inserito in Diritto&Diritti nel marzo 2004

Il principio di effettività ed il rimborso negato: la corte di giustizia “condanna” la corte di cassazione.

di Mariangela Balestra

***

1. Introduzione e sintesi; 2. Esame della sentenza Commissione c. Italia; 2.1. I fatti di causa; 2.2. I precedenti comunitari; 3. Le pronunce della Corte Costituzionale e della Cassazione sul rimborso dei tributi non rilevanti per il diritto comunitario; 3.1 Introduzione; 3.2 Ordinanze n. 651 del 1988 e n. 172 del 1989; 3.3 Sentenza n. 114 del 2000; 3.4 Sentenza n. 332 del 9 luglio 2002; 3.4.1. Sentenza Corte di Cassazione, sez. Tributaria, 19 agosto 2003, n. 12185; 4. Il principio di effettività (sino all’art. 47 della Carta di Nizza)

 

INTRODUZIONE E SINTESI

 

La sentenza della Corte di giustizia CE Commissione contro Italia del 9 dicembre 2003[1] condanna lo Stato italiano per inadempimento agli obblighi scaturenti dal Trattato per non aver restituito alle imprese contribuenti i tributi indebitamente riscossi in violazione del diritto comunitario.

La sentenza assume rilevanza per due motivi principali: da un lato costituisce un’importante affermazione del principio comunitario di effettività e dall’altro perchè la condanna è rivolta alla magistratura ed all’amministrazione pubblica italiana.

Al riguardo, si osserva infatti che diversamente dal passato in cui l’Italia era stata condannata dalla Corte di giustizia a causa della legislazione italiana i cui termini e condizioni troppo restrittivi di fatto frustravano il diritto al rimborso delle imprese, questa volta viene puntato il dito contro la magistratura e le amministrazioni pubbliche della Repubblica per il modo in cui avrebbero interpretato ed applicato le norme sul rimborso. In effetti, dall’esame dei dati amministrativi e dei casi giurisprudenziali tra cui, in particolare, spiccano le pronunce della Cassazione, gli organi comunitari hanno rilevato che per un decennio quasi nessuna impresa richiedente ha ottenuto la restituzione per via amministrativa di tributi riscossi dallo Stato italiano in violazione del diritto comunitario[2], e solo in pochissimi casi, i contribuenti hanno ottenuto soddisfazione di tale diritto dai giudici italiani.

Tale decisione quindi si segnala per essere uno dei primi casi, a livello europeo, in cui i giudici di Lussemburgo condannano uno Stato membro per “inadempimento al diritto comunitario” causato dai loro colleghi giudici nazionali[3]. Nel caso di specie, le critiche della Corte di giustizia si appuntano, in primis, sui giudici di Cassazione sui quali incombe in maniera più pregnante l’obbligo di assicurare l’effettiva tutela dei diritti scaturenti dall’ordinamento comunitario, ai sensi dell’art. 10 del Trattato CE.

Al fine di addivenire a tale decisione, la Corte comunitaria ha fatto ricorso in maniera piuttosto incisiva al principio di effettività da essa stessa creato, connotandolo come uno dei principi fondanti dell’ordinamento comunitario.

Si tratta quindi di una decisione importante che potrà anche avere effetti sul diritto italiano, non solo per quanto concerne il settore del diritto tributario, ma più in generale per il riconoscimento che il principio di effettività potrà trovare a livello nazionale.

Quanto al primo profilo, si osserva che la sentenza in esame ha contraddetto e criticato in radice il ragionamento presuntivo utilizzato dalla giurisprudenza nazionale della Cassazione per negare il diritto al rimborso di tributi riscossi in violazione di norme comunitarie; pertanto, è ragionevole aspettarsi un ampio revirement della suprema Corte - tra l’altro, come vedremo, già in corso - anche relativamente a casi di rimborso meramente nazionali.

D’altra parte, in un’ottica più generale, i severi moniti della Corte di Giustizia impongono una riflessione più ampia sull’adeguamento del sistema di tutela del nostro ordinamento a parametri di “effettività” comunitari. Azzardando ipotesi di sviluppi futuri, sarebbe plausibile immaginare che i giudici comunitari possano in avvenire mettere in discussione altri aspetti (anche processuali) dei mezzi di tutela accordati ai singoli, ivi compresa l’eccessiva durata dei giudizi in cui sia invocata la lesione di diritti comunitari. Tale questione non è secondaria se si pensa che alla luce della c.d. giurisprudenza Francovich, a fronte della responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario sussiste l’interesse tutelato dei singoli al risarcimento[4].

Nel caso di specie, sarebbero ipotizzabili azioni di risarcimento nei confronti dello Stato italiano da parte delle imprese che in questi anni si siano viste negare irragionevolmente dall’amministrazione o dai giudici il diritto al rimborso dei tributi percepiti dallo Stato in violazione del diritto comunitario. Appare infatti, anche alla luce degli argomenti esposti nella presente sentenza, che ricorrano i presupposti per una tale tutela, e cioè: 1) la violazione da parte dello Stato italiano di un diritto al rimborso riconosciuto ai singoli dalla Comunità, 2) il carattere manifesto di tale violazione[5], 3) il nesso di causalità diretta tra la violazione dello Stato italiano ed il danno per le imprese italiane, anch’esso esplicitato nella presente sentenza.

 

Per chiarezza espositiva, nella presente trattazione sarà dapprima riassunta ed analizzata la sentenza Commissione contro Italia; successivamente si esamineranno brevemente i precedenti della Corte di Giustizia in materia. Inoltre, si riassumeranno gli interventi della Corte costituzionale e della Cassazione sul diritto (anch’esso inesistente) alla ripetizione di tributi indebitamente riscossi in violazione di norme diverse da quelle comunitarie.

Infine, si affronterà il tema più generale del principio di effettività nell’ordinamento comunitario per concludere nel senso di un auspicabile riconoscimento e pieno utilizzo di tale principio a livello nazionale.

 

2. ESAME DELLA SENTENZA COMMISSIONE C. ITALIA

 

2.1. I FATTI DI CAUSA

 

In data 17 settembre 1996 la Commissione emetteva un parere motivato ed il 4 aprile 2000 adiva la Corte di giustizia chiedendo di accertare la violazione, da parte dell’Italia, dell'art. 226 del Trattato CE, in quanto l’art. 29 secondo comma della legge italiana 29 dicembre 1990, n. 428, così come interpretato ed applicato in sede amministrativa e giudiziaria, avrebbe determinato un regime probatorio tale da rendere praticamente impossibile o, comunque, eccessivamente difficile per i contribuenti l'esercizio del diritto al rimborso dei tributi riscossi in violazione delle norme comunitarie.

Il citato art. 29 contiene disposizioni per il «rimborso dei tributi riconosciuti incompatibili con il diritto comunitario», e stabilisce che:

 

«2. I diritti doganali all'importazione, le imposte di fabbricazione, le imposte di consumo, il sovrapprezzo dello zucchero e i diritti erariali riscossi in applicazione di disposizioni nazionali incompatibili con norme comunitarie sono rimborsati a meno che il relativo onere non sia stato trasferito su altri soggetti (...)».

 

La formulazione precedente di tale disposizione è stata più volte oggetto di censure da parte della Corte comunitaria. Nelle numerose pronunce in materia i giudici di Lussemburgo avevano condannato lo Stato italiano per aver legislativamente introdotto termini e condizioni di prova a carico del contribuente che rendevano di fatto impossibile o eccessivamente difficile il rimborso dei tributi riscossi in violazione del diritto comunitario[6].

Tra di esse è risultata rilevante per il caso di specie la sentenza Dilexport in cui si affermava, sempre con riguardo all'interpretazione dell'art. 29, secondo comma, della legge n. 428/1990, che il diritto comunitario osta a che uno Stato membro assoggetti il rimborso di diritti doganali e di imposte incompatibili con il diritto comunitario a una condizione, quale la mancata ripercussione di tali diritti e imposte su altri soggetti, che spetterebbe all’amministrazione ricorrente provare. Analogamente, con la sentenza Comateb, la Corte stabiliva che, sebbene la questione della traslazione o meno, in ogni singolo caso, di un'imposta indiretta costituisca una questione di fatto rientrante nella competenza del giudice nazionale, che potrà valutare liberamente le prove fornite al riguardo, non è ammissibile che per le imposte indirette esista una presunzione secondo cui vi è stata traslazione e che spetti al contribuente fornire la prova contraria[7].

Nel caso di specie, la Corte di giustizia ha confermato l’orientamento della Commissione europea che, analizzando il modo in cui l'art. 29, secondo comma, della legge n. 428/1990 è stato interpretato dai giudici italiani ed applicato dall'amministrazione finanziaria sino al 2000, ha rilevato che tale prassi non era conforme alla giurisprudenza comunitaria[8] in quanto rendeva molto difficile, se non impossibile il rimborso alle imprese dei tributi illegittimi.

Secondo la Commissione, sebbene spettasse all'amministrazione italiana dimostrare che il tributo di cui trattasi era stato trasferito dal singolo sui terzi, di fatto la giurisprudenza italiana, e in particolare quella della Cassazione, ha consentito all'amministrazione di fornire tale prova mediante «presunzione semplice». In tal modo si rovesciava l’onere della prova sul contribuente che, per non soccombere in giudizio, era costretto a fornire la prova negativa del mancato trasferimento del tributo illegittimo sui suoi clienti.

Al riguardo, la Commissione ha individuato due categorie di sentenze della Corte di Cassazione che confermerebbero tale modus procedendi.

Nella prima categoria di casi analizzati la presunzione veniva in gioco sotto il profilo del convincimento del giudice, assumendo così i connotati di una presunzione legale basata su un fatto notorio - e cioè che i tributi, in quanto costi delle imprese commerciali, vengano sistematicamente trasferiti sulla clientela. In tal modo, si determinava un’inversione dell'onere a carico del contribuente.

In un secondo gruppo di sentenze della Cassazione la presunzione semplice di traslazione del tributo veniva messa in relazione con un meccanismo istruttorio. In tali casi, pur riconoscendo in via di principio che spetta all’amministrazione provare il trasferimento del tributo, di fatto i giudici la esoneravano da ulteriori oneri probatori, imponendo al contribuente di produrre in giudizio taluni documenti probatori necessari, come le scritture contabili. Qualora il contribuente non fosse stato in grado di provvedervi, ai sensi dell'art. 116 del codice di procedura civile secondo il quale dai comportamenti omissivi della parte nel processo il giudice può trarre argomenti di prova, se ne deduceva che il tributo di cui trattasi era stato trasferito. Considerata la lunga pendenza media dei procedimenti di rimborso, in molti casi le imprese si trovavano nell’impossibilità materiale di mostrare tali scritture in quanto le stesse erano state distrutte, scaduto il termine decennale di tenuta previsto dalla legge.

Nel procedimento, il governo italiano si è difeso dichiarando, tra l’altro, che ben 17 sentenze dei giudici di merito (sic!) avrebbero dato ragione ai contribuenti, rimborsando 120 miliardi di lire[9].

Alla luce di tali argomenti, la Corte di giustizia ha dapprima ricordato che spetta agli Stati membri, stabilire i rimedi giurisdizionali e garantire la tutela dei diritti al rimborso spettanti ai soggetti in forza del diritto comunitario. Tali rimedi devono essere predisposti nel rispetto dei principi di equivalenza (rispetto ad analoghi rimedi di natura interna) e di effettività.

Inoltre, tale obbligo grava sullo Stato membro, anche qualora l’attività o l’inerzia da cui trae origine la violazione sia imputabile ad un suo organo o, anche, ad un’istituzione costituzionalmente indipendente[10].

Con un’osservazione rilevante per il caso di specie, la Corte di Giustizia ha affermato che la portata delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali si deve valutare sulla base dell’interpretazione che ne danno i giudici nazionali e che, a tal fine, assumono rilevanza le interpretazioni giurisprudenziali che non siano smentite dal supremo giudice nazionale o addirittura da esso confermate[11].

Al riguardo, la Corte di giustizia ha rilevato che costantemente la Cassazione italiana avrebbe negato il diritto al rimborso[12], basando tale decisione sulla presunzione non necessariamente vera dal punto di vista economico della “normalità del trasferimento degli oneri indiretti da parte delle imprese sui loro clienti”[13]. Inoltre, la corte comunitaria ha censurato quei casi in cui i giudici nazionali avrebbero determinato la soccombenza del ricorrente sulla base della mancata presentazione delle scritture contabili. Tali documenti, infatti, conterrebbero dati neutri, che non giustificherebbero di per sé la traslazione su terzi dei detti tributi e l’onere per il contribuente di confutare tale presunzione fornendo prova contraria[14].

Parimenti, i giudici comunitari hannno rilevato che l’amministrazione pubblica italiana avrebbe di fatto impedito l’esercizio del diritto alla restituzione, subordinandolo alla condizione che il contribuente avesse, nell’anno di pagamento del tributo, contabilizzato lo stesso tra le voci attive del bilancio, come anticipazione all’erario di somme non dovute. La Corte di Giustizia ha contestato tale prassi dell’amministrazione italiana perché, permettendo il rimborso solo al ricorrere di tale estrema ipotesi, anche tale sistema si fondava sulla presunzione - dichiarata in contrasto con il diritto comunitario[15] - che le imposte indirette fossero già normalmente trasferite a valle della catena delle vendite.

La conclusione della causa è quindi che lo Stato italiano è venuto meno agli obblighi imposti dal Trattato, a cagione del comportamento dell’amministrazione e della giurisprudenza italiane che hanno reso eccessivamente difficile o impossibile per le imprese l’azione di ripetizione dei tributi contrari al diritto comunitario indebitamente pagati.

 

 

2.2. I PRECEDENTI COMUNITARI

 

Il sistema italiano di rimborso dei tributi indebitamente riscossi dallo Stato italiano in violazione del diritto comunitario è stato varie volte oggetto di condanne comunitarie.

Nella sentenza San Giorgio del 9 novembre 1983, la Corte aveva analizzato l'art. 10 del decreto legge 10 luglio 1982, n. 430 (4), che prevedeva una presunzione legale di traslazione del tributo su altri soggetti e riconosceva il diritto alla restituzione solo se fosse stata fornita documentalmente prova contraria. In tale caso, la Corte aveva dichiarato che “uno Stato membro non può subordinare il rimborso di tributi nazionali riscossi in contrasto con quanto disposto dal diritto comunitario alla prova che i detti tributi non sono stati trasferiti su altri soggetti, qualora il rimborso sia subordinato a criteri di prova che rendano l'esercizio del detto diritto praticamente impossibile o estremamente difficile”[16].

Nella sentenza 24 marzo 1988, la Repubblica italiana era stata nuovamente condannata per inadempimento agli obblighi comunitari perché tale disposizione subordinava il rimborso alla prova scritta della mancata traslazione dell’importo dei tributi su terzi mediante il prezzo dei beni o servizi venduti[17].

A seguito di tali pronunce, il legislatore nazionale ha abrogato la disposizione incriminata, sostituendola con l’art. 29 della legge n. 428/1990, anch’esso già passato al vaglio della giurisprudenza comunitaria. Il primo e il secondo comma di tale articolo sono stati oggetto di questioni pregiudiziali che hanno portato alle sentenze Aprile[18], Dilexport[19] e Grundig Italiana[20]. Tutte e tre le sentenze riguardavano la contrarietà al diritto comunitario del termine di decadenza di cui all'art. 29, primo comma.

Nella questione pregiudiziale, risolta dalla Corte con la sentenza Dilexport del 9 febbraio 1999, il giudice nazionale sosteneva altresì che tale disposizione veniva applicata dai giudici italiani nel senso che l'amministrazione, per opporsi al rimborso di diritti doganali o di imposte indebitamente versate, poteva invocare la presunzione di normale trasferibilità dalle imprese a terzi del peso economico di tali imposte. In tale decisione, la Corte di giustizia rimetteva al giudice nazionale la valutazione circa l’esistenza di una tale presunzione, considerata in contrasto col diritto comunitario qualora gravasse sul contribuente l’onere di fornire prova contraria.

La sentenza Commissione c. Italia rappresenta quindi la prosecuzione senza soluzione di continuità del caso Dilexport. La Corte di giustizia prende essa stessa posizione sull’esistenza di tale presunzione, analizzando la giurisprudenza e la prassi amministrativa italiane, sul presupposto che lo Stato è inadempiente agli obblighi comunitari anche quando la violazione sia dovuta ad organi costituzionalmente autonomi come la magistratura. La Corte di giustizia non ha esplicitato le caratteristiche che deve avere una giurisprudenza interpretativa nazionale per essere considerata in contrasto con il diritto comunitario, come chiedeva l’avvocato generale, ma si è limitata a ribadire che una tale violazione sussiste quando esiste in un Paese un’interpretazione giudiziaria consolidata non smentita o addirittura confermata dal supremo organo giudiziario.

 

3. LE PRONUNCE DELLA CORTE COSTITUZIONALE E DELLA CASSAZIONE SUL RIMBORSO DEI TRIBUTI NON RILEVANTI PER IL DIRITTO COMUNITARIO

 

INTRODUZIONE

 

Per quanto riguarda il rimborso di tributi illegittimamente percepiti ma non rilevanti per il diritto comunitario, con l'art. 19, primo e secondo comma, del d.l. 30 settembre 1982, n. 688 (Misure urgenti in materia di entrate fiscali), convertito in legge 27 novembre 1982, n. 873 si stabiliva la presunzione legale di traslazione del tributo a terzi che il contribuente doveva vincere fornendo prova contraria.

A livello nazionale, infatti, solo nel 2002 la Corte Costituzionale è arrivata a sancire l’incostituzionalità di tale norma. Sino al 2002, il legislatore e le corti giustificavano l’esistenza di tale presunzione, sostenendo la necessità di evitare un arricchimento senza causa a vantaggio di tali contribuenti e a danno della collettività. Come giustamente affermato dalla medesima Corte Costituzionale nel 2002, tale ragionamento era fondamentalmente ed originariamente viziato, dal momento che non si poteva qualificare come arricchimento senza causa la restituzione all’imprenditore di somme che lo Stato aveva illegittimamente da lui preteso. Qui di seguito, si ripropone una disamina delle principali pronunce in materia[21], sino alla successiva sentenza della Cassazione del 2003 che ha, per la prima volta, fatto applicazione di quanto stabilito dalla Consulta.

 

ORDINANZE n. 651 del 1988 e n. 172 del 1989

 

Nel 1988 viene sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, primo e secondo comma, del d.l. 30 settembre 1982, n. 688 (Misure urgenti in materia di entrate fiscali), convertito in legge 27 novembre 1982, n. 873, dalla Corte d'Appello di Genova che sosteneva il contrasto di tale disposizione con gli artt. 3 e 24 Cost. nella parte in cui subordinava, con effetto retroattivo, la ripetizione di alcuni tributi indebitamente versati alla prova documentale che l'onere non fosse stato in alcun modo trasferito su altri soggetti.

Al riguardo, la Corte costituzionale ha richiamato gli atti preparatori del Senato in cui si afferma che la disposizione impugnata é stata emanata allo scopo di “evitare l'indebita locupletazione degli operatori economici, i quali, avendo, come di regola, già trasferito sui successivi acquirenti anche gli oneri per tributi che, poi, a distanza di tempo, risultino non dovuti, indubbiamente verrebbero a conseguire un lucro se potessero ugualmente ottenere il rimborso> e ancora, <poichè al rimborso si dovrebbe far luogo, ovviamente, a carico del bilancio statale, e quindi della collettività, si avrebbe, se si consentisse l'indiscriminato rimborso, l'effetto di porre a carico di detta collettività, e quindi dei singoli, oneri che questi hanno già subito, avendo già pagato i prodotti ad un prezzo comprendente il rimborso anche di quegli oneri…”.

Tenuto conto della suddetta ratio, la Corte ha ritenuto che la presunzione stabilita dal  legislatore, fosse ragionevole, secondo le regole di comune esperienza,  mentre i suoi effetti, consistenti nel porre a carico del solvens l'onere probatorio della mancata traslazione, non ledessero il diritto di agire in giudizio (art. 24 Cost.).

Al riguardo, la Corte Costituzionale ha distinto tra orientamento giurisprudenziale formatosi in relazione a tributi rilevanti nell'ordinamento comunitario e parametri costituzionali.

Relativamente ai tributi che non hanno rilievo comunitario, la Corte non ha ritenuto che  la previsione di una prova documentale a carico delle imprese potesse compromettere o vanificare l'esercizio del diritto di azione, anche in relazione a fattispecie createsi in epoca anteriore all'entrata in vigore della norma. La Corte ha rilevato altresì che ai fini della dimostrazione della mancata traslazione non si richiedeva un documento specifico ma le scritture dalle quali il fatto da provare potesse dedursi anche indirettamente.

Per quanto attiene alla lamentata lesione del principio di eguaglianza, la Consulta ha rilevato che la ratio, perseguita dalla norma, di evitare l'arricchimento senza causa di alcuni operatori economici a danno della collettività, si giustificherebbe in relazione a quei tributi, per i quali, attesa la loro peculiare natura, il fenomeno della traslazione costituirebbe un'evenienza normale nella prassi dell'economia di mercato.

La Corte cosituzionale ha affermato infatti che “i tributi individuati dal legislatore nella norma impugnata si caratterizzano appunto per una particolare attitudine ad essere trasferiti su altri soggetti, e quindi per lo scarso grado di probabilità che l'indebito possa restare definitivamente a carico del patrimonio di chi lo ha corrisposto”.

Alla luce di tali considerazioni, il 9 giugno 1988 è stata emessa ordinanza di rigetto della suddetta questione di legittimità costituzionale.

A distanza di un anno dalla suindicata pronuncia, la Corte è nuovamente chiamata a pronunciarsi sull’incostituzionalità della suddetta norma per contrasto con gli artt. 23 e 24 Cost., a causa dell’applicazione retroattiva di tale disposizione, e con l'art. 3 Cost., per ingiustificata disparità di trattamento tra i casi regolati dalla norma censurata e il generale istituto della ripetizione dell'indebito. Con ordinanza n. n. 172 del 1989, la Corte Costituzionale ha rigettato la questione, richiamandosi alla precedente decisione e osservando che per il rimborso dei tributi indebitamente riscossi in violazione del diritto comunitario valevano principi diversi che la stessa Consulta non era competente a sindacare, data l’autonomia degli ordinamenti italiano e comunitario.

 

3.3 SENTENZA N. 114 DEL 2000

 

Con sentenza n. 114 del 2000, la Corte costituzionale ha rivisto, sebbene parzialmente il suo orientamento proprio alla luce del diritto comunitario, dichiarando incostituzionale la necessità legislativamente imposta della prova documentale per ottenere il diritto al rimborso.

Tale decisione trae l’origine da una causa intentata da imprese operanti nel settore siderurgico che lamentavano la mancata restituzione di imposte addizionali all’imposta erariale di consumo sull’energia elettrica. Le imprese affermavano l’irragionevolezza della presunzione di traslazione di cui all’art. 19 del d.l. n. 688 del 1982, dato che nel loro caso il  trasferimento sull’acquirente di un aumento dell’imposizione fiscale era preclusa dalle logiche dell’economia di mercato e della  concorrenza. Inoltre, considerato il particolare tipo di imposizione tributaria di cui si trattava, gravante sull’energia elettrica usata nel processo produttivo, le imprese trovavano impossibile fornire la prova documentale richiesta dalla norma stessa dato che dal mero esame della documentazione contabile dell’imprenditore non si sarebbe potuta evincere l’incidenza dell’imposta su ciascuna unità di prodotto.

La Corte Costituzionale  ha ribadito, in generale, che la mera inversione dell’onere della prova non è di per sé in contrasto con l’art. 24 Cost., ma ha ritenuto incostituzionale la necessità della prova documentale della mancata traslazione di un’imposta, data la difficoltà di reperire un documento contenente la diretta rappresentazione di un tale fatto negativo.

3.4 SENTENZA N. 332 DEL 9 LUGLIO 2002

Con sentenza n. 332 del 9 luglio 2002 è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 19, comma 1, d.l. 30 settembre 1982, n. 688 (Misure urgenti in materia di entrate fiscali), convertito, con modificazioni, in legge 27 novembre 1982, n. 873, nella parte in cui prevedeva che fosse l'attore in ripetizione a dover provare che il peso economico dell'imposta non era stato in qualsiasi modo trasferito su altri soggetti, sollevata dalla Corte d'Appello di Genova, in riferimento all'art. 3 Cost.

Tale decisione segue quella sopra accennata del 2001 in cui la Consulta aveva offerto uno spiraglio in tal senso, affermando che non era stata investita della questione sotto il profilo del contrasto con l’art. 3 della Costituzione.

In sostanza, il giudice a quo ha rilevato che il diverso trattamento per quanto riguarda la restituzione di  tributi percepiti dallo Stato ma non dovuti, a seconda che riguardasse tributi comunitari ai sensi dell’art. 29 della legge n. 428/1990 o che avvenisse secondo il più restrittivo regime della norma incriminata non sarebbe affatto giustificato.

In effetti, per i tributi con "esclusiva rilevanza nazionale" l’onere della prova della mancata traslazione a terzi gravava, ex art. 19, D.L. 30 settembre 1982, n. 688, sul contribuente, mentre nel caso di tributi "a rilevanza comunitaria" detto onere spettava alla pubblica amministrazione.

La Corte ha dichiarato l’incostituzionalità della norma partendo dal presupposto che “la traslazione dell'imposta, in quanto fatto impeditivo del diritto alla ripetizione, dovrebbe essere opponibile solo in via di eccezione dall'accipiens (art. 2697 c.c.).

La norma impugnata, invece, onerando il solvens della prova (negativa) della mancata traslazione dell'imposta ha operato una inversione legale dell'onere della prova lesiva del generale canone di ragionevolezza garantito dall'art. 3 Cost.”

Secondo i giudici costituzionali, tale inversione ha avuto come unico scopo quello di attribuire all'amministrazione finanziaria convenuta con l'azione di ripetizione una posizione di particolare vantaggio in sede probatoria. “Privilegio del tutto ingiustificato ove si consideri che l'amministrazione è l'accipiens di un pagamento non dovuto che in quanto tale dovrebbe essere, in base ai principi generali, restituito.”

Tale pronuncia ribalta compiutamente, anche sotto il profilo argomentativo, il precedente orientamento, passando dalla valorizzazione delle esigenze dell’amministrazione ad una maggiore sensibilità per quelle delle imprese. Emerge che la presunzione di traslazione del tributo non dovuto  risulta in contrasto con il principio di eguaglianza e con la logica economica tout court, sia essa riferita tanto al mercato italiano quanto a quello comunitario.

3.4.1. Sentenza Corte di Cassazione, sez. Tributaria, 19 agosto 2003, n. 12185

La Corte di Cassazione si adegua finalmente ai principi statuiti dalla Corte costituzionale e cassa la predente decisione assunta dai giudici di merito che avevano negato la richiesta di rimborso delle imposte erariali di consumo di energia elettrica illegittimamente riscosse nei confronti di un’impresa per il fatto che quest’ultima avrebbe mancato di fornire la prova documentale della mancata traslazione dell’imposta su altri soggetti, pur avendo invano chiesto ai giudici di Appello di ammettere la consulenza tecnica d’ufficio a fini probatori.

La Corte di Cassazione ripercorre le precedenti decisioni della Corte costituzionale, affermando che il richiedente ha diritto di  ripere il  tributo indebitamente versato, a meno che l'amministrazione riesca a provare che il peso economico corrispondente sia stato trasferito dal 'solvens' su altri soggetti.

4. IL PRINCIPIO DI EFFETTIVITÀ (SINO ALL’ART. 47 DELLA CARTA DI NIZZA)

 

Nel corso degli anni, la Corte di giustizia ha fatto ampio ricorso ai principi generali che formano il c.d. diritto comunitario non scritto, al fine di assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato (art. 220 Trattato Ce).

Tali principi, ricavati secondo vari metodi (logica, deduzione dal sistema comunitario, derivazione da principi comuni a diversi ordinamenti degli Stati membri) servono soprattutto a colmare delle lacune. Il sistema comunitario, infatti, conosce la particolarità sia di essere sprovvisto di un potere coercitivo autonomo, sia di dover considerare beni giuridici che prima appartenevano solo agli Stati membri.

Tra tali principi non scritti, qui si segnalano il principio di effettività ed il principio dell’effet utile, perché appaiono complementari ed entrambi rivestono un ruolo molto importante nella costruzione dell’ordinamento comunitario.

Il principio dell’effet utile stabilisce che nell’interpretazione di una norma si deve preferire quella che consenta alla medesima di raggiungere più compiutamente i suoi effetti. La Corte di Giustizia se ne è soprattutto servita per arrivare all’affermazione dell’efficacia diretta di direttive e decisioni e impedire agli Stati membri di legiferare in maniera non conforme agli scopi comunitari[22].

Il principio di effettività si afferma in una fase successiva di consolidamento dell’ordinamento comunitario in cui si avverte l’ulteriore esigenza di evitare che gli Stati membri, attraverso le decisioni delle loro amministrazioni pubbliche o delle corti nazionali, di fatto impediscano ai cittadini o ostacolino l’esercizio dei diritti di matrice comunitaria.

La giurisprudenza in materia scaturisce da un approccio pragmatico alla problematica dell’osservanza del diritto comunitario che non può dipendere tanto dal formale recepimento delle leggi nazionali, quanto  da una effettiva ed uniforme applicazione. In altri termini, un diritto attribuito ad un singolo dall’ordinamento comunitario esiste solo se e nella misura in cui ne è garantito l’esercizio attraverso un sistema di rimedi adeguati. Altrimenti, attribuire ad un cittadino comunitario la titolarità di una facoltà giuridica svincolata dalla garanzia di tutela effettiva della stessa contro chiunque ne ostacoli l’esercizio (legislatore, amministrazione nazionale, giudici, privati), svilisce l’essenza dello stesso ordinamento comunitario.

Il primo riconoscimento di tale principio risale alla sentenza Johnston[23] del 1986, in cui la Corte di giustizia sancisce che l’effettività della tutela giurisdizionale si fonda sulle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e sull’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950. Tuttavia, la Corte non si allinea all’interpretazione tradizionale e garantista in senso formale che circoscrive tale diritto alla facoltà del singolo di adire un tribunale e di godere di determinate garanzie di procedura. I giudici comunitari, infatti, ne danno un’interpretazione sostanzialistica: diventa diritto “a che il giudizio concretamente instaurato trovi il suo sbocco in un provvedimento di tutela idoneo ad assicurare la piena soddisfazione dell’interesse azionato”[24].

Nell’importante sentenza Factortame del 1989[25], la Corte di giustizia si pronuncia contro il principio di common law secondo cui al giudice non era consentito emanare provvedimenti cautelari (interlocutory injunctions) nei confronti del Governo, affermando che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare tale norma nel caso in cui il singolo che vanti un diritto di origine comunitaria nei confronti dell’autorità nazionale, possa subire un pregiudizio anche solo a titolo provvisorio. Così facendo, introduce nel sistema dei rimedi britannici una forma di tutela prima inesistente, consentendo al giudice nazionale che ha sospeso il procedimento interno in attesa della decisione della Corte di Giustizia ai sensi dell’ex art. 177 del Trattato CE, di adottare  provvedimenti provvisori a tutela dei singoli, ivi compresa la sospensione dell’esecuzione dell’atto amministrativo ritenuto in contrasto col diritto comunitario.

Nella successiva sentenza Zuckerfabrik del 1991[26], i giudici di Lussemburgo si pronunciano su una questione specularmente opposta alla precedente, consentendo al giudice nazionale di sospendere provvisoriamente l’esecuzione di un atto amministrativo adottato in esecuzione di un regolamento comunitario di cui si contestava la validità ai sensi dell’ex art. 189 del Trattato CE. In questo caso, infatti, la corerenza del sistema richiedeva di consentire l’adozione di rimedi provvisori tali da evitare la lesione dei diritti dei singoli derivante da una norma comunitaria di dubbia legittimità. I giudici  di Lussemburgo stabiliscono anche le condizioni sostanziali per approntare una tale tutela, in modo da garantire l’uniforme applicazione da parte dei giudici degli Stati membri[27].

Le pronunce comunitarie in tema di rimedi adeguati hanno determinato un cambiamento anche delle norme amministrative di Paesi come l’Italia in cui la tutela dei singoli nei confronti dello Stato era tradizionalmente meno incisiva, introducendo tramite la l. 205/2000 sia un sistema di provvedimenti cautelari, sia la tutela risarcitoria degli interessi legittimi dinanzi al giudice amministrativo. Come giustamente rilevato, prima della riforma del 2000, dettata dall’adeguamento ai criteri di effettività richiesti dai giudici comunitari (e, nel settore degli appalti, anche imposto legislativamente), è stata per la prima volta disciplinata in maniera generale la possibilità del giudice amministrativo di adottare provvedimenti di condanna[28].

In alcune decisioni, la Corte di giustizia ha fatto uso del principio di effettività anche in materia dei diritti dei lavoratori, pronunciandosi sull’adeguatezza dei rimedi nazionali di natura risarcitoria ad essi offerti. Le direttive 76/207, 75/117 e la c.d. Direttiva sulla maternità imponevano tutte agli stati membri di introdurre nei loro sistemi giuridici rimedi adeguati al fine di garantire la tutela dei diritti di non discriminazione in esse contenuti. Nella sentenza Marshall 2[29], la Corte ha statuito la contrarietà al diritto comunitario di una norma inglese che prevedeva un limite massimo al risarcimento e l’esclusione degli interessi nel caso di licenziamento discriminatorio, in quanto tale disposizione non consentiva una integrale riparazione del danno subito dal lavoratore. In tale caso, la Corte aveva statuito che il risarcimento doveva essere pieno e includere il pagamento degli interessi sino al momento della sentenza. Il carattere retroattivo di tale decisione della Corte di giustizia e l’entità dei risarcimenti avevano determinato serie conseguenze finanziarie per i datori di lavoro pubblici britannici. Negli ultimi anni, la Corte di giustizia è sembrata pronta a riconoscere alucni limiti all’entità dei risarcimenti[30].

Come sottolineato nei precedenti paragrafi, la Corte di giustizia ha affermato il principio di effettività anche in relazione ai rimedi di natura restitutoria. Oltre ai casi già citati nei paragrafi precedenti, la Corte si è pronunciata in riferimento a termini di prescrizione o decadenza irragionevolmente brevi in rapporto a ciascun diritto o ciascuna categoria di diritti fatti valere. Nella sentenza Preston[31] del 2000 la Corte ha affermato la necessità che le norme nazionali in materia di prescrizione o decadenza non annullino “l’essenza stessa dei diritti”.

Infine, si rammenta che il principio di effettività trova la sua maggiore elaborazione nell’art. 47 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza nel dicembre 2000.

La Carta non ha valenza di costituzione o di dichiarazione di diritti,  come quelle scaturite dalle rivoluzioni del passato o dalle democrazie del dopoguerra. La Carta di Nizza costituisce un testo ricognitivo di importanza storica, in quanto contiene in forma solenne il patrimonio già acquisito all’interno della Comunità e dei suoi Stati membri, nel cammino di costruzione di un ordinamento comune europeo.

L’ar. 47 statuisce  che:

“ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo:

ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente e entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare,

a coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello stato qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia”.

Il diritto ad un ricorso effettivo enunciato nel primo comma costituisce l’innovazione più evidente, mutuata dalla giurisprudenza comunitaria, ed esprime la necessità che l’ordinamento disponga di rimedi procedimentali e di mezzi tali da garantire in modo sostanziale la tutela delle situazioni giuridiche soggettive di origine comunitaria.

Anche al di là della sfera propria del diritto comunitario, si ritiene che il principio di effettività rappresenti un principio da recepire, in quanto esso pone l’accento sulle esigenze di giustizia sostanziale sottese alle regole dell’ordinamento. Tale fine deve essere comunque realizzato, mentre molto spesso viene solo incidentalmente raggiunto a causa della formale osservanza di procedure talvolta capziosamente ostraciste. Obiettivo ultimo del giurista non è interpretare le norme in maniera asettica, quasi vivessero avulse dal contesto vivente[32], ma, se necessario, interpretarle in modo da garantire a favore dei singoli una tutela adeguata dei loro diritti. Questo è un tema molto delicato che coinvolge, a ben vedere il sistema sociale di un Paese, dato che rimedi adeguati incidono sui comportamenti dei cittadini e sulla struttura delle stesse istituzioni. I sistemi che offrono una tutela adeguata ai loro cittadini sono quelli dove ci sono regole chiare e valori condivisi da far rispettare. Pertanto, l’effettività richiama anche il problema dell’uguaglianza, della trasparenza e della chiarezza delle regole e dei valori preponderanti ad esse sottesi…ma questi sono temi che meritano ben altro spazio di riflessione.

Note:

[1] Sentenza della Corte di giustizia, C- 129/00, reperibile sul sito www.curia.eu.int

[2] Il Trattato Ce proibisce l’imposizione da parte degli Stati membri di tasse doganali o misure di effetto equivalente (art. 23 del Trattato) e qualsiasi regime di tassazione che discrimini in base alla nazionalità. Già negli anni sessanta la Corte aveva affermato, nel contesto di una violazione di una norma del trattato CECA, che gli Stati membri erano tenuti a riparare a tali violazioni, restituendo i tributi indebitamente percepiti (Sentenza Humblet c. Belgio, causa  6/60, Express Dairy Foods Ltd. C. Intervention Board for Agricultural Produce, causa 130/79). Per un esempio di tali tributi indebitamente percepiti, si pensi ai c.d. "diritti di visita sanitaria" prelevati all’importazione di beni commestibili quali uova, carni, miele, latticini ed altri generi alimentari specificati nella tabella allegata alla legge 30 dicembre 1970, n. 1239, abrogati dalla legge 14 novembre 1977, n. 889; sul tema cfr. sentenza Corte Costituzionale n. 113/1985.

[3] Gli altri casi, segnalati dall’avvocato generale Geelhoed nelle sue conclusioni, sono Köbler, sentenza del 30 settembre 2003, C-224/01, e Kühne & Heitz, sentenza del 24 gennaio 2004, C-453/00. Entrambi si sono conclusi, non riconoscendo la gravità della violazione rispettivamente degli organi giudiziari austriaci e dell’amministrazione olandese.  Nel primo, i giudici comunitari, pur riconoscendo che l’attribuzione ai soli professori universitari in servizio in Austria dell’indennità speciale di anzianità fosse incompatibile con il diritto comunitario e non giustificata, hanno escluso il carattere manifesto della violazione da parte della Corte austriaca che aveva negato tale indennità al prof. Köbler per il fatto che nel caso specifico non vi erano state pronunce comunitarie che facessero ritenere manifestamente erronea la valutazione dei giudici austriaci. Preme sottolineare che qui la Corte austriaca viene di fatto “graziata” dalla Corte comunitaria, dal momento che lo stesso giudice nazionale aveva sollevato sul punto una questione di interpretazione alla Corte di giustizia e poi l’aveva ritirata. Il precedente nel frattempo elaborato dalla Corte era contrario alla concessione dell’indennità di servizio ai professori che avessero maturato una determinata anzianità di servizio solo in Austria. Tuttavia, la Corte austriaca aveva deciso di negare il diritto al richiedente, giustificando tale decisione in maniera un po’ forzata.

[4] Secondo i precedenti relativi alla responsabilità dello Stato in caso di violazione del diritto comunitario Francovich c. Italia (causa C- 6 & 9/90 e Brasserie du Pêcheur SA c. Germania e R c. Secretary of State for Transporti, ex parte Factortame (cause C-46 & 48/93). La sentenza Francovich costituisce l’espressione più compiuta del principio di effettività, in quanto sancisce la resonsabilità degli Stati membri per omessa, incompleta o non corretta applicazione del diritto comunitario, offrendo al singolo una tutela di tipo risarcitorio. Le condizioni per una tale tutela sono state esplicitate anche in ulteriori pronunce della Corte, tra cui, Brasserie du Pêcheur in cui, la Corte di Giustizia precisa che la responsabilità dello Stato sussiste in presenza di qualsiasi violazione di diritto comunitario dovuta ad atti o omissioni del potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Tuttavia, in materie in cui lo Stato memrbo dispone di rilevante discrezionalità nell’adottare i propri atti, occorre che la violazione degli obblighi comunitari sia seria e manifesta. La Corte indica quando ricorrano tali condizioni: lo Stato deve aver gravemente e manifestamente ecceduto i limiti della sua discrezionalità, l’errore non deve essere scusabile, la discrezionalità dello Stato va  valutata in relazione alla chiarezza e vincolatività delle disposizioni di diritto comunitario, si deve tener conto della durata e sistematicità di misure o prassi incompatibili col diritto comunitario o dell’adozione di eventuali atti presi dallo Stato atti a riparare alla violazione (paragrafo 56 della sentenza).  Sul tema cfr. J. Steiner – L. Woods, Textbook on EC Law, 6th Edition, Blackstone press Limited, p. 63 ss. e A. Saggio, La responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario, in: Danno e responsabilità n. 3/2001.

[5]  Nella sentenza Köbler, del 30 settembre 2003, C-224/01, la Corte di Giustizia definisce, proprio con riferimento alle violazioni poste in essere dal potere giudiziario, che la responsabilità sussiste soltanto nei casi in cui l’organo giurisdizionale abbia violato in maniera manifesta il diritto comunitario vigente e la giurisprudenza della Corte. Inoltre, è stato precisato che spetta all’ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro designare il giudice competente a risolvere le controversie relative a detto risarcimento e a determinare i casi in cui vi sia stata una violazione manifesta del diritto comunitario. Secondo la Corte di Giustizia, nel caso austriaco tale violazione non era manifesta, dato che la questione risolta dai giudici austriaci non era stata previamente affrontata dai giudici comunitari e pertanto non era evidente il contrasto col diritto comunitario.

[6] per una disamina dei suddetti casi, si rinvia alla successiva sezione.

[7] Sentenza 14 gennaio 1997, cause riunite da C-192/95 a C-218/95 (Racc. pag. I-165, punto 25).

[8] Sentenza 9 febbraio 1999, causa C-33/96,Racc. pag. I-579, par. 52.

[9] In proposito, la Commissione ha mostrato l’esiguità di tali somme rispetto all’ importo totale dei casi di  rimborso, affermando altresì che il “principio di effettività sarebbe rispettato solo se i casi di rigetto delle domande di rimborso fossero eccezionali” e che “ l’esercizio dei diritti derivanti dal trattato non può essere ostacolato da misure generali motivate da una presunzione di abuso di diritto”, cfr. par. 18 della decisione.

[10] Sentenza 5 maggio 1970, causa 77/69, Commissione c. Belgio, Racc. p. 237, punto 15.

[11] Cfr. par. 32 della decisione.

[12] Cfr. par. 28 della decisione.

[13] La Corte ha richiamato gli argomenti addotti dall’Avvocato Generale per confutare la veridicità di una tale presunzione, in quanto contraria, prima ancora che al diritto comunitario, alla logica economica del libero mercato. Per l’avvocato Generale Geheloed “…è praticamente impossibile accertare la misura del trasferimento dell'onere economico conseguente al tributo. A tal fine è necessaria un'analisi di mercato molto approfondita, che tenga conto di un gran numero di variabili, come la struttura del mercato di cui trattasi (molti o pochi offerenti) e la possibilità di sostituire il prodotto colpito dall'onere fiscale. Si deve anche prendere in considerazione il fatto che le situazioni di mercato sono di natura dinamica e che i prezzi fluttuano in funzione di cambiamenti della domanda e dell'offerta. (…) Alla luce di tali circostanze è chiaro che una norma di legge, come l'art. 29, secondo comma, della legge n. 428/1990, la quale assuma la traslazione dell'onere fiscale come criterio esclusivo per accertare se il rimborso dia luogo ad un arricchimento indebito, non tiene conto della realtà economica. (…) Dalle considerazioni precedenti risulta con chiarezza che il trasferimento del danno economico prodotto da un onere fiscale non è affatto automatico e che anche quando il tributo è contabilizzato il rimborso non porta sempre ad un arricchimento. Su questo punto cito volentieri le conclusioni presentate dall'avvocato generale Tesauro nella causa Comateb, conclusioni in cui si legge che «anche a voler ammettere che in qualche caso il singolo operatore economico tragga un beneficio a seguito della restituzione di un tributo indebitamente pagato, tributo che aveva parzialmente o totalmente ripercosso a valle, resta da chiedersi se si possa, in tale ipotesi, ragionevolmente utilizzare la nozione di arricchimento senza causa. La mia risposta è, già sul piano della teoria giuridica generale, negativa: non ritengo infatti che possa essere correttamente qualificato come arricchimento senza causa il beneficio derivante per il singolo dalla restituzione di un tributo illegittimamente preteso e riscosso dall'amministrazione».” (par. 71 e ss. delle conclusioni).

[14] Cfr. par. 37 della decisione.

[15] Cfr. par. 40 della decisione.

[16] Causa 199/82, San Giorgio, Racc. pag. 3595, pag. 13.

[17] Causa 104/86, Commissione c. Italia, Racc. pag. 1799.

[18] Causa C-228/96, sentenza del 17 novembre 1998.

[19] Causa C-343/96, Racc. pag. I-579.

[20] Causa C-255/00, sentenza del 24 settembre 2002

[21] sul tema in generale dei rimborsi e dell’incostituzionalità delle norme si veda il commento di C. D. Mastrorosa e F. Riccio alla sentenza Corte costituzionale 9 luglio 2002, n. 332 “Indebito versamento di imposte e diritto alla ripetizione” ( pubblicato sul web all’indirizzo http://lalegge.ipsoa.it) e la giurisprudenza e dottrina ivi richiamate.

[22] T. Ballarino, Manuale di diritto dell’Unione Europea, Cedam, 2001 p. 210 ss.

[23] sent. 15 maggio 1986, C.222/86,  in Racc. 1986, p. 1663 ss., il caso riguarda una legge britannica che discriminava le donne appartenenti al corpo di polizia reale dell’Ulster, le quali non potevano essere impiegate a tempo pieno ed  essere autorizzate all’utilizzo delle armi, in quanto attività troppo pericolose per le donne. La signora Johnston aveva perso il lavoro in tale corpo di polizia, per ragioni discriminatorio. Nel corso della causa nazionale era stata sollevata una questione pregiudiziale attinente all’interpretazione della direttiva 76/207 contro la discriminazione.

[24] N. Trocker, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ed il processo civile, in Riv. Trim. dir. proc. Civ., 2002, p. 1197.

[25] Sent. 19 giugno 1990, C-213/89, in Racc. 1990.

[26] Sent. 21 febbraio 1991, C-143/88.

[27] Per accordare una tale tutela, il giudice nazionale deve verificare che: sussitano gravi dubbi sulla validità dell’atto comunitario, dalla mancata disapplicazione derivi un pregiudizio grave irreparabile, sia considerato l’interesse generale comunitario (in prevalenza rispetto a quello nazionale).

[28]  Sul tema cfr. N. Trocker, op. cit., pp. 1201 – 1204 e note; E. Grimaldi, Il Diritto comunitario e la trasformazione del sistema di giustizia amministrativa in Italia, in www.filodiritto.com che sottolinea il superamento della visione del processo amministrativo in Italia alla luce della dicotomia libertà/autorità e  della concezione “ microgiuridica” di tale dicotomia fondata sulla situazioni giuridiche soggettive dei singoli, sostituita da una concezione “macrogiuridica”, fondata su valori della collettività (ambiente, dignità dell’uomo, ecc.).

[29] Ord. 14 ottobre 1991, C-271/91, in Racc. 1991.

[30] Causa R. contro Secretary of State for Social Security ex parte Sutton, C- 66/95.

[31] Sent. 16 maggio 2000, C-78/99, in Racc., 2000, p. 3201 ss.

[32] cfr. M. Lupoi, Stop ai dubbi su un istituto fondato sulla trasparenza, in Il sole 24ore del 14 ottobre 2003, p. 28 che commentava in merito al riconoscimento in una sentenza del Tribunale di Bologna della validità dei trust interni, “...il nostro ordinamento è sclerotizzato, provinciale, ripiegato su se stesso. Esistono tanti professori di diritto, - ma, per buona sorte, pochi giudici – che fanno del diritto un gioco logico, ignaro dei valori e tanto più puro quanto più sia lontano dalla realtà.