*** Il problema dell’uso della forza nelle relazioni fra Stati costituisce da sempre un punto nevralgico fondamentale nell’ambito del diritto internazionale, risolto solo in parte dalla dottrina che da secoli si affanna a ricercarne le basi concettuali sulle quali tentare di ricostruirne i necessari limiti. La norma generale sul divieto dell’uso della forza internazionale si è formata solo in epoca recente, intorno al periodo fra le due guerre mondiali ( è ritenuta appartenente anche allo jus cogens ). Essa proibisce qualunque atto bellico extrastatuale che possa ledere la sovranità di Stati terzi e, quindi, tutte quelle attività militari che sarebbero così qualificabili. Lo stesso articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite ha fatto proprio questo principio, affermando anche il dovere dei componenti della Comunità internazionale di ricorrere a mezzi di risoluzione pacifica per tutte le controversie insorte fra di loro. Il principio sul divieto della forza armata tuttavia non è onnicomprensivo e valido per ogni caso concreto, in quanto, ancora rimangono delle situazioni in cui essa può essere impiegata lecitamente. Lo stesso Statuto delle N.U., agli art. 51 e 42 e seg., contempla le ipotesi di possibile uso della violenza bellica: la legittima difesa quale risposta di un attacco esterno, e le misure di repressione di atti di minaccia o di rottura della pace che intraprende il Consiglio di sicurezza nella sua funzione di “polizia internazionale”. La prima ha la stessa struttura delle rappresaglie, ma si differenzia da esse in base al suo carattere meramente difensivo e non afflittivo, e per la mancanza dell’obbligo del previo esaurimento dei mezzi pacifici di soluzione delle controversie. Le azioni attuabili secondo il disposto degli art. 42 ss. sono invece di natura collettiva, poiché eseguibili in pratica da più membri dell’O.N.U. sotto la guida del Consiglio di sicurezza. Parte della dottrina include altre ipotesi di liceità dell’impiego di forza internazionale oltre i casi suddetti, ma, in linea di massima, si tratta di vicende secondarie ed in buona parte obsolete ( si fondano sugli art. 53 e 107 della Carta, e sulla fattispecie della garanzia alla “neutralità permanente” ). In tale contesto giuridico si sono operati numerosi tentativi finalizzati a trovare una stabile definizione di aggressione, che appare estremamente importante per un duplice aspetto: essa può colmare la lacuna dell’art. 2 della Carta delle Nazioni Unite, stabilendo così, per il futuro, quali siano i casi di illecito uso della forza, ed impedisce inoltre che si facciano in proposito fraudolente interpretazioni arbitrarie sul disposto in esame, allo scopo di eludere la conseguente responsabilità internazionale. Dopo molti dibattiti, solo nel 1974 si è arrivati alla stesura di un testo ( la risoluzione dell’Assemblea generale n° 3314 adottata senza voto ), contenente appunto la nozione esplicita di aggressione. Il suo successo, però, è rimasto purtroppo limitato dalla stessa volontà degli Stati e soprattutto del Consiglio di sicurezza, che ha sempre cercato di risolvere i casi sottopostigli senza il vincolo di elencazioni fisse e tassative. La questione dell’illiceità o meno dell’uso delle armi nucleari, chimiche e batteriologiche, trova fondamento nella disciplina giuridica sul divieto di ricorso alla forza armata ed alle sue eccezioni, per poi svilupparsi, a livello convenzionale, in maniera del tutto autonoma. Quanto alle armi nucleari, ossia quelle che sfruttano il processo di fissione dei nuclei od anche quello della loro fusione, va detto che, attualmente, ne esistono di tipi nuovi. Oltre le vecchie bombe atomiche ed all’idrogeno, si sono aggiunte da pochi decenni quelle “radiologiche” od R, che uccidono gli esseri viventi tramite radiazioni a distanza ( esse esplodono ad alte quote, senza toccare terra ). Inoltre, la tecnologia moderna ha dato alla luce anche le cosiddette armi “a neutroni”, poco differenti da quelle R, nonché tutta una serie di dispositivi ad esplosione combinata spesso dotati di testate multiple, che sviluppano effetti minori rispetto a quelli tradizionali in quanto vengono depotenziati al fine di far loro colpire esclusivamente alcuni obiettivi militari, senza causare troppe vittime ( le cosiddette armi intelligenti “in miniatura” ). Il problema della loro liceità è risolto da quasi tutti i giuristi contemporanei in senso positivo, anche se, non manca una certa dottrina che ritiene che il loro uso sia illecito, o sulla base di talune consuetudini internazionali, o sulla base di taluni accordi internazionali di diritto bellico. Se non appare possibile dall’esame della prassi internazionale rilevare l'esistenza di una norma consuetudinaria che vieti direttamente l’uso dell’arma nucleare, anche a livello di diritto convenzionale i risultati dell’indagine non possono che essere negativi. Non sembra, infatti, che la Dichiarazione di San Pietroburgo del 1868 e le Convenzioni dell’Aia del 1899, concluse allo scopo di ridurre strumenti bellici causativi di sofferenze inutili, costituiscano i precetti giuridici tali da intaccare direttamente la possibilità di utilizzo degli armamenti atomici. Analoghe considerazioni valgono per le successive Convenzioni dell’Aia del 1907, che proibiscono tra l’altro l’impiego di esplosivi da parte di aerostati e mezzi similari, compresi quelli di sviluppo futuro, che pure sono state prese in considerazione per via della loro connessione con i vettori di attuale fabbricazione bellica ( quindi missili A od H ), i quali sarebbero così ricompresi nella sfera d’applicazione convenzionale citata. Ed in questo senso deve essere interpretato il Primo Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 1949, il quale proibisce non solo gli attacchi indiscriminati, ma anche quelli che possano recare danni estesi all’ambiente naturale; si tratta di due principi che soltanto indirettamente confermano l’illiceità di un uso di congegni atomici. In epoca più recente, tuttavia, sono stati conclusi nuovi accordi, finalmente disciplinanti in via esclusiva le armi atomiche. Il Trattato di Mosca del 1963, che vieta gli esperimenti nucleari eseguiti nell’atmosfera, sott’acqua e nello spazio extra-atmosferico, ha rappresentato il primo baluardo di una serie di atti che si sono prefissi di limitare in qualche modo la possibilità di armamento non convenzionale dei Paesi ancora non progrediti tecnologicamente. Esso ha avuto un buon successo, ed è stato seguito a breve termine dal Trattato di Londra-Mosca-Washington del 1968 sulla “non proliferazione nucleare”, in parte integrativo di quello del 1963, il quale ha ottenuto un consenso internazionale ancora più vasto ( 181 adesioni nel 1996 ). Lo scopo pratico di questa normativa è consistito nell’impedire la facile diffusione delle armi A ed H, da parte dei loro possessori, agli Stati militarmente convenzionali. Ne sono conseguiti così controlli e limitazioni, tutti gravanti su questi ultimi soggetti internazionali; da ciò le numerose critiche che le sono state rivolte da gran parte dell’opinione politica mondiale. Nel 1971 si sono avvicendati alcuni accordi sulla limitazione dei sistemi missilistici balistici e d’offesa: il Trattato di Londra-Mosca-Washington del 1971 che vieta di collocare tali armamenti in mare e nel sottosuolo, quelli di Washington firmati da Stati Uniti ed U.R.S.S. del 1971 e 1972, revisionati nel 1974 ( tutti denominati “SALT I” ), e quelli del 1971 e 1973, sempre conclusi dagli stessi governi delle due Superpotenze, tesi a scongiurare guerre incidentali ed a comunicare eventuali disastri atomici verificatisi sui loro territori. Il SALT II, firmato nel 1979, non è stato mai ratificato, ed in quegli anni, si sono avuti solo altri due trattati riguardanti tale settore, entrambi stabilenti il limite massimo di 150 chilotoni per le esplosioni nucleari sperimentali e pacifiche ( PNET ). Il 1987 ha visto la conclusione dell’INF ( Intermediate Nuclear Forces ) concernente la riduzione degli arsenali strategici, a cui sono succeduti i Trattati START I ( 31 luglio 1991 ) e START II ( 3 gennaio 1993 ) aventi il medesimo obiettivo politico. L’ultimo passo in avanti è stato compiuto con la stipula del tanto atteso “Trattato per il divieto completo dei test atomici” del 10 settembre 1996 ( CTBT ), il quale prevede anche una organizzazione che verifichi gli adempimenti dei contraenti, ma che ancora attende di entrare in vigore a causa del rifiuto di aderire di molti Stati nucleari dell’ultima generazione, quali l’India, Israele e Pakistan. Nell’elencazione riportata, un posto a parte va riservato a quelle convenzioni multilaterali che hanno reso alcune zone geografiche mondiali del tutto denuclearizzate ( cioè senza la possibilità di istallarvi o usarvi basi ed armi atomiche ). Esse sono: il Trattato di Washington sul regime giuridico dell’Antartide del 1959, quello di Tlatelolco del 1967 sulla neutralizzazione dell’America latina, ed il Trattato di Rarotonga del 1985, riguardante a sua volta il Pacifico meridionale. La maggior parte di tali normative internazionali non ha avuto un buon seguito per via delle poche adesioni o per le numerose violazioni fatte loro negli anni, e come si può notare facilmente, in esse manca del tutto un espresso divieto di uso dell’arma atomica, che risulta così ancora lecita. I limiti posti sono risultati vaghi, ed i controlli sono stati di frequente elusi nella pratica ( spesso eseguiti dall’A.I.E.A., l’Agenzia atomica internazionale, che soffre di varie carenze funzionali ed organizzative ). Nel luglio 1996, la Corte internazionale di giustizia ha emesso due pareri di diversa importanza, che hanno portato un po’ di luce sulla questione della possibilità dell’utilizzo di armi nucleari in guerra. Essa ha ritenuto di non poter concludere definitivamente riguardo la liceità o l’illiceità dell’impiego di tali mezzi di distruzione di massa, ma solo con riferimento esclusivo “al caso di uno Stato che si trovi in una circostanza estrema di legittima difesa nella quale fosse in causa la sua stessa sopravvivenza”. Se da una parte queste proposizioni giudiziali rimangono sibilline ed incerte, dall’altra, grazie ad un prolisso testo espositivo incluso nel secondo parere ( richiesto dall’Assemblea generale ), la C.I.G. può svolgere un’opera influente su tutta la dottrina contemporanea e sulla prassi dei governi mondiali. Dal testo del parere si desume l’inesistenza di una consuetudine internazionale sul divieto dell’uso dell’arma nucleare a causa dell’assenza dell’opinio juris ac necessitatis degli Stati in tal senso. Mentre, come visto, nel settore delle armi atomiche non vi è né un divieto d’uso generale ( almeno secondo gran parte della dottrina ), né uno di carattere convenzionale, in quello degli armamenti batteriologici e chimici la situazione è del tutto opposta. Due trattati di enorme importanza sono intervenuti abbastanza di recente per escluderne la liceità, non soltanto del loro utilizzo bellico, che fu sancito anche dal Protocollo di Ginevra del 1925 ( il primo grande testo a cui i giuristi hanno fatto sempre riferimento ), ma anche della loro produzione e del relativo “stoccaggio”. Per le armi chimiche, è stata firmata a Parigi, il 13 gennaio 1993, la Chemical Weapons Convention, e, per quelle biologiche, la Biological Weapons Convention del 10 aprile 1972, conclusa a Londra, Mosca e Washington. La prima convenzione ha raggiunto 154 firme e 65 ratifiche nel 1997; anno in cui è entrata in vigore. Essa rappresenta tuttora un’eccezione nel campo degli accordi internazionali concernenti gli armamenti, in quanto è l’unica che istituisca un sistema di controlli davvero efficienti, eseguiti sotto la guida e le direttive di una apposita organizzazione, nominata per sigla, OPCW ( che conta oggi più di 300 esperti nel suo personale ). Nel suo testo sono anche stabilite specifiche procedure per lo smaltimento graduale e lo smantellamento strutturale degli arsenali chimici già detenuti dagli Stati-Parte e delle relative fabbriche ed istallazioni. La BWC del 1972 ( che ha ottenuto oltre 130 adesioni nel 1994 ) rimane invece, rispetto alla precedente, ben più scarna di contenuti, e ad un gradino inferiore per quanto riguarda il sistema di controllo dell’adempimento, il quale difetta di enti autonomi supervisori e di efficaci poteri. Proprio per tale motivo, negli anni ottanta e novanta si sono operati alcuni tentativi finalizzati a rafforzarne i contenuti ed a colmarne le lacune, soprattutto per quanto riguarda la mancata menzione degli strumenti batteriologici di invenzione futura; nessuno di essi però ha raggiunto il suo obiettivo felicemente. Comunque, ciò nonostante, i 15 articoli della suddetta convenzione sono riusciti a formare un divieto totale, che, seppur in modo un po’ generico, comprende ogni attività militare concernente queste armi, inclusa la loro produzione e l’immagazzinamento. Taluna dottrina, peraltro, ritiene l’illiceità dell’uso delle armi biologiche e chimiche di natura consuetudinaria, la quale si sarebbe sviluppata a partire dalle prime convenzioni di diritto bellico. Si pensi al Trattato di San Pietroburgo del 1868 ed a tutti i testi dell’Aia del 1899 e del 1907 sul diritto bellico terrestre che interdicono espressamente ogni strumento di lotta che arrechi “mali superflui” o “sofferenze inutili”, cioè tutti quei congegni letali che comportano danni e conseguenze maggiori in rapporto agli obiettivi necessari e prefissati dalle esigenze del conflitto stesso. Per quanto risulti difficile inquadrare in consuetudini e norme così risalenti il divieto di armi tanto nuove e tecnologiche come quelle “biochimiche”, è ormai quasi pienamente assodato dalla comune opinione degli internazionalisti che sia nato un uso normativo che le concerni e le vieti. La relativa diuturnitas verrebbe confermata dalla pratica degli Stati, che, se si eccettuano casi sporadici quali quelli della Guerra del Golfo, di Corea e pochi altri, dimostra come non si siano mai utilizzati simili mezzi in situazioni concrete. L’elemento psicologico, a differenza di quello che si riferisce agli armamenti nucleari, è sorto ormai stabilmente da più decenni, tratto sia dalle Convenzioni del 1972 e del 1993 già esposte, che da tutte le risoluzioni dell’Assemblea generale dell’O.N.U. dell’ultima metà del secolo scorso, le quali rappresentano una chiara prova di quale sia l’attuale visione dei governi mondiali circa la liceità delle armi B e C. Oggi, secondo una certa dottrina, va aggiunto a queste regole consuetudinarie anche il “principio ecologico”, che vieta danni alla natura durante i conflitti. Esso, secondo alcuni autori, si è sviluppato recentemente, ed è espressamente affermato nel Primo Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 1949, all’art. 35. Al di là della dimostrazione dell’esistenza di consuetudini internazionali in materia e delle attuali convenzioni, la prassi internazionale contemporanea è caratterizzata da un continuo sforzo verso il “disarmo”. Con tale espressione si intende qualsiasi attività finalizzata ad eliminare o ridurre gli arsenali esistenti al fine di raggiungere una maggiore sicurezza internazionale. Un tempo, ci si riferiva sempre al concetto di “sicurezza collettiva”, mentre oggi si cerca di ottenere quella di carattere “comune”, cioè di tutti i popoli e non solo di limitati gruppi regionali o di alleanze militari. I mezzi per concretizzare tale sicurezza sono spesso cangianti: in passato si lottava sempre per ottenere uno smantellamento completo degli arsenali; oggi si accetta di più un “controllo degli armamenti”, da realizzarsi tramite i cosiddetti “sistemi stabili di dissuasione”, consistenti in una numerazione del massimo livello raggiungibile, imposta sugli armamenti posseduti dai singoli Stati. Da tale politica ne è scaturito il pluridecennale braccio di ferro della “deterrenza” fra le più grandi Potenze militari contemporanee soprattutto riguardante gli strumenti bellici atomici, che ha visto la nascita di un equilibrio mondiale fondato sul terrore di un eventuale uso nucleare in risposta ad attacchi illeciti sferrati da parte avversa. In questo contesto, si segnala l’attività dell’O.N.U., che ha mirato a creare le basi di una interdizione il più completa possibile. Negli anni, si sono susseguite numerosissime risoluzioni dell’Assemblea generale che hanno trattato tutti i tre tipi di armi esposte, compreso il problema del disarmo che è stato affrontato anche in via generale. Tale organo, già dalla sua prima risoluzione n° 1 del 1946, ha proposto di eliminare tutti i mezzi di distruzione di massa, tra i quali rientrano anche quelli chimici e biologici (come esso ha dichiarato esplicitamente nel 1948 ). Si sono succedute poi, tra le più importanti, le ris. n° 2162 del 1966, tese all’ampliamento della sfera d’efficacia del Protocollo di Ginevra del 1925, la n° 2603a del 1969, che include fra le armi chimiche anche gli agenti defolianti, irritanti, e tutti quelli di futura invenzione, e la n° 37/98d del 1982, sempre riferita al Protocollo ginevrino, avente lo scopo di renderlo universale. Benchè questi atti delle Nazioni Unite non siano vincolanti, la loro presenza e la relativa ripetizione dei principi cui essi si ispirano determinano una certa influenza sui governi dei membri della Comunità internazionale. Tutto ciò dimostra l’interesse prevalente dell’opinione pubblica contemporanea ad un disarmo, che, se per taluni armi non convenzionali, quali quelle batteriologiche e chimiche, appare quasi compiuto, è ben lontano da risultati effettivi per ciò che concerne i mezzi nucleari. Che ancora molto ci sia da fare è d’altronde anche dimostrato da quanto disposto dallo Statuto di Roma della Corte penale internazionale ( 1998 ), nel quale non si è riusciti a qualificare l’uso di armi non convenzionali quale fattispecie concretante un crimine di guerra, rinviando tale determinazione ad un eventuale strumento integrativo futuro nel quale sia inserita l’elencazione di tali armi da vietare. |
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