tali casi a sanzioni penali.
E’ il sintomo questo che la sensibilita’ e la coscienza sociale sul punto sono molto cambiate.
Le pronunce della Suprema Corte che legittimano, ovviamente sul solo piano penale, un linguaggio piu’ disinvolto, piu’ aggressivo, meno corretto di quello in uso fino a pochi decenni fa sono oramai molte e riguardano sia il settore dei rapporti tra i cittadini, sia quelli dei rapporti politici e della critica politica, sindacale e giudiziaria.
Naturalmente se e’ vero che deve essere tutelata nel modo piu’ ampio possibile in un paese democratico la liberta’ di espressione – ed a tale canone sono ispirate le decisioni di cui si e’ detto – e’ pure vero che tale insopprimibile liberta’ costituzionalmente garantita incontra dei limiti perche’ non puo’ essere negato il diritto alla tutela della reputazione e della onorabilita’ dell’individuo.
Ebbene la giurisprudenza della Suprema Corte, che ha cercato di garantire nel modo piu’ ampio l’esercizio dei diritti di cronaca e di critica, che rientrano tra i diritti pubblici soggettivi inerenti alla liberta’ di pensiero e di stampa, ha trovato un limite a tali liberta’ quando l’agente trascenda in attacchi personali diretti a colpire, su un piano individuale, senza alcuna finalita’ di interesse pubblico, la figura morale del soggetto criticato.
Insomma quando si utilizzano i cd. argumenta ad hominem e la critica sfocia nella inutile aggressione alla sfera morale altrui, la esimente dell’esercizio del diritto di critica non puo’ essere riconosciuta. Il problema nel presente caso consisteva, quindi, nel verificare se il D. aveva senza ragione aggredito la sfera morale della persona offesa.
Il giudice di merito, che ha certamente tenuto conto dei canoni interpretativi sommariamente indicati, ha spiegato che la critica del giornalista era certamente aspra e pungente ed in alcuni casi inopportuna e forse motivata anche da una non completa conoscenza di istituti e prassi giudiziarie, ma che mai l’imputato aveva inutilmente e gratuitamente aggredito la sfera morale del B..
Anche in questo caso si tratta di un giudizio di merito non censurabile in sede di legittimita’ dal momento che la motivazione che lo sorregge non e’ affatto manifestamente illogica come sostenuto dal ricorrente. Come emerge dalla motivazione impugnata, oltre che dall’articolo incriminato, del quale questa Corte puo’ prendere cognizione perche’ riportato nel capo di imputazione, infatti, il D., facendosi interprete della disapprovazione della opinione pubblica per un comportamento processuale della Pubblica Accusa e per una conseguente decisione della Corte di Appello ritenuti ingiusti nonche’ lesivi del principio della uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, ha criticato non solo il provvedimento giudiziario, ma anche l’intervista rilasciata dal B. a difesa del suo operato in modo certamente pungente ma non inutilmente aggressivo. Ed infatti la spietata critica per la espressione usata nella intervista pochi, maledetti e subito, espressione che dalla vulgata popolare viene riferita ai soldi, e che, invece, il B. ha, assai inopportunamente, riferito agli anni di reclusione da infliggere allo J., e’ pienamente giustificata perche’ essa esprime una concezione del diritto e della giustizia quantomeno singolari.
Come pure l’ironico riferimento al B. – R., che pero’ nel caso di specie non era stato particolarmente rigoroso, non costituisce un inutile attacco alla persona, ma semplicemente l’espediente retorico per censurare una incauta affermazione del B., che nel corso dell’intervista aveva detto di essere stato negli anni passati denominato R. a causa del suo rigore, perche’ di sicuro e’ del tutto improprio avvicinare la figura istituzionale del Procuratore Generale della Repubblica quale disegnata dal nostro legislatore a quella del noto rivoluzionario, che in modo spietato consenti’ l’uso della ghigliottina.
Si e’ trattato, quindi, dell’utilizzo di argomenti, peraltro introdotti nel dibattito pubblico dallo stesso B. per mezzo dell’intervista, necessario per censurare una concezione del diritto ritenuta dal giornalista, interprete in quel momento della opinione pubblica maggioritaria, inaccettabile e foriera di decisioni ingiuste non degne di un paese democratico.
Anche il tanto criticato dal ricorrente riferimento alla supposta cd. subalternita’ psicologica del B. nei confronti di una famiglia nota e potente non costituisce un argomento utilizzato dal D. allo scopo di denigrare la persona del B., ma per tentare di trovare una plausibile spiegazione a quella che era ritenuta una grave ingiustizia.
Del resto non e’ usuale nelle aule di giustizia che con il patteggiamento della pena in appello ex art. 599 c.p.p. l’imputato riesca a dimezzare la pena che gli era stata inflitta in primo grado per un delitto di tale indubbia gravita’.
Tale obbiettiva e non contestabile situazione unita alla inopportuna difesa, che peraltro non puo’ definirsi nemmeno efficace, del proprio operato per via giornalistica, ha fornito lo spunto al giornalista per considerazioni che, correttamente, sono state dal giudice di merito definite esagerate ed inopportune, ma che non possono di sicuro essere lette come un gratuito attacco alla sfera morale del B. rappresentando, invece, il tentativo di una spiegazione sociologica, di certo un po’ approssimativa, di quanto accaduto. Anche il cd. requisito della continenza espressiva ricorre, pertanto, nel caso di specie e le censure del ricorrente sul punto debbono essere disattese.
Per tutte le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato a pagare le spese del procedimento.
Depositato in Cancelleria il 12 settembre 2007
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