La tutela dei diritti umani fondamentali nell’ordinamento internazionale e nell’ordinamento comunitario *** di Silvia Giannini Premessa. Le esigenze avanzate in tutti i tempi e in tutti gli ambienti sociali per il miglioramento della condizione dell’uomo sono sfociate nella rivendicazione di libertà e di diritti, sinteticamente individuati come diritti dell’uomo. Il modo e i limiti in cui queste rivendicazioni sono riuscite a trovare soddisfazione nelle diverse comunità sono strettamente legati alla forza e al contenuto che in seno a tali “gruppi organizzati” gli ideali umanitari hanno acquisito come principi di azione politica. Un primo problema da porsi è legato alla natura giuridica da riconoscere a tali diritti: c’è chi li ritiene diritti naturali, spettanti all’uomo in quanto individuo, e in questo senso lo Stato può e deve soltanto riconoscerli, ammettendo così un limite alla sua sovranità. D’altra parte, c’è chi non segue il giusnaturalismo, e sostanzia tali diritti in diritti soggettivi concessi agli individui dallo Stato nella sua autonoma sovranità, che in tal modo si autolimita. Una dottrina intermedia è rappresentata da chi segue il contrattualismo e individua la base giuridica di tali diritti in un contratto, espresso dalla Costituzione, fra le diverse forze politiche sociali e politiche. Tali diritti possono essere classificati in civili, politici e sociali. I primi sono quelli che attengono alla personalità dell’individuo (libertà personale, di pensiero, di religione, di riunione, libertà economica), per cui all’individuo è garantita una sfera di arbitrio o di liceità, purché il suo comportamento non violi il diritto degli altri. I diritti civili obbligano lo Stato a un atteggiamento di non impedimento, a una astensione. I diritti politici (libertà di associazione nei partiti, diritti elettorali) sono collegati alla formazione dello Stato democratico rappresentativo e implicano una libertà attiva, una partecipazione dei cittadini nel determinare l’indirizzo politico dello Stato. I diritti sociali (diritto al lavoro, all’assistenza, allo studio, tutela della salute) maturali dalle nuove esigenze della società industriale, invece, implicano un comportamento attivo da parte dello Stato nel garantire ai cittadini una situazione di certezza. L’originaria impostazione individualistica dei diritti dell’uomo, che esprimeva la diffidenza del cittadino contro lo Stato e contro ogni forma di potere organizzato è stato superata: si è evidenziato come l’individuo sia un essere sociale che vive in un preciso. L’individualismo è stato superato dal riconoscimento dei diritti dei gruppi sociali: particolarmente significativo quando si tratta di minoranze, di esclusi o di emarginati. Sono tutte conseguenze che derivano logicamente dal principio di eguaglianza, visto come motore trainante delle trasformazioni nei contenuti della dichiarazione, e che apre sempre nuove dimensioni ai diritti dell’uomo. Attualmente si lotta in modo diverso per i diritti civili, per i diritti politici, per i diritti sociali, “essi attualmente possono non coesistere, anche se, in via di principio, sono tre specie di diritti, che, per essere veramente garantiti, devono essere solidali”[1]. Le minacce possono venire dallo Stato ma anche dalla società di massa, globalizzata e globalizzante, dalla società industriale, con la sua disumanizzazione. Significativo è che mentre la tendenza del secolo passato sembrava dominata dalla lotta dei diritti sociali, ora si assista a una inversione di tendenza e riprenda la battaglia per i diritti civili.
L’individuo in diritto internazionale e la protezione dei diritti dell’uomo. Nella Comunità internazionale gli ideali umanitari sono stati per lungo tempo normalmente invocati soltanto in relazione al trattamento degli stranieri, e più sporadicamente, in relazione a quello di individui facenti parte di una minoranza etnica o di un gruppo religioso. La grande importanza che gli Stati, i membri di base della Comunità internazionale, hanno attribuito alla difesa della propria sovranità e, di conseguenza, al rispetto di quella degli altri, ha fatto sì che essi abbiano attivamente agito per la promozione e la tutela dei diritti dell’uomo solo nel caso della messa in gioco di loro diretti interessi, ad esempio per esercitare la protezione diplomatica dei propri cittadini all’estero. Fra i principi fondamentali del diritto internazionale, un posto di sicuro rilievo spetta al principio di eguaglianza sovrana degli Stati al quale fanno da corollario, la libertà di scegliere un sistema politico interno, il principio di non ingerenza negli affari di altri Stati: tutte regole che rappresentano le basi della coesistenza pacifica fra Stati e che vengono più volte richiamate nel corso dei dibattiti delle Nazioni Unite. Dopo il 1945 e le aberrazioni del nazismo, ampio spazio si è dato ai principi di dignità umana e di autonomia dell’individuo in molti aspetti della sua vita, anche e soprattutto nell’ambito dei suoi rapporti con l’autorità di governo. Ciò ha prodotto un forte interesse e un’impennata nell’impegno degli Stati a proteggere e assicurare tali diritti. Non è concepibile e sopportabile che lo Stato si senta libero di trattare i propri cittadini come crede, né che sia precluso di interessarsi del trattamento ricevuto dai cittadini di uno Stato straniero, nel loro territorio. Molte delle conseguenze che prima del 1945 si traevano dal principio di sovranità sono venute meno, tale principio è sottoposto ai limiti, che corrispondono ai diritti umani internazionalmente tutelati. In virtù di tale limitazione si è assistito a un conflitto fra vecchia e nuova concezione del potere sovrano dello Stato sugli individui: il problema che si verifica non è tanto relativo a quali Stati rispettano in larga o minore misura le norme internazionali sui diritti dell’uomo ma come le frequenti violazioni rappresentino un sintomo delle difficoltà che incontra l’ordinamento internazionale a proteggere gli interesse essenziali della persona. L’anno 1945 rappresenta l’anno di svolta e il punto di partenza delle attività internazionali per la protezione dei diritti dell’uomo, in quanto segna l’inizio della creazione di un sistema di norme internazionali teso a vincolare gli Stati a rispettare un catalogo di diritti umani: si è profilata una vera e propria azione internazionale per la promozione e la tutela dell’uomo in quanto tale. Nel clima di cooperazione per la realizzazione di ideali comuni che si è allora realizzato, il 1° gennaio 1942 i governi firmatari della Dichiarazione delle Nazioni Unite si sono proclamati convinti che una vittoria completa sui loro nemici era “essenziale per difendere la vita, la libertà, l’indipendenza e la libertà religiosa, così come per conservare i diritti umani e la giustizia nei propri paesi e nelle altre nazioni”. Il 26 giugno 1945 nella Carta delle Nazioni Unite si è compreso come fine quello di “conseguire la cooperazione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali di carattere economico, sociale e culturale o umanitario, e nel promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di sesso, di razza, di lingua o religione”. Inoltre è stato inserito nello “Statuto” della medesima organizzazione gli artt. 55 e 56, con i quali “i membri si impegnano a agire collettivamente o singolarmente in cooperazione con l’organizzazione” al fine di “promuovere il rispetto e l’osservanza universale dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione”. In questa prospettiva la creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ha introdotto tre grandi novità. In primo luogo, il passaggio da una prospettiva frammentaria ad uno scopo globale e totalizzante, non più, quindi, la mera difesa religiosa, la protezione delle minoranze, ma “il rispetto per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione” ex art. 1 paragrafo 2. In secondo luogo, il fatto che lo scopo globale fosse inserito nell’elenco dei fini di tale organizzazione, ha sottolineato come si cercasse di stabilire un livello di protezione comune a tutti gli Stati. In terzo luogo, la creazione di un organo mirante a tale scopo, la Commissione per i diritti dell’uomo, nonché l’attribuzione di funzioni e competenze precise nello stesso campo sia all’Assemblea generale, sia al Consiglio Economico e Sociale. L’art. 56 dello Statuto dell’ONU impone agli Stati membri il dovere di “agire, collettivamente o singolarmente, in cooperazione con l’organizzazione per raggiungere i fini indicati nell’art. 55” fra i quali figurano “il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti”. Ciò dimostra come si volesse raggiungere l’obiettivo mediante uno sforzo graduale. Nel 1948 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che assunse (ma lo è tuttora) il valore di manifesto d’azione delle Nazioni Unite. Prima della Dichiarazione espressione come “diritti dell’uomo e libertà fondamentali” non aveva un contenuto internazionalmente definito: il solo punto che lo statuto avesse fissato in modo preciso è il principio di non discriminazione. Nel Preambolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo viene in rilievo “che gli Stati membri sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, e che “una concezione di questi diritti e di queste libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di tali impegni”. Inoltre la dignità umana viene a rappresentare il fondamento delle libertà, della giustizia e della pace nel mondo e perciò stesso di tutti gli stessi diritti inviolabili della personalità umana. Nella parte normativa, la Dichiarazione è proclamata “come ideale da raggiungere da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, affinché ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure di carattere nazionale e internazionale, l’universale e effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione”. La Dichiarazione pur essendo un atto proprio dell’ONU, non è dotata di una fora obbligatoria diretta per gli Stati Membri, essa è, in sostanza, assimilabile alle raccomandazioni, la cui caratteristica è quella di non essere obbligatoria per i soggetti destinatari. Tuttavia va certamente inquadrata in quella particolare categoria di azioni solenni internazionali, che vengono definite dichiarazioni di principi. Se è comunque vero che tali atti, assimilabili alle raccomandazioni, non sono vincolanti è altrettanto vero che possono, per il fatto di richiamarsi a principi di più vasta portata, costituire elementi rilevanti per il processo formativo delle consuetudini. Inoltre, si deve aggiungere che l’inosservanza grave o prolungata delle raccomandazione di un ente internazionale, da parte di uno Stato membro, può portare all’adozione nei suoi confronti di determinate sanzioni sociali, quali la sospensione e persino l’espulsione dal corpo sociale dell’ente. La dichiarazione assume un valore complementare allo Statuto, in quanto indica gli aspetti e i contenuti specifici di uno degli scopi dell’Organizzazione, ovvero promuovere il rispetto dei diritti dell’uomo, e sviluppa tale scopo in una serie di principi, adottai all’unanimità e con forma solenne, fornendo così agli Stati membri una guida per l’interpretazione del loro dovere di cooperare con l’Organizzazione nel perseguimento dello scopo in questione. Fra il 1948 e il 1966 si sono verificati profondi mutamenti nella Comunità internazionale, e indirettamente nell’Assemblea delle Nazioni Unite, in conseguenza della decolonizzazione e della nascita di un gran numero di nuovi Stati. Ciò ha influenzato non poco la redazione della Convenzione sui diritti dell’uomo, in quanto l’ultima fase della redazione e l’approvazione hanno goduto di un appoggio che differiva per quantità e per qualità da quello ottenuto dalla Dichiarazione del 1948: epoca in cui a prevalere era la voce della grandi potenze occidentali. Di conseguenza l’unanimità dell’adozione delle Convenzioni sui diritti dell’uomo del 1966 ha assunto il significato di una conferma e di una estensione delle norme che tutelano i diritti dell’uomo, da parte della nuova Comunità internazionale. Ciò che viene da più parti sottolineato è l’atteggiamento dei nuovi Stati che, malgrado l’attaccamento al privilegio della sovranità, hanno fatto fronte comune e creato una base unica per l’adozione della Convenzione, in quanto accomunati tutti da un processo di forte impatto sulla dignità umana quale quello di decolonizzazione. Uno dei motivi ispiratori del processo di decolonizzazione è stato quella “fede nei diritti fondamentali dell’uomo” che è proclamata nel preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite ed è richiamata anche nel Preambolo della Dichiarazione del 1960 sulla concessione dell’indipendenza ai Paesi e ai popoli coloniali. In questa prospettiva appare significativo che il primo articolo di questa Dichiarazione definisce l’assoggettamento dei popoli ad un dominio straniero come “una negazione dei diritti fondamentali dell’uomo” e che il primo articolo di entrambi i Patti sui diritti dell’uomo riconosce il diritto all’autodeterminazione. Inoltre c’è da aggiungere che l’assistenza ai Paesi in via di sviluppo è oggetto di azione da parte delle Nazioni Unite ma è strettamente connessa con la questione generale delle condizioni sociali, economiche e civili della persona umana in gran parte del mondo, infatti cancellare la discriminazione rappresenta ancora oggi un fattore di convergenza per tutti gli Stati membri. Infine il processo di indipendenza, che ha caratterizzato i nuovi Stati, ha fatto sì che i diritti dell’uomo fossero individuati come un’eredità culturale imprescindibile dalla nozione di Stato.
Gli strumenti giuridici della protezione internazionale dei diritti dell’uomo. Gli strumenti giuridici in questione possono essere classificati in base ai principi cui si riferiscono, in particolare il principio di non discriminazione è stato la premessa di numerose raccomandazioni e convenzioni, specie relativamente alla discriminazione razziale e alla discriminazione contro le donne. Possono aggiungersi la convenzione sullo status dei rifugiati (1951) e quella sullo status degli apolidi (1954). Il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona è il fondamento della convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio, parzialmente collegata pure con la proibizione di trattamenti inumani, crudeli o degradanti. La libertà personale e la proibizione di trattamenti degradanti hanno ispirato numerosi accordi per l’abolizione della schiavitù e la soppressione del commercio degli esseri umani, in questa prospettiva importanti sono la Dichiarazione sui diritti del bambino (1959), quella sui portatori di handicap mentali (1971) e sulle persone portatrici di handicap (1975). Un altro criterio distintivo fra gli strumenti giuridici è fondato sui loro effetti, in particolare questi scaturiscono dal contenuto delle norme. Ci sono norme che stabiliscono l’obbligo preciso, di applicazione diretta,ed altre di applicazione graduale, che talora si riduce a un dovere degli Stati i quali dirigono la loro attività secondo un certo programma. In tal caso il rispetto dell’obbligo si accompagna a un ampio margine di discrezione e può essere verificato soltanto dopo un lungo periodo di tempo. Un terzo criterio di classificazione sta nella loro origine, cioè nell’organizzazione da cui ciascuno di essi viene emanato. L’ONU è al centro del sistema universale di protezione dei diritti e la gran parte degli strumenti giuridici è frutto della sua iniziativa, accanto ad esso vi sono agenzie specializzate quali l’OIL e l’UNESCO, che hanno una forte influenza nel campo dei diritti economici, sociali e culturali. In questo ambito è importante sottolineare il ruolo che hanno avuto due organizzazioni regionali – il Consiglio d’Europa e l’Organizzazione degli Stati americani – nel promuovere le due Convenzioni regionali sui diritti dell’uomo. Riguardo alle procedure si nota che gli strumenti tecnici e gli istituti giuridici, mediante i quali la tutela dei diritti fondamentali viene perseguita, si compendiano in un complesso di attività preparatorie, di studio e di impulso al fine di conseguire l’adozione di specifici provvedimenti formali. Tali provvedimenti possono avere la natura della “raccomandazione internazionale”, spesso inserita in una “dichiarazione di principi”, oppure di un vero e proprio accordo internazionale. Nelle prime due ipotesi si ritiene prevalentemente che l’atto sia munito di una forza obbligatoria indiretta, mentre, nel caso dell’accordo, l’attività dell’ente o della conferenza internazionale si arresta alla fase propositiva, in quanto l’atto conclusivo, accordo, è, a tutti gli effetti, una fonte giuridica dell’ordinamento internazionale e a tale accordo, infatti, gli Stati partecipano nella loro specifica qualità di soggetti del medesimo ordinamento internazionale. In tutti i casi gli effetti dell’atto conclusivo sono destinati a operare nell’interno degli ordinamenti dei singoli Stati. Dal punto di vista degli effetti giuridici, la differenza sostanziale fra l’accordo, la raccomandazione e la dichiarazione di principi consiste nell’intensità della rispettiva efficacia. L’accordo ha piena obbligatorietà e efficacia, fra gli Stati partecipanti, sin dal momento della sua entrata in vigore. La raccomandazione può ritenersi solo indirettamente munita di una certa efficacia obbligatoria, nel senso che la sua sistematica violazione può condurre alla “sanzione sociale” ed assume più un valore nel senso di costruzione di un quadro giuridico e istituzionale entro il quale tutelare tali diritti. Infine, la dichiarazione dei principi che spesso sottende l’esigenza di una consuetudine internazionale, che può risultare in fieri o già in esse, e che è tipico della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
I legami fra le categorie di diritti nei diritti umani. La relazione fra le categorie di diritti civili e politici, da un lato, e economici, sociali e culturali dall’altro, rappresenta uno dei problemi fondamentali per l’attività internazionale in tale campo. In particolare si è messo in rilievo come i soli diritti civili e politici possono avere una realizzazione immediata a beneficio degli individui, attraverso i sistemi giuridici degli Stati membri, mentre i diritti economici, sociali e culturali si riducono essenzialmente a scopi da perseguire; i primi sono protetti per il mero fatto che le autorità ed i singoli sono obbligati a astenersi da atti di coercizione o di interferenza che ne ostacolino il godimento, mentre i secondi esigono un numero di azioni che creino le condizioni perché quei diritti si attuino. La realizzazione dei primi è assicurata dall’esistenza di previsioni nelle leggi dello Stato, e dalla possibilità che i Tribunali siano chiamati ad applicare queste norme, mentre per assicurare che il secondo gruppo di diritti si traduca in realtà, ogni Stato è chiamato a intraprendere azioni/misure specifiche. Tali misure sono necessariamente graduali, in quanto dipendono dalla situazione economica dei vari Paesi, e dalla disponibilità in loco di risorse materiali nonché di personale competente. Per quanto riguarda le misure internazionali di controllo, quelle consistenti in procedure per la soluzione di controversie o per l’esame di reclami individuali sono considerate incompatibili con la gradualità dell’applicazione dei diritti economici, sociali e culturali. La distanza fra le due categorie di diritti non è grande: alcuni diritti economici, sociali e culturali possono avere ripercussioni immediate sulla posizione giuridica degli individui e hanno una natura tale da poter essere garantiti con mezzi giudiziari; d’altro lato i diritti politici, e alcuni di quelli civili, non possono essere protetti senza l’intervento attivo della pubblica amministrazione. Inoltre, la natura immediata o graduale dell’applicazione non dipende solo dalla natura dei diritti. In pratica, le condizioni sociali e economiche già esistenti in ogni Paese hanno pure una certa influenza. In definitiva la problematica è legata alla esistenza di due Patti sui diritti civili e politici e sui diritti sociali e economici. Sarebbe stato più opportuno realizzare un unico Patto al fine di evitare l’inconveniente della differenza fra i contraenti di un Patto e quelli dell’altro. Inoltre, le misure di controllo sarebbero state unificate. Nella situazione attuale caratterizzata dalla compresenza di due Patti, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha cercato di sottolineare in molte occasioni la indivisibilità delle due categorie di diritti. È accaduto anche che si affermasse come la garanzia e la tutela di diritti economici, la creazione di un nuovo assetto economico internazionale sia descritta come una condizione preliminare per promuovere effettivamente i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali. Tale tendenza non viene condivisa: è stato detto spesso che al di sotto di un certo livello di vita, l’esercizio di taluni diritti e libertà è di fatto precluso ad una maggioranza della popolazione di un Paese; ma ciò non potrebbe giustificare il rifiuto di riconoscere la stessa esistenza di tale diritto. Dare priorità ai diritti economici, sociali e culturali significherebbe considerare scusabili la negazione dei diritti politici o di alcune libertà, che hanno una maggiore importanza politica, là dove le condizioni sociali e economiche sono depresse. Ciò implicherebbe ammettere che il numero dei diritti umani protetti possa variare a secondo del livello di vita. È essenziale che la indivisibilità delle due categorie di diritti dell’uomo sia intesa come tale da obbligare gli Stati alla simultanea adozione di misure capaci di assicurare il godimento dei diritti di entrambe le categorie. I meccanismi internazionali di controllo predisposti dai Patti sono per il Patto sui diritti civili e politici ha dato vita a un Comitato per diritti dell’uomo (art. 28 ss.) che ha cominciato a funzionare dal 1977 ed è composto di 18 membri eletti a titolo individuale dagli Stati contraenti per un periodo di quattro anni. Il comitato può prendere in esame reclami presentati contro uno Stato contraente da altri Stati o da individui solo se lo Stato accusato ha, per i reclami statali, dichiarato di accettare la competenza del Comitato in materia (art. 41). Altrimenti la competenza del Comitato consiste nel ricevere rapporti dagli Stati circa l’applicazione dei Patti nei rispettivi territori, nello studiarli e nel trasmettere agli Stati parti e al Consiglio economico e sociale “le osservazioni generali che ritenga opportune” (art. 40 par. 4). Anche il Patto sui diritti economici, sociali e culturali prevede che gli Stati inviino rapporti sulle misure prese per assicurarne il rispetto nei loro territori, ma non istituisce organi ad hoc. I rapporti sono inviati al Consiglio economico e sociale per il tramite del Segretariato Generale, e il Consiglio può a sua volta trasmetterli alla Commissione dei diritti umani “a fini di studio e perché formuli raccomandazioni di ordine generale..” (art. 19). Nel 1985 il Consiglio economico e sociale ha creato il Comitato dei diritti economici, sociali e culturali perché l’assista nelle sue competenze così come previste dal Patto.
Il processo di decolonizzazione: il diritto all’autodeterminazione dei popoli e il diritto delle minoranze alla loro identità. Oltre ai diritti e alle libertà dell’individuo esistono anche diritti umani collettivi, cioè riconosciuti come spettanti ai gruppi o a intere popolazioni. È stato, infatti, oggetto di esame il diritto di autodeterminazione dei popoli, menzionato all’art. 1 par. 2 della Carta e dall’art. 55 dello Statuto delle Nazioni Unite, nonché dai Patti universali sui diritti dell’uomo. Si può ritenere, soprattutto in riferimento alla prassi sviluppatasi in seno all’ONU, che si tratti ormai di un principio generale di diritto consuetudinario. Tale principio si applica solo ai territori sottoposti ad un governo straniero, e quindi, oltre che ai territori coloniali, a quelli conquistati e occupati con la forza (si pensi ai territori occupati da Israele dal 1967). Esso impone al Governo che controlla un territorio non suo di consentire l’indipendenza, l’eventuale associazione o integrazione con altro Stato, la libera scelta del proprio status internazionale e del proprio regime politico. L’ONU abilita i suoi organi, in particolare l’Assemblea, a intervenire affinché simili obiettivi siano raggiunti, intervento, che nel caso dei territori coloniali può consistere in decisioni vincolanti. Questo è il significato che ha assunto tale principio fino ad oggi. È difficile dire quale fosse il significato all’origine, allorquando il richiamo al principio fu inserito agli artt. 1 e 55 della Carta. Molto probabilmente l’autodeterminazione dei popoli venne allora intesa non come obbligo di un governo occupante un territorio non suo di lasciare che il territorio medesimo decidesse circa il proprio destino (altrimenti non si spiegherebbe l’accettazione, nella Carta, del fenomeno coloniale) ma semplicemente come obbligo gravante su tutti gli Stati di non interferire nelle libere scelte, riguardanti Governo, Costituzione, leggi operanti nell’ambito di Stati stranieri. Così inteso, però il principio di autodeterminazione si confondeva chiaramente con quello del non intervento negli affari interni altrui ed aveva un significato molto più ristretto di quello assunto oggi. L’esatta individuazione dei casi previsti dal principio di autodeterminazione, ossia dei casi di territori sottoposti ad un governo straniero, presenta notevoli difficoltà allorché si tratta di territori nei quali il Governo straniero, pur presente con proprie forze armate, si appoggia a un governo locale. In casi simili si ritiene che il principio di autodeterminazione si applichi a entrambi i governi, imponendo di far cessare l’occupazione straniera. In tal senso viene interpretata la prassi delle Nazioni Unite, particolarmente dell’Assemblea generale, intesa a condannare, in nome del principio di autodeterminazione, le occupazioni straniere. C’è solo un caso che non rientra nel quadro giuridico finora tratteggiato, un caso in cui l’applicazione del principio di autodeterminazione è richiesto dagli organi dell’ONU con riguardo a popoli non sottoposti propriamente a governi stranieri: è il caso dell’apartheid in quanto praticata, come avviene in Sud Africa, da una minoranza nei confronti della maggioranza della popolazione. In tal caso, si deve ritenere che più che un’applicazione del principio di autodeterminazione, si tratti della formazione di una norma eccezionale ad hoc. Fra i diritti umani collettivi bisognerebbe iscrivere, secondo un’opinione largamente discussa, anche quelli spettanti ai gruppi di minoranza. Il tema delle minoranze rientra indubbiamente nell’ambito dei diritti dell’uomo, in quanto regolato dall’art. 27 del Patto universale sui diritti civili e politici come da una apposita dichiarazione adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1992. Si deve riconoscere che entrambi i documenti hanno mantenuto una linea di estrema cautela, non soltanto nel definire i diritti protetti ma anche nella indicazione dei destinatari: si parla sempre delle “persone appartenenti a minoranze” e non a dei gruppi di minoranza. Tale linea di condotta è stata preferita allo scopo di non accentuare contrasti politicamente pericolosi fra la minoranza e lo Stato in cui essa si trova, oltre al fatto della necessità di salvaguardare la libertà di scelta di ogni individuo nell’ambito della minoranza, e quindi di rispettare la scelta fra l’assimilazione nella maggioranza e la conservazione dei legami sociali e culturali con il gruppo. La norma contenuta nell’art 27 può sembrare di riduttiva per un sistema di protezione delle minoranze, ma in realtà non è così. Con la creazione di un sistema di tutela dei diritti dell’uomo, il principio di no discriminazione è stato affermato a vantaggio di tutti. Inoltre era più facile da imporre agli Stati obblighi più precisi sulle minoranze, quando il problema si limitava a specifiche zone e il numero degli Stati obbligati era ristretto. Oggi si deve considerare la varietà delle origini, della struttura e delle aspirazioni delle minoranze esistenti in tante parti del mondo. Infine oggi si avverte la preoccupazione di non intralciare il processo di integrazione delle minoranze nelle maggioranze. Tutto ciò non sembra però far superare la vaghezza e la genericità della disposizione dell’art. 27: occorre, infatti, un’azione adeguata da parte delle autorità, occorrono, cioè, misure rivolte a aiutare le minoranze a conservare la loro identità. La dichiarazione del 1992 prevede tali misure nell’art. 1 e nell’art. 4, ciò impedisce che gli obblighi degli Stati siano ridotti al dovere di non interferire con le iniziative private di gruppi di minoranze.
Gli obblighi derivanti per gli Stati dalle Convenzioni sui diritti dell’uomo e i meccanismi di controllo. I doveri che corrispondono agli Stati non hanno una stessa natura, in quanto legati all’immediatezza o alla gradualità dell’adempimento nonché all’esistenza di obblighi negativi e di obblighi astensivi che vanno distinti dagli obblighi che hanno un contenuto positivo, e, che, quindi, si eseguono attraverso azioni appropriate. Anche gli obblighi negativi implicano l’adozione di misure volte assicurare che tutti i soggetti del diritto interno rispettino il divieto, senza interferire con la libertà altrui. Circa gli obblighi da eseguire gradualmente, gli Stati non possono trarne vantaggio per differire il rispetto di certi diritti fondamentali. L’esecuzione immediata rappresenta la regola e qualora una misura legislativa sia sufficiente a proteggere un determinato diritto dell’uomo, tale misura deve essere presa immediatamente dopo che è nato l’obbligo internazionale che la contempla. Oltre a essere obbligati a riconoscere certi diritti dell’uomo, gli Stati, parti delle convenzioni in materia, sono anche titolari di alcuni diritti, ad esempio il diritto di introdurre determinati limiti alla protezione assicurata agli individui, accrescendo in tal modo la libertà di azione di ogni Stato. Tale diritto riceve attuazione quando circostanze eccezionali, ovvero l’interesse generale, giustificano il sacrificio dei diritti dell’uomo. Secondo l’art. 4 del Patto sui diritti economici, sociali e culturali si permette agli Stati di restringere il godimento di uno di tali diritti a tre condizioni: - che la restrizione sia stabilita dalla legge (e quindi non arbitraria); - che sia compatibile con la natura del diritto (e quindi non arrivare a negarlo); - che il suo scopo stia nel promuovere il benessere generale in una società democratica. Accade più spesso che nelle norme concernenti un particolare diritto dell’uomo sia specificato su quale base possa essere ristretto l’esercizio del diritto stesso. La base più comune è l’interesse sociale prevalente, implicito nella menzione di ordine pubblico, di moralità, di pubblica salute e sicurezza. I limiti più strettamente connessi con difficoltà obbiettive nel funzionamento dello Stato si fondano su circostanze eccezionali, come la guerra o un pericolo pubblico che minaccia la sopravvivenza dello Stato. Il potere dato agli Stati di limitare per varie ragioni il godimento dei diritti protetti può agevolare la loro osservanza soltanto se le clausole limitative sono chiaramente definite e di natura obbiettiva. Un meccanismo di controllo era necessario al fine di evitare di correre il rischio che i diritti protetti siano violati e del bisogno di garantirne il rispetto: la garanzia deve essere fornita anzitutto dagli ordinamenti degli Stati parti di ogni convenzione. Le misure di controllo devono valere come stimolo per le Parti di ogni convenzione, in modo da indurle a comportarsi secondo i loro impegni, e devono inoltre promuovere l’interpretazione uniforme delle regole contenute. Ci sono tre categorie di misure: l’esame di rapporti periodici degli Stati, le procedure di soluzione di controversie relative all’interpretazione e all’esecuzione di ogni accordo, ed infine, l’esame di petizione o di comunicazioni o di reclami di individui, vittime di violazioni dei diritti fondamentali. Circa i rapporti periodici degli Stati è rilevante prendere in considerazione la forma attraverso i quali avvengono, occorre, infatti, che nessun tema venga escluso o trattato superficialmente. Ancora più rilevante è la composizione dell’organo competente ad esaminare i rapporti. Se i suoi membri sono delegati dai Governi, ci si dovrà attendere per lo più scarsa inclinazione a verificare con cura il trattamento di individui da parte dello Stato; viceversa se l’organo è composto da individui non delegati dal Governo, la loro libertà di iniziativa li spronerà a esprimere rilievi critici. Naturalmente il mandato dell’organo di controllo può essere o meno ampio, comunque non si tratta di una istruttoria giudiziaria, per lo più l’esame di rapporti si limita di solito a raccomandazioni o a commenti. Le procedure per la risoluzione di controversie ricalcano i modelli applicati in diritto internazionale anche a convenzioni relative a altri oggetti. In una prima fase si agevolano i contatti fra le parti, successivamente si può aprire un periodo di conciliazione. Talora, dopo il fallimento di quest’ultima, ogni Stato può ricorrere alla Corte internazionale di giustizia. Non c’è dubbio che la sola forma di garanzia realmente avanzata consista nei ricorsi individuali. Le convenzioni che li ammettono sono riuscite a superare la riluttanza dei governi di trovarsi allo stesso livello delle vittime nel quadro di una procedura internazionale. Per arrivare a condannare uno Stato che ha violato i propri obblighi, è richiesta una corretta procedura giudiziaria, mirante a accertare i fatti e a interpretare in concreto le norme. Quando manca tale procedura il ricorso è sostituito da mere petizioni, e il loro esame, è affidato a un organo non giudiziario sulla base di elementi spesso incompleti e senza la garanzia di un giudizio. In sostanza una procedura essenzialmente politica, che si conclude con un atto (come suggerimenti, raccomandazioni, vedute) che ha un valore limitato e che si riduce spesso a un mezzo di pressione politica. Bisogna, infine, segnalare come l’art. 2 del Patto sui diritti economici, civili e culturali si riferisce alla assistenza e cooperazione internazionale, da realizzare attraverso due forme di azione collettiva che dovrebbero concorrere nell’assicurare la piena realizzazione dei diritti medesimi. La possibilità che intervengano a questo scopo le organizzazioni internazionali competenti a fornire assistenza tecnica è prevista dall’art. 22 dello stesso Patto: ciò implica il riconoscimento del fatto che i Paesi in via di sviluppo hanno spesso risorse insufficienti per porre le basi per l’effettivo godimento dei diritti in questione. Negli anni successivi all’adozione dei Patti, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha messo ripetutamente in risalto l’argomento della responsabilità dell’intera Comunità internazionale per il progresso sociale e la crescita economica dei Paesi in via di sviluppo. Ciò è stato ribadito nella Carta dei diritti e doveri economici degli Stati ove all’art. 17 prevede che “la cooperazione per lo sviluppo è lo scopo condiviso da tutti gli Stati e il loro dovere comune”. Perciò se è vero che nel contesto del nuovo ordine economico internazionale i popoli dei Paesi economicamente depressi hanno titolo a pretendere un diritto allo sviluppo, l’obbligo correlativo di agire in modo da realizzare questo diritto incombe su tutti i membri della Comunità internazionale. Essi sono tenuti collettivamente allo sviluppo dei Paesi depressi, e perciò indirettamente responsabili del ritmo a cui gli abitanti di tali Paesi saranno in grado di godere dei diritti economici, sociali e culturali.
Il valore della Convenzione di Roma del 1950 nel campo degli accordi internazionali sui diritti umani. Il Consiglio d’Europa ha firmato il 4 novembre 1950 a Roma la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Il fine del Consiglio d’Europa è quello di realizzare una unione più stretta fra i suoi membri e uno dei mezzi per conseguire tale fine è la salvaguardia e lo sviluppo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, al cui riconoscimento e applicazione effettivi tende la Dichiarazione universale proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nel preambolo della Carta i governi firmatari, membri del Consiglio d’Europa riaffermano “il loro profondo attaccamento a queste libertà fondamentali, che costituiscono le basi stesse della giustizia e della pace nel mondo e il cui mantenimento si fonda essenzialmente: da una parte, su un regime politico veramente democratico, e, dall’altra, su una concezione comune e un comune rispetto dei diritti dell’uomo”. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ispirata dagli ideali proclamati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, tuttavia, rispetto a questa ultima, costituisce uno strumento certamente più penetrante e efficace. Infatti, è dotata dell’intrinseca obbligatorietà diretta, tipica di ogni accordo internazionale, mentre, come detto, la Dichiarazione universale ha natura e efficacia analoghe a quelle di una “Dichiarazione di principi”. La Convenzione europea, ispirata dalla Dichiarazione dell’ONU, è poi stata presa come esempio e modello dalle stesse Nazioni Unite, nella successiva attività diretta a realizzare l’attuazione di più efficaci strumenti e istituti per la salvaguardia dei diritti umani fondamentali. La tutela delle libertà fondamentali acquista rilevanza soprattutto nella Conferenza di Helsinki, che si è svolta nel 1975 e che ha avuto successivamente molteplici e specifici seguiti, a carattere e vocazione prettamente internazionale. L’atto finale della Conferenza enumera i principi che reggono le relazioni fra gli Stati, che vanno da l principio di autodeterminazione a quello dell’uguaglianza dei diritti dei popoli, da quello dell’integrità territoriale a quello della soluzione pacifica delle controversie, dalla condanna di ogni forma di terrorismo al rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. L’effettivo esercizio di questi principi ha formato e forma l’oggetto dei molteplici “seguiti” operativi della Conferenza, tanto che si parla del “processo C.S.C.E.” per indicare il complesso delle numerose e diverse iniziative che prendono origine dalla “Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa”. Fra questi seguiti merita attenzione la convocazione della Conferenza di Stoccolma sulle “misure miranti a rafforzare la fiducia e la sicurezza” e sul “disarmo in Europa”, nonché altre e innumerevoli iniziative che hanno portato alla “riunione di Vienna” dove fra il 1988 e il 1989 si è adottato un “Documento conclusivo” di notevole importanza. Il Documento conclusivo manifesta di volere riaffermare il comune impegno degli Stati, riguardo ai singoli campi e settori di esercizio di questi stessi diritti, pervenendo in tal modo a realizzare un elenco articolato e una specificazione pratica. In tale contesto gli Stati provvedono alla pubblicazione e alla diffusione dell’Atto Finale di Helsinki, nonché “di qualsiasi strumento pertinente nel campo dei diritti umani; garantiranno l’effettivo diritto dell’individuo di conoscere i propri diritti e i propri doveri; rispetteranno il diritto dei cittadini di contribuire attivamente, individualmente o in associazione alla promozione e alla tutela dei diritti umani; assicureranno i diritti e le libertà fondamentali senza distinzione di alcun genere”. Confermano in sostanza che la promozione dei diritti soggettivi ha un’importanza capitale per la dignità umana e per il raggiungimento delle legittime aspirazioni di ciascun individuo.
I diritti dell’uomo nella prospettiva comunitaria. Per molti anni l’obiettivo principale delle Comunità è stato quello di giungere ad una completa e definitiva liberalizzazione degli scambi e all’abolizione di tutti gli ostacoli di natura commerciale tra gli Stati membri. Il contrasto fra “Europa economica” e “Europa politica e sociale” è apparso evidente tanto è vero che nessuno dei Trattati istitutivi delle Comunità del 1957 conteneva norme relative alla tutela dei diritti dell’uomo. Solo il progetto della CED (Comunità Europea di Difesa) prevedeva espressamente l’obbligo del rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali degli individui, ma il progetto non entrando mai in vigore, restò di vaga portata. I primi riferimenti ad alcuni diritti fondamentali quali la libertà di circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali e il divieto di non discriminazione in base alla nazionalità e al sesso sono contenuti nel trattato istitutivo della Comunità Europea. Tali libertà, che venivano riconosciute e tutelate, non erano altro che strumentali alla realizzazione del mercato unico, nell’intenzione degli Stati che avevano ratificato il trattato, quest’ultimo non doveva altro che essere una regolamentazione giuridica di una integrazione economica con la conseguenza che l’individuo non veniva tutelato come persona ma solo come protagonista di quel complesso mondo economico in cui cooperano gli Stati, come operatore economico puro e semplice. Questa spiegazione è supportata dal fatto che la prima Comunità che venne creata aveva compiti prettamente tecnici che non lasciavano presagire alcuna interferenza coni diritti fondamentali. In alcuni Stati, che stavano per ratificare il trattato, c’era, inoltre, il timore che l’inserimento di una Carta dei diritti fondamentali non avrebbe più posto limiti al campo d’azione comunitario. Si pensava che la Comunità avrebbe tutelato non solo gli interessi economici ma anche quelli politici. La mancanza di disposizioni in ambito comunitario si scontra con la constatazione che gli Stati firmatari del trattati, all’interno del loro ordinamento giuridico riconoscevano e tutelavano un numero più o meno ampio di diritti umani, lasciando supporre un’adeguata tutela in tal senso anche nell’ipotesi in cui con gli atti comunitari fossero stati violati i diritti umani fondamentali. La possibilità che l’attività legislativa degli organi comunitari possa violare i diritti umani fondamentali nasce dal fatto che gli Stati membri delle Comunità Europee, ratificando i trattati istitutivi delle stesse, hanno conferito alcune competenze agli organi comunitari, quest’ultimi possono emanare, in tali materie, degli atti che incidono direttamente sull’ordinamento degli Stati membri. La mancanza nell’ordinamento comunitario di una norma precisa che imponga il rispetto dei diritti fondamentali, e mancando un elenco dei diritti ritenuti fondamentali, i cittadini degli Stati membri non sono tutelati dinanzi ad atti che li violino. La Corte di Giustizia Europea aveva sottolineato, negli anni ’50 e ’60, la limitazione della propria competenza all’interpretazione del diritto comunitario, escludendo di poter tenere in debito conto non solo dei diritti sanciti dal Trattato ma anche di quelli appartenenti alle Costituzioni degli Stati membri. A seguito dell’atteggiamento di netta chiusura, la Corte Costituzionale italiana intervenne con la sentenza Frontini del 1973 con la quale dichiarò che il trasferimento di competenze alla Comunità e le conseguenti limitazioni alla sovranità italiana “possono comportare per gli organi della CEE un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona”. Nel caso ci fosse stata una aberrante interpretazione del Trattato CEE, la Corte assicurava il sindacato giurisdizionale sulla perdurante compatibilità del trattato con i principi fondamentali. Le posizioni della Corte italiana e successivamente l’intervento di quella tedesca, hanno portato la Corte di giustizia a un mutamento della sua iniziale posizione, arrivando a affermare che i diritti umani fanno parte dei principi generali del diritto comunitario di cui la Corte garantisce l’osservanza, e ad elaborare il concetto secondo il quale i diritti fondamentali dell’uomo devono essere tutelati come parte integrante dei principi generali dell’ordinamento comunitario. Nonostante i principi affermati dalla Corte di Giustizia, della tutela dei diritti umani continuava a non esserci traccia nei trattati istitutivi. Nell’Atto Unico Europeo del 1986 la questione era stata affrontata solo nel Preambolo, dove si dichiarava la volontà degli Stati “di promuovere insieme la democrazia, basandosi sui diritti fondamentali riconosciuti dalle Costituzioni degli Stati membri, dalla CEDU e dalla Carta sociale europea”. Soltanto con il Trattato di Maastricht fu approvato l’attuale articolo 6 che afferma che “l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione di Roma del 1950 sui diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, oltre che dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, come principi generali di diritto comunitario”. La norma introdotta nel Trattato di Maastricht non è stata esaustiva; l’utilizzazione della CEDU come fonte non viene ampliata, così come la Comunità non viene sottoposta al giudizio della Corte dei diritti dell’uomo, lasciando i cittadini privi della possibilità di avvalersi del meccanismo di tutela previsto dalla Convenzione stessa. La norma in questione, inoltre, non solo fa riferimento a generici mezzi necessari di cui si dota l’Unione per tutelare questi diritti ma, sebbene impegni a rispettare i diritti garantiti dalla Convenzione, non risolve la questione dell’eventuale adesione della Comunità alla CEDU sancendone l’obbligatorietà. Il tema dell’adesione della Comunità Europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo è stato ampiamente discusso negli anni ’80 in riferimento alla questione dei mezzi più idonei a assicurare la tutela dei diritti dell’uomo nell’ambito della Comunità. Già nel 1979 la Commissione europea aveva presentato al Parlamento Europeo e al Consiglio un memorandum nel quale si dichiarava favorevole all’adesione formale della Comunità alla CEDU. L’atteggiamento negativo del Consiglio dell’Unione aveva, però, lasciato cadere l’argomento fino al 1990 quando la Commissione ha di nuovo proposto il tema dell’adesione, chiedendo formalmente al Consiglio di domandare l’adesione delle Comunità alla CEDU. Tre anni dopo il Consiglio ha preso la decisione di richiedere l’opinione della Corte di giustizia sulla compatibilità dell’accordo di adesione con le disposizioni del Trattato. Quest’ultima con il parere 2/94 ha negato la competenza della Comunità ad aderire alla Convenzione, poiché si determinerebbe l’inserimento della Comunità in un diverso sistema istituzionale, nonché l’integrazione delle disposizioni della Convenzione nell’ordinamento comunitario.
Il rispetto dei diritti umani sancito dal Trattato di Amsterdam e le recenti evoluzioni. L’emanazione del parere 2/94 ha favorito un’accelerazione nel processo comunitario di protezione dei diritti umani, la Conferenza intergovernativa aveva avvertito l’esigenza di modificare le disposizioni del Trattato istitutivo della Comunità che ne regolavano la tutela. All’interno del Trattato di Amsterdam il tema della tutela dei diritti fondamentali è spezzettato in una serie di disposizioni che o modificano quelle esistenti o vengono inserite ex novo nel testo. Il nuovo articolo 6 del Trattato di Maastricht sancisce che “l’Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dello stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri”. Benché questo paragrafo non presenti particolari novità, in quanto già menzionato in Maastricht, riveste comunque un’importanza fondamentale poiché il rispetto di tali principi costituisce una condizione essenziale per l’adesione dei nuovi Stati alla Comunità Europea. È stato poi inserito un nuovo articolo 7, che prevede una procedura di accertamento di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei principi di cui all’art. 6 par. 1,nonché sanzioni nei confronti dei paesi che non rispettano tali principi. Il compito di constatare l’esistenza di una tale violazione spetta al Consiglio Europeo, il quale delibera all’unanimità su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione e previo parere conforme del Parlamento europeo. Il governo dello Stato in questione viene prima invitato a presentare le sue osservazioni e successivamente il Consiglio dell’Unione, a maggioranza qualificata, può decidere la sospensione del diritto di voto dello Stato in causa in seno al Consiglio, pur rimanendo vincolato agli obblighi che derivano dal trattato. Bisogna sottolineare come tale violazione debba essere grave e persistente, senza considerare la possibilità di sanzionare le violazioni di singoli diritti individuali o quelle episodiche da parte degli Stati membri; non solo ma poiché la procedura in questione, la cui complessità è notevole, si riferisce alle sole violazioni di principi all’art. 6 par., si esclude la sua applicabilità anche per le violazioni dei principi contenuti nel successivo paragrafo 2 dell’art. 6 che si riferisce ai principi della CEDU e a quelli generali comuni agli Stati membri. La nuova norma sembrerebbe sia stata creata più per i nuovi Stati che intendono aderire alla Comunità e non sono in linea con la tutela dei diritti fondamentali nonché per gli attuali membri in modo da isolarli qualora si verificasse una violazione grave e persistente, dal momento che l’espulsione non è prevista. Il trattato di Amsterdam ha inoltre riconosciuto la competenza della Corte di Giustizia a esercitare un controllo giurisdizionale sulle attività delle istituzioni, affinché siano svolte nel rispetto dei principi relativi alla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sanciti all’art. 6. Il trattato di Nizza, ampliando la procedura all’art. 7 TUE, introduce un dispositivo di avviso preventivo: in virtù del nuovo art. 7 par. 1 su proposta di un terzo degli Stati membri, del Parlamento o della Commissione, il Consiglio può constatare che esiste un chiaro rischio di violazione grave dei diritti fondamentali da parte di uno Stato membro e rivolgergli appropriate raccomandazioni. In tal caso lo stesso Consiglio delibera con la maggioranza qualificata dei 4/5 dei suoi membri previo parere conforme del Parlamento europeo. Il maggior ostacolo alla possibilità di un intervento attivo nell’ambito della tutela dei diritti dell’uomo da parte dell’Unione era infatti comunemente rinvenuto nella mancanza di un catalogo dei diritti fondamentali dell’uomo e nella mancata adesione formale al sistema CEDU. A tale carenza si è cercato di porre rimedio solo di recente, con il progetto di codificazione dei diritti fondamentali si è sostanziato nella decisione del Consiglio Europeo riunito a Colonia il 3 e 4 giugno 1999 di elaborare una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Quest’ultima doveva contenere, secondo le indicazioni del Consiglio Europeo, i diritti di libertà e uguaglianza, i diritti procedurali fondamentali garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri; ad essi dovevano aggiungersi i diritti sociali e economici enunciati dalla Carta sociale europea e dalla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori. Nella stessa sede è stato anche individuato l’organo incaricato di redigere la Carta e il termine dei lavori: un Comitato misto (definitosi Convenzione) composto di delegati di capi di Stato e di governo, delegati del Presidente della Commissione europea, del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali doveva presentare il progetto di Carta entro il mese di dicembre 2000. Il Consiglio europeo, inoltre, sottolineava la necessità di un eventuale integrazione della Carta nei trattati comunitari attribuendole, in tal modo, l’efficacia vincolante che l’avrebbe distinta da tutte le altre disposizioni in materia di diritti umani. La Convenzione ha adottato la bozza definitiva della Carta il 2 ottobre 2000, approvata poi all’unanimità dal successivo Consiglio Europeo riunito a Biarritz il 13 e il 14 ottobre 2000. A seguito della approvazione da parte del Parlamento e della Commissione, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea è stata ufficialmente proclamata. Essa, però, non va a integrarsi nei trattati istitutivi ma va a costituire un documento separato che manca di efficacia vincolante, rappresentando così un’occasione mancata nel cammino del rispetto dei diritti umani, sia essi civili che sociali. Dal punto di vista della tutela accordata ai singoli diritti, il documento risulta il prodotto di una mediazione fra le tradizioni costituzionali dei singoli stati membri, che hanno dovuto farsi reciproche concessioni al fine di rintracciare un denominatore comune in grado di rappresentare concretamente la somma di valori riconosciuti da tutti gli stati membri. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea si compone di sei sezioni: dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, diritti relativi alla cittadinanza, giustizia, raccogliendo in tal modo l’intera gamma di diritti civili, politici, economici e sociali dei cittadini dell’Unione. Le disposizioni della Carta si applicano alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidarietà, nonché agli Stati membri nell’attuazione del diritto comunitario. Si è fatta strada l’esigenza, soprattutto grazie all’impulso fornito dal Parlamento Europeo di procedere alla redazione di una vera e propria Costituzione europea. In una risoluzione adottata il 25 ottobre 2000 il Parlamento europeo lanciava la proposta di procedere alla sostituzione dei trattati attuali con “un trattato-quadro unico, leggibile e breve che prevede la fusione dell’Unione Europea e delle tre Comunità in un’unica entità; esso conterrebbe esclusivamente le disposizioni fondamentali di natura costituzionale, gli obiettivi dell’Unione, la protezione dei diritti fondamentali, la cittadinanza, l’attribuzione e la ripartizione dei poteri e le questioni istituzionali”. Inoltre a partire dal 2001 c’è stato un ampio dibattito sul futuro dell’Unione che coinvolge tutte le parti interessate e che oltre a affrontare le questioni sulle distinzioni delle competenze fra UE e Stati, dovrebbe anche individuare lo status da attribuire alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
I mezzi di tutela dei diritti. La Comunità Europea ha costituzionalizzato con il Trattato di Amsterdam il principio di trasparenza e i diritti ad esso collegati. L’art. 255 enuncia che qualsiasi cittadino dell’Unione ha il diritto di accedere ai documenti del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione. Il principio di trasparenza risponde all’esigenza di rendere il più cristallino possibile lo svolgimento delle attività dell’Unione, qualificando il diritto di accesso del cittadino più che come un diritto come un vero e proprio principio generale di un ordinamento retto sulle regole della democrazia e dello Stato di diritto. In questa ottica viene riconosciuto il diritto di ciascun cittadino di scrivere alle istituzioni in una delle lingue ufficiali della Comunità. Tale disposizione fa da corollario ad altre che costituiscono il contenuto del diritto di cittadinanza europea sancito con il Trattato di Maastricht. Tale cittadinanza non va a sostituire quella nazionale ma bensì è di suo complemento. In particolare oltre a prevedere, all’art. 22, la possibilità che il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento Europeo, possa adottare disposizioni intese a ampliare e completare il ventaglio dei diritti costituenti la cittadinanza, dispone la facoltà di proporre petizioni al Parlamento Europeo e il diritto di rivolgersi al Mediatore. Introdotto dall’art. 195 del Trattato CE, il Mediatore è l’organo abilitato a ricevere le denunce di qualsiasi cittadino dell’Unione o di qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda in uno Stato membro, riguardanti i casi di cattiva amministrazione da parte degli organi comunitari. Si è in presenza d cattiva amministrazione quando un organismo pubblico non opera conformemente a una norma o a un principio per esso vincolante. In sostanza il Mediatore ha come primo e essenziale compito quello di stabilire se le istituzioni e gli organi hanno agito legittimamente. Il mediatore viene eletto secondo una procedura prevista dal regolamento interno del Parlamento, e viene scelto fra personalità, cittadini dell’Unione, che offrano piena garanzia di indipendenza e soddisfino tutte le condizioni per ricoprire questa carica. Il grado di indipendenza di tale organo è garantito per un verso dal fatto che esso non accetta istruzioni da parte di alcun organismo per la durata della sua funzione e dall’altra, dalla previsione tassativa di incompatibilità fra la predetta carica e qualsiasi altra attività professionale. Oltre a tale diritto riconosciuto all’individuo in quanto membro della Unione Europea vi è il diritto di petizione che si estende a tutte le materie di interesse per la Comunità, sia che rientrino nel suo campo di azione sia che li riguardino direttamente. Tali diritti sono importanti perché viene riconosciuto all’individuo la possibilità di adire direttamente tali organi nei casi previsti dalle singole fattispecie, riconoscendogli un’importanza non solo come cittadino ma come persona. Non tralasciamo il diritto del cittadino di proporre ricorso alla Corte di giustizia europea nei casi di emanazione di atti illegittimi, quando questi li riguardino direttamente e individualmente. Da sempre l’Unione Europea si è posto l’interrogativo di quale tutela accordare ai diritti fondamentali (che in quanto tali dovrebbero essere garantiti e tutelati per chiunque) degli individui non appartenenti alla Comunità Europea, in particolare per le misure da adottare per il diritto di asilo e la salvaguardia dei diritti dei cittadini dei paesi terzi. Se il trattato di Amsterdam ha accolto l’esigenza di una disciplina comune e vincolante in materia di asilo, procedendo alla sua comunitarizzazione e adottando un documento specifico, quale il Protocollo sull’asilo per i cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea, non si può dire abbia garantito una eguale tutela, a livello di portata e garanzia per i cittadini che non appartengono all’Unione. Il Protocollo disciplina le modalità di accoglimento da parte di uno Stato membro della domanda di asilo presentata dai cittadini di altri Stati membri affermando che, poiché quest’ultimi sono considerati “paesi d’origine sicuri a tutti i fini giuridici e pratici”, non è necessario presentare la domanda di asilo se non in ipotesi eccezionali, per esempio quando il richiedente appartiene ad uno Stato membro che, avvalendosi dell’art. 15 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ha proceduto all’adozione di misure che derogano, nel suo territorio, agli obblighi previsti da questa Convenzione. In ambito comunitario, ma al di fuori di queste disposizioni, è stata adottata il 15 giugno 1990 la Convenzione di Dublino che disciplina l’individuazione dello Stato membro competente ad esaminare la domanda di asilo di un cittadino di uno Stato terzo. Tale convenzione ha come scopo quello di evitare che gli Stati membri si trovino nell’”imbarazzo” di non sapere se sono competenti o meno nel concedere asilo, tralasciando un aspetto importante della tutela dei diritti umani, ovvero la necessità di salvaguardare in prima istanza la dignità dell’individuo. In sostanza la Convenzione mira a raggiungere due obiettivi: evitare i “rifugiati in orbita”, cioè che i cittadini richiedenti asilo passino da uno Stato membro all’altro, perché nessuno di essi si ritiene competente ad esaminare la domanda di asilo; evitare che lo straniero presenti più domande di asilo in diversi Stati. Problematica risulta essere ancora oggi l’adozione di una politica di immigrazione comune. Questa come la tutela del diritto di asilo rappresentano i terreni su cui si viene a misurare l’Unione Europea nel promuovere e assicurare fattivamente e non solo a livello di principio i diritti umani. Spesso tali persone fuggono da situazioni di guerra civile, di violenza o di semplice privazione di libertà fondamentali, come quella di parola, di pensiero, di stampa e spesso non trovano adeguata tutela neanche nei paesi che li accolgono. Al momento della stipula di Maastricht, l’opposizione del governo britannico impedì che la politica dell’immigrazione fosse ricondotta nell’ambito delle competenze comunitarie e la Convenzione sull’attraversamento delle frontiere esterne del dicembre 1993, tuttora risulta non ratificata a causa dei contrasti fra Spagna e Regno Unito sull’esercizio dei controlli sullo stretto di Gibilterra. Seppure a livello formale e di enunciazione di principio l’Unione Europea risulta essere sensibile alle tematiche di tutela e protezione dell’individuo, a livello sostanziale risulta essere ancora in ritardo nell’adozione di politiche uniche correttamente applicate da tutti gli Stati membri.
Gli orientamenti per il futuro. La Carta europea dei diritti dell’uomo nasce come un catalogo di diritti la tutela dei quali è suscettibile di evolversi verso standard maggiori, che dovranno essere raggiunti anche attraverso la progressiva integrazione degli stati membri. Ciò che si va a delineare è che il mondo “occidentale”, oltre a non avere ancora raggiunto al proprio interno uno standard ottimale di protezione dei diritti fondamentali dell’uomo, è stato spesso all’origine delle limitazioni che essi hanno subito in vaste aree del mondo. Inoltre, la crescente esigenza di trovare un accordo in ordine alla tutela dei diritti fondamentali viene accelerata dai processi di globalizzazione economica, i quali, evolvendosi in maniera esponenziale, colgono gli Stati ampiamente impreparati a controllare le spinte centrifughe anche in tema del rispetto delle libertà fondamentali garantite entro i loro tradizionali confini. Né potrebbe essere altrimenti, visto che i “gruppi” economici cui fanno capo le varie società multinazionali e transnazionali estendono i loro interessi e la loro influenza ben al di là dei limitati confini degli stati nazionali, che, per forza di cose, non possono valutare in una prospettiva adeguata ciò che si svolge a un livello ulteriore rispetto alla loro estensione territoriale. In tale contesto, una solida base di partenza potrebbe essere costituita dal fatto che questi stessi processi hanno contribuito ad avvicinare sensibilmente fra loro le popolazioni dei diversi stati, anche di quelli non europei. Così, sembra rendersi finalmente prossima la possibilità di perseguire a livello internazionale l’acquisizione sempre più ampia di standard di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo volti a garantire anche i diritti dei cittadini di quei paesi che da tali processi sono rimasti finora inesorabilmente esclusi. Sembra potersene concludere che tale opera di acquisizione debba essere soddisfatta non attraverso l’esportazione del modello occidentale, il quale sembra rivelarsi inadeguato allo scopo, ma tramite una elaborazione fondata su un effettivo dialogo interculturale. L’importanza della necessità della promozione di valori fondamentali e dello stato di diritto è sottesa anche nelle attività di scambio e di aiuto che la Comunità Europea ha instaurato con i paesi in pre-adesione. Gli accordi che legavano tali paesi (i cd. PECO) e gli Stati membri dell’Unione europea non erano semplici accordi miranti alla trasformazione dei mercati, allo sviluppo del processo di privatizzazione, ma anche realizzare una difficile transizione politica, giuridica e amministrativa. In ognuno di questi accordi si introdusse un Preambolo che richiedeva il rispetto dei diritti delle minoranze, dei principi democratici e dei diritti dell’uomo. In questa prospettiva il Consiglio Europeo di Copenaghen afferma che l’adesione dell’Unione Europea degli Stati associati sarebbe stata realizzata al più presto dopo che questi paesi fossero stati in grado e avessero dato dimostrazione di rispettare le condizioni economiche e politiche richieste: in particolare tutela delle regole di uno Stato di diritto e dei diritti dell’uomo e delle minoranze. Il motivo per il quale l’Unione spinga così a fondo nell’affermare tale condizione è evidente: creare un’unica base giuridica, comune, di diritto fra Paesi, disporre di una piattaforma tradizionale di diritti, principi connessi ad una comune concezione di individuo. Questa linea è stata ribadita e adottata nel Consiglio Europeo di Essen del 1994 e di Madrid, ma è alla base anche del programma TACIS a favore dei paesi non candidati all’adesione, che incoraggia i paesi beneficiari a realizzare azioni n settore chiave, affinché si creino le condizioni necessarie per il passaggio ad una economia orientata al mercato e per consolidare la democrazia e lo stato di diritto. Al di là delle necessità di creare un assetto di principi cardine da rispettare, sembra che l’assetto economico mondiale vada nel senso di una generazione di persone che pur distanti migliaia di miglia, soggette a regimi i più variegati, cominciano a condividere modo di vestire, modo di mangiare, stile di vita e che pongono alla base di tutto questo la progressiva condivisione di valori comuni. Accanto a questi effetti in qualche modo benefici del processo di globalizzazione economico e sociale, non manca chi sottolinea l’emergere di problemi legati proprio al rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo. Di fronte a nuovi colossi economici gli Stati nazionali, cui era affidato il compito di difendere i diritti fondamentali, non sarebbero più in grado di controllare la situazione con meccanismi che si rivelano inadeguati. In una società globale gli Stati, riguardo la protezione dei diritti fondamentali, dovrebbero cedere il passo al monitoraggio di soggetti sovranazionali e di organizzazioni non governative, più capaci di evidenziare e reprimere eventuali abusi perché operanti anch’essi su scala globale. Sulla base di tale posizione le attività delle organizzazioni non governative e degli organismi delle Nazioni Unite dovrebbe essere legato da un unico filo conduttore, e cioè l’accettazione universale dei principi contenuti nella Dichiarazione dei diritti fondamentali dell’uomo. Tuttavia la posizione delle Nazioni Unite sui diritti umani continua a non riconoscere la condivisibilitá di valori fondamentali contrastanti con quelli delineati nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo e negli altri documenti che a questa si collegano e ispirano, lasciando chiaramente intendere che la Dichiarazione Universale mira ad essere un catalogo esclusivo. Tale atteggiamento ha causato la reazione del mondo asiatico che ha delineato una propria tipologia di diritti fondamentali regionali, diversi e contrapposti a quelli occidentali ispirati ai c.d. Asian Values (“valori asiatici”). Tale intervento evidenzia la volontà del mondo orientale di non accettare pedissequamente concetti di matrice e impostazione occidentale, senza un dibattito che tenga conto delle specificità culturali, al fine di acquisire delle basi teoriche veramente comuni. Tale approccio non sembra essere accettato dal mondo occidentale che continua a prendere in considerazione le peculiarità delle singole aree geografiche cui si rivolge, esclusivamente al fine di impiantare in maniera graduale i propri concetti di diritti fondamentali. Alcuni giungono a pensare che l'elaborazione dei valori asiatici nasce dalla duplice spinta da un lato di un assoluto rifiuto dei principi fondamentali propri dell’Occidente, e dall’altro dalla promozione di una cultura, in cui evidenziare massimamente le differenze le peculiarità orientali. In particolare le maggiori caratteristiche tipiche dei c.d. valori asiatici si raccolgono intorno ad una serie di concetti comuni soprattutto all’Asia orientale e sud-orientale: in particolare il denominatore comune è l’attenzione costante alla Comunità piuttosto che all’individuo. In tal modo si privilegiano in modo maggiore gli aspetti legati all’Ordine e all’armonia sociali piuttosto che assicurare sempre e comunque lo sviluppo della libertà personale. Conseguentemente, il modello dell’occidente, che pone la massima tutela al singolo, viene considerato come foriero di numerosi effetti indesiderati che portano ad una situazione di grave disordine sociale. Risulta comunque necessario prendere atto che intorno alla universalità dei diritti fondamentali dell’uomo non esiste una condivisione generalizzata né nel mondo occidentale, né con maggiori argomentazioni in ambito esterno. Questa considerazione, per ciò che riguarda la concezione dei diritti fondamentali in parte dell’Asia deve altresì essere integrata dal fatto che alcune regioni Orientali stanno conoscendo un inusitato sviluppo economico, reso ancor più evidente dai meccanismi innescati dalla globalizzazione. Questo impressionante sviluppo, unitamente alla consistenza demografica, lasciano presagire che tali regioni assumeranno in futuro, un ruolo di primo piano sulla scena politica mondiale, e difficilmente accetteranno di buon grado l’estensione globale di valori fondamentali che non sentono completamente propri. Affermare l’esistenza di una serie di diritti fondamentali cui offrire protezione anche a livello internazionale, non può rappresentare un “alibi” da utilizzare per giustificare interventi di tipo armato. Al di là di ogni notazione di carattere politico, i recenti sviluppi che hanno portato ad elaborare il concetto di “guerra umanitaria” sottolineano il grande imbarazzo degli Stati, costretti a inventarsi nuovi escamotage, e la grande inadeguatezza del metodo individuato, per diffondere il rispetto dei diritti fondamentali, proprio perché il concetto di “guerra” è in insanabile contrasto con quello di “diritti fondamentali dell’uomo”.
[1] Nicola Matteucci “Dichiarazione dei diritti e Storia costituzionale” da Dizionario di Politica diretto da Norberto Bobbio, Nicola Matteucci, Gianfranco Pasquino UTET 1992, p. 305. |
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