inserito in Diritto&Diritti nel luglio 2002

Il diritto internazionale penale e la giurisdizione internazionale

di Alessandra Palma

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Premesse

 

La conclusione della Seconda guerra mondiale ha rappresentato il momento fondamentale per il passaggio dalle elaborazioni teoriche alla realtà concreta per il diritto internazionale penale.

Invero, già al termine della Prima guerra mondiale si era parlato di “offese supreme contro la moralità internazionale e l’autorità sacra dei Trattati” in relazione alle cruente azioni commesse da Guglielmo II di Germania, ma si dovrà attendere fino alla conclusione della Seconda guerra mondiale perché incomincino ad emergere beni giuridici che l’intera umanità avverte come propri, ovvero interessi che superino i confini di un singolo ordinamento.

In seguito ai gravi crimini commessi durante la guerra (sterminio degli ebrei, deportazioni di massa, imposizione di lavori forzati…), infatti, la comunità internazionale sentì l’esigenza di punire i criminali nazisti responsabili di enormi atrocità, in relazione alle quali per la prima volta si parlò concretamente di crimini internazionali e di responsabilità degli individui.

L’occasione fu offerta dai processi di Norimberga e Tokio, istituiti proprio con la finalità di condannare i criminali nazisti, ed i cui Statuti prevedevano tre figure di crimini: i crimini di guerra, i crimini contro la pace ed i crimini contro l’umanità.

A  poco più di cinquant’anni dallo svolgimento di quei processi si è insistentemente ritornati a parlare di crimini internazionali in relazione ai gravi avvenimenti verificatisi nella ex Jugoslavia ed in Ruanda, Paesi nei quali in concomitanza con la guerra sono state compiute barbarie tali (genocidi, pulizie etniche, torture…) da non colpire solamente il singolo Paese ma l’intera comunità internazionale.

La pressante esigenza di non lasciare impuniti i responsabili di simili azioni ha indotto l’intera umanità ad interrogarsi sulla necessità di istituire forme di giurisdizione sopranazionali, posto che l’attribuzione ad organi giurisdizionali interni della competenza a reprimere tali crimini potrebbe, di fatto, risultare insoddisfacente per diversi motivi: arretratezza economica, sociale, culturale della comunità statale; non perfetta indipendenza dei giudicanti – e quindi non completa imparzialità – rispetto al potere politico, economico o religioso.

Tale nuovo orientamento è stato seguito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il quale al fine di giudicare i responsabili dei crimini commessi nella ex Jugoslavia e nel Ruanda ha istituito due Tribunali penali internazionali con una giurisdizione limitata sia nel tempo che per materia.

Massima realizzazione del diritto internazionale penale sarebbe da un lato, un generale riordinamento delle fonti (tramite una codificazione) con il pieno recepimento del principio di legalità; dall’altro, la creazione di una giurisdizione penale internazionale permanente.

In questo senso un notevole passo avanti si è avuto con la Conferenza dei Plenipotenziari tenutasi a Roma dal 15 giugno al 17 luglio 1998, e che si è conclusa con l’approvazione dello Statuto che istituisce la Corte penale internazionale permanente.

Lo Statuto all’art. 126 prevede che la Corte entri in funzione quando almeno sessanta Stati l‘abbiano ratificato; obiettivo che è stato raggiunto e superato lo scorso  11 aprile 2002 grazie alle ratifiche di dieci Stati, che hanno permesso di raggiungere il numero di sessantasei ratifiche.

Il raggiungimento dell’obiettivo posto dal protocollo di adesione ha così permesso di dichiarare ufficialmente nata la corte penale che quindi inizierà ufficialmente ad operare dal 1 luglio 2002 ovverosia dal primo giorno del mese successivo ai sessanta giorni trascorsi dall’ultima ratifica.[1]

 

IL DIRITTO INTERNAZIONALE PENALE E LA SUA PENETRAZIONE NEL DIRITTO INTERNO

Si è finora parlato di diritto internazionale penale, vale a dire di quel ramo del diritto internazionale che attiene alla materia penale. Il riferimento va quindi a tutte quelle norme giuridiche (in particolar modo consuetudini e convenzioni) estranee all’ordinamento interno, che sanzionano gli illeciti penali internazionali, cui lo Stato deve adeguarsi in quanto membro della comunità internazionale.

Si parla a questo proposito di “penetrazione” del diritto internazionale in quello interno, ma prima di poter analizzare questo particolare aspetto del diritto internazionale penale occorre premettere una distinzione. La dottrina, comunemente, distingue dal diritto internazionale penale il "diritto penale internazionale", cioè quel ramo del diritto pubblico interno in materia internazionale. Il termine “internazionale” sta quindi ad indicare l’estraneità rispetto al nostro ordinamento e territorio di un aspetto del fatto (es. nazionalità straniera del colpevole o della vittima; commissione del reato all’estero…).[2]

La caratteristica del diritto penale internazionale è pertanto quella di essere un complesso di norme mediante le quali l’ordinamento giuridico interno provvede, con riferimento alla materia penale, a risolvere i problemi imposti allo Stato dal fatto della sua coesistenza con altri Stati sovrani.[3] E’ naturale che rispetto a queste norme non si potrà porre un problema di penetrazione trattandosi di diritto interno.

Di penetrazione è invece possibile, o addirittura necessario, parlare in relazione al diritto internazionale penale.

L’ordinamento italiano non predispone una disciplina organica dei crimini internazionali in attuazione delle norme convenzionali e consuetudinarie del diritto internazionale e la loro repressione, quindi, si realizza in virtù delle norme di adattamento alle singole convenzioni internazionali, nonché in virtù del rinvio automatico al diritto internazionale generale previsto dall’art. 10, 1° co., della Costituzione.

Un processo di adeguamento al diritto internazionale in cui però lo Stato non è mai protagonista inerte e passivo, ma parte attiva, posto che il metodo comunemente seguito dagli ordinamenti statali per la disciplina e la repressione degli illeciti di rilevanza internazionale è il c.d. “metodo di adeguamento indiretto”: è lo Stato che con appositi procedimenti (in Italia tramite il procedimento di ratifica) fa entrare il diritto internazionale nel diritto interno, a differenza, quindi, di quanto avverrebbe accogliendo un metodo di penetrazione diretto con cui il diritto internazionale farebbe parte tout court del diritto interno.[4]

L’intermediazione   del    legislatore    statale,   che   avviene   di   regola   mediante    la predisposizione di apposite norme incriminatrici, si rende comunque necessaria anche in quei Paesi dove è ammissibile un’applicazione diretta delle norme convenzionali da parte  degli organi giudicanti nazionali.

Le fattispecie criminose individuate dalle Convenzioni sono generalmente delineate in termini generici, soprattutto perché sono spesso il risultato di compromessi, per cui una certa vaghezza si rende necessaria per far sì che il testo sia accettato dal maggior numero possibile di Stati. Nella maggior parte dei casi, poi, si tratta di ipotesi di reato che mal si prestano ad una specificazione rigorosa in quanto tante sono le possibilità ed i mezzi di realizzazione che prevederli diventa estremamente difficile, così come una loro definizione enumerativa non sarebbe mai soddisfacente.[5] Ciò induce, quindi ad utilizzare nozioni di significato talmente ampio da sembrare di più direttive di legislazione penale piuttosto che vere e proprie fattispecie delittuose. Infine si deve tener presente che gli atti internazionali quasi mai contengono indicazioni in ordine all’entità della sanzione, salvo limitarsi a richiederne la severità: sarebbe quindi impossibile una loro applicazione diretta.

Di particolare interesse per il tema da noi trattato può essere l’esame del lungo iter che ha portato lo Stato italiano alla ratifica della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio”, adottata il 9 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Dopo avervi aderito con legge 11 marzo 1952, n. 153, il nostro legislatore è per lungo tempo rimasto inadempiente rispetto all’impegno derivante dall’art. V della Convenzione[6] cui l’Italia si è adeguata solo nel 1967, con legge 9 ottobre, n. 962.

In realtà, nell’atto di adeguamento il legislatore è andato oltre l’impegno assunto in sede internazionale. Egli ha, infatti, ampliato le fattispecie criminose aggiungendo quelle di “deportazione a fine di genocidio” e di “imposizione di marchi o segni distintivi” indicanti l’appartenenza ad un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, ed estendendo, inoltre, l’attuazione della disposizione “all’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio” (art. 8 l. 962). Tali aggiunte sono espressa testimonianza di una partecipazione attiva dello Stato nell’adeguarsi al diritto internazionale.

 

SUL PROGETTO ONU PER L’EMANAZIONE DI UN CODICE DEI CRIMINI CONTRO LA PACE E LA SICUREZZA DELL’UMANITA’

Come visto in precedenza due sono gli elementi essenziali perché si possa concretamente parlare dell’esistenza di un diritto internazionale penale: l’esistenza di un nucleo di regole penalistiche volte a tutelare i diritti fondamentali della persona e la creazione di organi di giustizia internazionale permanente che permettano la repressione dei crimini commessi dagli individui.

L’esigenza di una collaborazione fra gli Stati in vista di una codificazione dei crimini internazionali è stata avvertita, già al termine dell’ultima Guerra mondiale dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la quale ha adottato una serie di risoluzioni volte da un lato a favorire la consacrazione dei principi generali del diritto internazionale penale già elaborati dai Tribunali di Norimberga e Tokio, e che fino ad allora vincolavano solo gli Stati firmatari degli accordi istitutivi, fra i quali in principal modo quello della responsabilità e perseguibilità dell’individuo per i crimini commessi e quello della codificazione dei crimini contro la pace e la sicurezza contro l’umanità, strumento necessario per assicurare il rispetto del principio di legalità e di conseguenza per garantire una giustizia internazionale equa, imparziale ed effettiva.

Terminati i Processi di Norimberga e di Tokio, l’Assemblea Generale dell’Onu affidò alla Commissione del diritto internazionale, contemporaneamente alla sua istituzione, il compito di  redigere  un  Progetto  di  codice  dei crimini  contro  la pace  e  la sicurezza dell’umanità.[7]

L’iniziativa dell’Assemblea Generale rispondeva all’esigenza di sanare con uno strumento vincolante multilaterale, a vocazione universale, il carattere della retroattività delle norme che contemplavano i crimini contro l’umanità nello Statuto del Tribunale di Norimberga. Inoltre, con lo stesso strumento si volevano svincolare i crimini contro l’umanità dalla connessione con i crimini di guerra e contro la pace disposta dall’Accordo di Londra, oltre a precisare e possibilmente integrare, la definizione dei vari crimini individuali, rispetto alle formule contenute nello stesso Statuto del Tribunale di Norimberga.[8]

In previsione della lunghezza dei tempi di realizzazione del Progetto, i lavori relativi a quest’ultimo furono affiancati da numerose iniziative volte a riaffermare le norme dell’Accordo di Londra. In ambito ONU, si possono ricordare la risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 3-I del 13 febbraio 1946, che raccomandava agli Stati membri l’arresto dei criminali di guerra e la loro estradizione al paese nel cui territorio il crimine era stato commesso e la risoluzione 95-I dell’11 dicembre dello stesso anno, in cui si riaffermavano i principi espressi dai Tribunali militari internazionali di Norimberga e Tokio.

In relazione a strumenti convenzionali si possono ricordare la Convenzione sul genocidio adottata dall’ONU nel 1948 e la Convenzione sull’apartheid, approvata nel 1973.

Ritornando al progetto di codice, la Commissione presentò una prima bozza nel 1951 a cui, in seguito alle osservazioni  fatte  pervenire  dagli  Stati,  furono  apportate  alcune modifiche e nel 1954 fu completata una seconda bozza.

Il progetto di codice del 1954 non conteneva che poche norme,[9] per la quasi totalità modellate su quelle enunciate nello Statuto del Tribunale di Norimberga e nella Convenzione sul genocidio. Come nello Statuto del Tribunale di Norimberga, le fattispecie criminose erano state raggruppate in un’unica disposizione: l’art. 2 comprendeva l’aggressione, la minaccia di aggressione, l’annessione, l’intervento negli affari interni od esteri di un altro Stato ed altre forme di aggressione indiretta, il genocidio, i crimini contro l’umanità ed i crimini di guerra.

Le altre disposizioni, invece, appartenevano ad una generica “parte generale” del codice: negli ultimi due articoli si disegnavano alcuni limiti all’operatività delle cause di esclusione della responsabilità, veniva, cioè, sottratta ogni rilevanza alla qualità di Capo di Stato o di Governo (art. 3), così come al fatto di aver agito in conformità di un ordine del superiore gerarchico (art. 4).

Non mancarono critiche circa l’assenza di un insieme di norme destinate a risolvere le delicate questioni connesse all’applicazione di principi generalmente riconosciuti nelle moderne legislazioni penali. All’interno del codice, infatti, si faceva riferimento a nozioni come “complicità”, “tentativo”, “complotto” e “incitamento diretto”, senza fornire alcun chiarimento circa il loro contenuto. Anche in relazione all’elemento psicologico del reato venivano usati termini come “intenzione” e “motivi” senza specificarne il reale significato.[10]

L’Assemblea Generale, tuttavia rinviò l’esame del documento alla Commissione, fino a quando non fossero stati completati i lavori relativi alla definizione dell’aggressione, ritenendo che vi fosse una stretta connessione tra quest’ultima e la definizione di alcuni dei crimini contenuti nel Progetto.

Dopo un intervallo di quasi trent’anni, la Commissione del diritto internazionale è tornata ad occuparsi dell’argomento, nei primi anni ottanta e il testo del 1954 fu utilizzato come punto di partenza per delineare la nuova struttura del progetto. L’esigenza di riservare una parte del codice all’enunciazione dei “principi generali del diritto penale” è emersa, sin dall’inizio, nei dibattiti tenutisi in seno alla Commissione.

Da quel momento, il progetto è stato ripreso ed abbandonato più volte senza mai arrivare ad una formulazione definitiva. Se, infatti, gli Stati hanno raggiunto un accordo pressoché unanime sulla gran parte dei “principi generali”- responsabilità individuale, imprescrittibilità, irretroattività del codice, inapplicabilità dell’esimente dell’ordine superiore - non si può ancora rilevare un consenso generale sulla parte relativa all’elenco dei crimini.

Naturalmente, però, presupposto fondamentale dell’efficacia di un Codice penale internazionale è che questo sia accettato dall’universalità degli Stati membri della comunità internazionale. A questo proposito è stato suggerito un metodo per l’individuazione e la definizione delle fattispecie criminose da inserire nel Progetto di codice, al fine di facilitare la formazione del consenso, che consisterebbe in una sorta di inventario e trasposizione nel codice di norme contenute in convenzioni multilaterali in cui si vietano atti individuali che vengono definiti come crimini.[11]

Per quanto sia oggi indiscusso il contributo di convenzioni multilaterali per la ricostruzione di norme internazionali generali, e per quanto sia auspicabile che il progetto di codice in esame comprenda fattispecie criminose contemplate come tali nell’ordinamento internazionale a livello consuetudinario, un’applicazione letterale del metodo in questione sembra poco utile per raggiungere l’universalità dei consensi. Si deve, infatti, tenere conto che le Convenzioni multilaterali, dopo aver costituito il risultato di faticosi negoziati, hanno raggiunto diversi livelli di partecipazione e sarebbe difficile pensare che uno Stato aderisca ad un codice che contenga la formulazione di un crimine che non ha accettato nel contesto di un altro strumento internazionale. Un modo per ovviare a questo inconveniente potrebbe essere quello di offrire al negoziato i crimini codificati in precedenti convenzioni specifiche, come punto di partenza delle trattative, ma è facile pensare che il risultato finale si discosterebbe in peius dalle previsioni delle singole Convenzioni.[12]

In conclusione non si può prescindere da una notazione: qualsiasi codice di diritto penale, e di conseguenza anche un codice internazionale deve contenere l’indicazione dei principi generali, ovvero l’indicazione degli elementi costitutivi del fatto-reato. In questo senso è stato più volte rilevato che il diritto internazionale penale, trovandosi ad assolvere sul piano internazionale una funzione di protezione analoga a quella che negli ordinamenti interni svolge il diritto penale, dovrebbe da questi derivare la maggior parte dei propri elementi giuridici.

Nei Progetti di codice che si sono succeduti, così come negli Statuti dei Tribunali che si sono dovuti occupare di crimini internazionali, si è dovuto costantemente affrontare il problema di applicare alle fattispecie delittuose le nozioni ed i particolari principi che caratterizzano in generale la normazione penale.

Anche nei crimini internazionali, è possibile, pertanto, distinguere gli stessi elementi propri della nozione di reato nel diritto penale interno: l’elemento oggettivo e l’elemento soggettivo; e nondimeno è possibile individuare la vigenza di principi fondamentali quali il principio di legalità, anche se si deve tenere conto del fatto che in questo ambito esso trova un’applicazione meno rigorosa. Questa limitazione al principio di legalità, che era già stata affermata durante il processo di Norimberga, è stata riconosciuta anche negli atti internazionali relativi ai diritti umani adottati nel periodo successivo a Norimberga. Il “Patto sui diritti civili e politici” del 1966, prevedendo all’art. 15 che nessuno possa essere condannato per un fatto che al momento della commissione non era previsto dalla legge come reato, aggiunge al 2° comma, che “nulla, nel presente articolo preclude il deferimento a giudizio e la condanna di qualsiasi individuo per atti od omissioni che, al momento in cui furono commessi, costituivano reati secondo i principi generali del diritto riconosciuti dalla comunità delle nazioni”.

La stessa eccezione è prevista dall’art. 7 della “Convenzione europea dei diritti dell’uomo” che richiama i “principi di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”.[13]

Un esempio concreto dell’utilizzazione dei principi generali di diritto penale in campo internazionale ci è fornito dalla redazione dello Statuto della Corte penale internazionale, che (così come la precedente redazione degli statuti dei Tribunali ad hoc per la ex Jugoslavia ed il Ruanda) costituisce sicuramente un’accelerazione per la redazione definitiva di un codice internazionale. Il consenso raggiunto in relazione alla definizione dei crimini e dei principi generali in questo Statuto e nei documenti ad esso annessi, fra i quali in principal modo il testo che definisce gli elementi costitutivi dei crimini ed il Regolamento di procedura e di prova, potrà, infatti, influire positivamente sul negoziato relativo all’elaborazione del codice.

 

LA STRADA VERSO UNA GIURISDIZIONE INTERNAZIONALE PERMANENTE: BREVE STORIA DEI TRIBUNALI INTERNAZIONALI

Accanto all’impegno per la creazione di un corpus di norme giuridiche la comunità internazionale ha sempre cercato di individuare obblighi e meccanismi che garantissero in qualche modo la celebrazione dei processi e la punizione dei colpevoli, in quanto nell’assenza di forme istituzionalizzate di giurisdizione internazionale la repressione dei crimini risulta affidata interamente agli Stati, che provvedono alla punizione dei responsabili di tali crimini avvalendosi delle norme processualistiche previste dall’ordinamento interno per radicare la propria competenza.

Si rende quindi opportuno analizzare brevemente quali sono gli strumenti con cui i singoli ordinamenti nazionali reprimono i crimini internazionali e se ed in che modo la natura internazionale dell’offesa e del bene protetto influisca sul fondamento della loro potestà giudiziale.

Generalmente la giurisdizione è territoriale, è cioè esercitata dai Tribunali del luogo dove è avvenuta l’azione,[14] anche se alcuni sistemi penali prevedono  che la giurisdizione nazionale si esplichi anche in altre circostanze: ad esempio, il codice penale francese prevede che essa si esplichi in relazione alla nazionalità del reo, processando così il proprio cittadino anche se ha commesso il fatto all’estero (principio della nazionalità).

In realtà anche il nostro codice penale prevede delle deroghe al principio di territorialità. In particolare, l’art. 7 prevede che vi siano alcuni reati punibili incondizionatamente anche se commessi all’estero ed il numero 5 della norma in particolare prevede che sono punibili i reati per i quali speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana (principio di universalità).

La disposizione in commento deve essere interpretata alla luce dei principi di diritto internazionale, il quale prevede che per la maggior parte dei crimini internazionali si applichi il principio della giurisdizione universale in forza del quale qualsiasi Stato può esercitare la propria giurisdizione sul reo in deroga ai normali criteri della territorialità e della nazionalità del reo o della vittima.

Fra i crimini più gravi soggetti alla giurisdizione universale figurano le gravi violazioni del diritto e degli usi di guerra, i crimini contro l’umanità, nonché alcuni crimini previsti da apposite convenzioni, fra i quali la tortura.

La convenzione internazionale contro la tortura, firmata a New York nel 1984, infatti, all’art. 5 sancisce tale principio stabilendo che “ogni Stato parte adotta altresì le misure necessarie a determinare la sua competenza al fine di giudicare le suddette trasgressioni (quelle di cui all’art. 4), qualora il suo presunto autore si trovi su qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione e il detto Stato non lo estradi., in conformità all’art. 8….”.

Di particolare interesse risulta anche la Convenzione sul genocidio, adottata nel 1948, la quale al contrario di quella contro la tortura, non contiene un’espressa previsione circa l’esercizio della giurisdizione su base universale in quanto gli Stati firmatari avevano previsto l’istituzione di una Corte penale internazionale (in realtà mai istituita), che avrebbe avuto competenza esclusiva, per gli Stati che ne accettavano la giurisdizione, nel processare gli accusati. Solamente per gli Stati che non ne accettavano la giurisdizione l’art. VII della Convenzione faceva implicitamente riferimento alla regola del “processare o estradare” in relazione alla quale lo Stato che entra in contatto con la persona sospettata di genocidio deve giudicarla, se la legge glielo consente, o estradarlo verso un altro Paese disposto a processarlo.

Un’importante applicazione del suddetto principio si è avuta nel processo a carico di Adolf Eichmann, cittadino tedesco condannato a morte nel 1962 dalla Corte Suprema Israeliana. Israele rivendicò, infatti, la sua giurisdizione (pur non essendo Eichmann cittadino israeliano e pur non essendo israeliana la maggioranza delle vittime) in considerazione del carattere universale dei crimini contro l’umanità per i quali veniva processato.

In realtà, però, nel corso dei secoli si è radicata sempre più l’idea di ricorrere ad istituzioni giurisdizionali internazionali per giudicare i più gravi crimini commessi da individui.

Un interessante precedente storico è costituito dal processo a Peter Von Hagenbach, datato 1474, il quale venne processato e condannato per gravi crimini commessi contro “le leggi di Dio e dell’uomo” durante l’occupazione della città di Breisach (crimini che non essendo stati commessi in tempo di guerra, oggi sarebbero definiti “crimini contro l’umanità”), da una Commissione composta di giudici provenienti da Alsazia, Germania, Svizzera ed Austria (un collegio giudicante a composizione “internazionale”).

E’ però a partire dalla seconda metà del XIX secolo che prendono concretamente corpo i progetti di istituzione di tribunali penali internazionali.  Al termine della guerra franco-prussiana del 1870, lo svizzero Gustav Moynier (uno dei fondatori della Croce Rossa Internazionale), chiese l’istituzione di un tribunale penale internazionale che punisse le violazioni della Convenzione di Vienna del 1864.

 Quest’idea fu però respinta dai più importanti internazionalisti dell’epoca, e venne riproposta solo al termine della Prima guerra mondiale quando, nel corso della Conferenza di pace di Parigi del 1919, per opera delle potenze vincitrici, fu istituita la prima commissione di inchiesta: “Commissione sulle responsabilità degli autori della guerra e sull’applicazione delle sanzioni”.

Alla Commissione, fu affidato il compito di svolgere le attività investigative, relative ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità commessi da militari tedeschi (primo fra tutti il Kaiser Guglielmo II) e turchi nel corso del conflitto. Le fasi processuali avrebbero dovuto essere affidate ad un tribunale ad hoc, ma questo in realtà non fu mai istituito a causa, soprattutto, del venir meno della volontà degli stessi Alleati e della mancata consegna dell’accusato da parte del Governo olandese, presso il quale l’imperatore Guglielmo II aveva trovato rifugio.[15]

 

- Segue: I TRIBUNALI DI NORIMBERGA E TOKIO

Le tremende atrocità commesse durante la Seconda guerra mondiale spinsero le potenze vincitrici a riprendere il dialogo circa la necessità di una giustizia internazionale. La volontà di assicurare alla giustizia i responsabili dei peggiori crimini contro l’umanità, portò all’istituzione di due Tribunali militari speciali: Tribunale internazionale militare di Norimberga e Tribunale internazionale militare per l’Estremo Oriente (c.d. Tribunale di Tokio).

I due Tribunali ebbero indubbiamente il merito di elaborare principi e concetti fondamentali per il diritto internazionale penale fra i quali innanzitutto quello della responsabilità penale individuale per le più gravi violazioni del diritto umanitario nonchè la definizione, data per la prima volta in un testo ufficiale, di crimini contro l’umanità.

Con la condanna degli individui responsabili dei crimini commessi durante la Seconda guerra mondiale, per la prima volta infatti, i Tribunali avevano posto in evidenza che esiste un sistema di giustizia internazionale tale da creare nel singolo individuo diritti ed obblighi di diritto internazionale, senza necessità di mediazione da parte degli Stati.[16]

Veniva in questo modo superato il principio della responsabilità statale sostenuto dalla dottrina internazionalistica, secondo la quale il diritto internazionale come diritto fra gli Stati attribuisce soltanto a questi diritti e doveri, ma non agli individui che quindi non possono essere soggetti di diritto internazionale, con la conseguenza che il crimine dell’individuo non sarebbe altro che un aspetto del crimine statuale.

Gli Statuti dei Tribunali elencavano, inoltre, alcuni principi essenziali in materia processuale come il diritto ad un processo equo fondato sul contraddittorio ed il diritto di difesa.

Nonostante i notevoli apprezzamenti per le rilevanti novità introdotte nel diritto internazionale, contro tali processi non mancarono però neppure aspre critiche.

Il primo appunto che fu mosso concerneva l’unilateralità del giudice, costituito solo da rappresentanti delle Nazioni vincitrici, da molti considerato come l’espressione di una giustizia imposta dai vincitori ai vinti. Si disse quindi che i due organismi erano solo limitatamente internazionali in quanto rappresentativi di una parte minoritaria della comunità internazionale. Ciò derivava sia dal loro fondamento giuridico sia dai limiti posti all’esercizio delle loro competenze ratione personae. Sotto il primo aspetto, essi trovavano il loro fondamento in strumenti posti in essere dalle sole Potenze vincitrici: per quanto riguarda il Tribunale di Norimberga, dall’Accordo di Londra dell’8 agosto 1945 tra Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Unione Sovietica; per quanto riguarda il Tribunale di Tokio, da una decisione unilaterale del 19 gennaio 1946 del Comandante Supremo delle Potenze Alleate, generale MacArthur. Sotto il secondo aspetto, fin dall’inizio, fu chiaro che tali Tribunali si sarebbero occupati esclusivamente di individui appartenenti alle Potenze nemiche, facendo così della nazionalità un elemento chiave per la selezione degli imputati.

Sotto il profilo della competenza i due Tribunali avevano cognizione per i crimini contro la pace, i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, questi ultimi limitatamente agli atti posti in essere in esecuzione o in connessione con le altre due categorie di crimini. La loro giurisdizione, tuttavia, era limitata ai crimini che non si caratterizzavano per una particolare localizzazione geografica, lasciando gli altri alla competenza dei giudici interni ed elevando, in questo modo, la gravità del crimine a criterio di ripartizione fra le competenze del giudice internazionale e le competenze dei giudici interni.[17]

Ancora più incisivo era il problema relativo all’osservanza del divieto di retroattività. Il rispetto di questo principio, definito come un “principio fondamentale di giustizia” dagli stessi redattori del Patto di Londra, imponeva di non punire azioni che al tempo in cui furono commesse non erano punibili. Quest’obiezione non toccava la punibilità dei crimini di guerra, già da tempo conosciuti nel diritto internazionale, ma quella delle altre due fattispecie: i crimini contro l’umanità e la guerra di aggressione, definiti per la prima volta negli Statuti dei due Tribunali ad hoc.

Il problema era quindi quello di conciliare il principio di retroattività con la volontà di non lasciare impuniti questi crimini. Per i crimini contro l’umanità, in particolare, si trovò quindi la scappatoia giuridica di collegare questi fatti ai crimini di guerra, dichiarando punibili soltanto i crimini in diretta connessione temporale, con quelli a cui lo Statuto si riferiva come a crimini di guerra. La conseguenza era però che tutte le azioni che corrispondevano alla fattispecie di crimini contro l’umanità, ma che furono commesse, prima della guerra, da tedeschi contro tedeschi, e soprattutto l’assassinio di massa degli ebrei, già allora incominciato, non rientravano in quest’ambito e rimasero impunite.

Dietro la spinta dei risultati dei due Tribunali militari, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, adottò la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, in cui si prevedeva l’istituzione in tempi rapidi di un tribunale internazionale (mai istituito), il quale avrebbe avuto competenza esclusiva, per gli Stati che ne accettavano la giurisdizione, nel processare gli accusati.

 

- Segue: IL TRIBUNALE PER I CRIMINI COMMESSI NELLA EX JUGOSLAVIA

La comunità internazionale è nuovamente ricorsa all’istituzione di Tribunali internazionali in seguito alle guerre di Jugoslavia e Ruanda.

Il conflitto jugoslavo è ormai considerato il prototipo delle guerre di pulizia etnica, che  significa usare la violenza e le deportazioni per cancellare ogni traccia delle altre comunità etniche che in precedenza coabitavano con i serbi nei territori della Repubblica jugoslava.

La guerra ha preso le mosse dalla dichiarazione di indipendenza di Croazia e Slovenia del 25 giugno 1991. Il passo politico precedente, cui le due dichiarazioni di indipendenza si riallacciano, è quello compiuto dalla Serbia di Milosevic, nel marzo 1989, che aveva messo fine allo speciale statuto di autonomia riconosciuto nella Costituzione jugoslava alle province della Vojvodina e del Kossovo: l’aumentato peso politico e militare della Serbia, nella complessa struttura costituzionale della Federazione jugoslava, minacciava direttamente i regimi politici delle altre repubbliche.

Nel giugno del 1991 l’esercito federale (l’Armata Rossa, in cui prevale la componente serba) interviene in Slovenia. La breve guerra serbo-slovena si conclude, però, con la sostanziale vittoria della piccola repubblica settentrionale. Nello stesso periodo scoppiano anche i primi combattimenti in Croazia tra forze militari e di polizia croate e milizie serbe, sostenute dal governo di Milosevic di Belgrado.

A queste prime dichiarazioni di indipendenza fanno seguito anche quella della Macedonia, il 15 settembre 1991, a seguito di un referendum vinto dagli indipendentisti con oltre il 95% di consensi, e quella della Bosnia-Erzegovina votata, il 14 ottobre dello stesso anno, dalla maggioranza del parlamento.

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con risoluzioni n. 713 (1991), 721 (1991) e 727 (1992), descrive le violazioni di diritto internazionale umanitario, che si stanno registrando nell’ex Jugoslavia, come episodi che minacciano la pace e la sicurezza internazionale.

Nei primi mesi del 1992 Serbia e Croazia firmano il cessate il fuoco; contemporaneamente in Bosnia-Erzegovina il referendum sull’indipendenza vince con il 62% di suffragi. Il referendum è, però, boicottato dai serbi di Bosnia, la cui assemblea popolare, proclama, il 7 aprile 1992, la Repubblica serba di Bosnia, il cui leader Karadzic dichiara che essa occupa il 69% del territorio della Bosnia.

Il 27 aprile dello stesso anno viene proclamata a Belgrado la nascita della Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro). Questi avvenimenti segnano lo smembramento di quella che era la Repubblica socialista federale di Tito.

Respingendo seccamente le proposte di creare una libera federazione, rifiutando di adottare le riforme (democrazia e libero mercato all’occidentale) che avevano già investito l’ex blocco sovietico, Milosevic ha scelto il confronto militare. Il 13 luglio 1992, con risoluzione 764 del Consiglio di Sicurezza l’ONU stabilisce che “le violenze perpetrate nella ex Jugoslavia costituiscono crimini internazionali la cui commissione genera responsabilità penali individuali” e successivamente il 6 ottobre, con risoluzione 780, il Consiglio di Sicurezza  istituisce una commissione di esperti (cd. “Commissione 780”) con il compito di indagare su queste violazioni del diritto umanitario.

Il 10 febbraio 1993 la Commissione consegna al Consiglio di Sicurezza il suo primo rapporto, contenente una serie di dati sui crimini commessi dalle varie parti in lotta nel territorio della ex Jugoslavia. Spinto dalle incalzanti richieste degli Stati e dalla escalation di atrocità, di cui i mass media cominciano a dare notizia, il Consiglio di Sicurezza il 22 febbraio 1993 adotta la risoluzione n. 808 con cui incarica il Segretario Generale Boutros-Ghali di presentare entro sessanta giorni un rapporto sull’istituzione di un tribunale penale internazionale che giudichi i crimini perpetrati nella ex Jugoslavia. Nel maggio dello stesso anno il Segretario Generale dell’ONU presenta il rapporto richiesto, comprendente la proposta di Statuto del tribunale internazionale per la ex Jugoslavia[18] e  la cui bozza viene votata, il 25 maggio, all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza, che istituisce formalmente, con la risoluzione n. 827, il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia, con sede all’Aja. Al Tribunale sono state attribuite competenze ratione temporis, loci e materiae limitate: esso è competente per i crimini commessi nella ex Jugoslavia a partire dal 1° gennaio 1991 fino ad una data che il Consiglio determinerà quando sarà ristabilita la pace. Ratione materiae, la competenza è stata limitata ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità, con esclusione quindi del crimine di aggressione.[19]

 

- Segue: IL TRIBUNALE PER I CRIMINI COMMESSI NEL RUANDA

A breve distanza dalla decisione del Consiglio di Sicurezza di istituire un Tribunale internazionale ad hoc per la ex Jugoslavia, il supremo organo dell’ONU ha imboccato per la seconda volta questa strada: il giorno 8 novembre 1994  con  risoluzione  n. 1168 viene istituito il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, con  sede  ad  Arusha.  Il Tribunale ha competenza per i crimini di guerra e contro l’umanità commessi nel territorio del Ruanda e, limitatamente ai cittadini ruandesi, per gli atti e violazioni commesse nel territorio degli Stati limitrofi, dal 1° gennaio 1994 al 31 dicembre 1994.

Sembra opportuno esaminare brevemente le ragioni che hanno portato all’istituzione di questo Tribunale speciale. La crisi che si è verificata nel 1994 in Ruanda non costituisce un fatto improvviso: da decenni il paese era teatro di scontri tra le due etnie Hutu e Tutsi. La situazione è, però, precipitata il 6 aprile 1994 quando, dopo un attentato che ha provocato la morte dei due presidenti di Ruanda e Burundi, gli Hutu al potere hanno iniziato a compiere gravi massacri a danno delle popolazioni Tutsi.[20]

Nel maggio del 1994, in seguito ad una missione in Ruanda dell’Alto Commissario per i diritti umani dell’ONU, viene chiesta la convocazione di una sessione straordinaria della Commissione dei diritti umani. La sessione si svolge il 24 e 25 dello stesso mese e il relatore speciale per il Ruanda, Réné Degni-Ségui, nominato dalla Commissione, nei suoi rapporti ribadisce più volte il carattere di genocidio che rivestono i massacri compiuti contro i Tutsi.[21]

La situazione si protrae fino al 15 luglio 1994, quando il potere passò al Fronte Patriottico del Ruanda, composto in gran parte da Tutsi, ma con la partecipazione di leader moderati Hutu. Il nuovo Governo decise di ripristinare l’ordine, ma anche di fare giustizia. Diverse erano le esigenze: in primo luogo quella di punire i colpevoli di crimini orrendi, dettata anche dalla necessità pratica di evitare lo scatenarsi di vendette private che avrebbero creato una spirale di violenze; in secondo luogo era necessario assicurare dei processi equi ed imparziali, in modo da convincere le migliaia di Hutu (sparpagliati in Burundi, Tanzania e Zaire), a rientrare con la convinzione che sarebbero

stati giudicati in base a processi regolari.

Si pose quindi il problema dei tribunali competenti: i crimini dovevano essere giudicati dai tribunali del Ruanda o da un organo internazionale? A favore della soluzione “nazionale” vi erano varie considerazioni: le corti ruandesi potevano costituire il forum conveniens, perché le prove principali si trovavano sul territorio del Ruanda; inoltre, quelle Corti sarebbero state più sensibili di qualunque altro tribunale alle esigenze della popolazione; ma soprattutto i processi da esse tenuti sarebbero stati “visti” da tutta la popolazione. Tuttavia i tribunali ruandesi avrebbero potuto rivelarsi non imparziali, proprio per la fortissima carica emotiva dei processi contro i crimini commessi in quel Paese. Un altro problema da tenere in considerazione è che la guerra civile aveva avuto come conseguenza, tra l’altro, l’uccisione o la fuga di molti giudici e procuratori ruandesi: il ricorso ai tribunali nazionali avrebbe quindi comportato la necessità del rapido ripristino della magistratura ruandese.[22]

A favore della creazione di un Tribunale internazionale militavano alcune considerazioni importanti. Anzitutto la gravità degli atti di genocidio perpetrati nel 1994 in quel Paese induceva a ritenere che quei crimini non dovessero concernere solo la comunità ruandese, ma tutta la comunità internazionale: perciò, sarebbe stato logico che su di essi si pronunciasse un organo internazionale, espressione di tutta la comunità internazionale. In secondo luogo, quei crimini costituiscono non solo reati per il diritto ruandese, ma anche atti vietati solennemente dal diritto internazionale: e un tribunale internazionale può, più di qualunque corte interna, interpretare ed applicare il diritto internazionale. In terzo luogo, solo un tribunale internazionale poteva dare garanzie certe di assoluta indipendenza ed imparzialità: la composizione di un tale tribunale e le sue regole di procedura potevano consentire una valutazione super partes difficilmente conseguibile da un tribunale interno.[23]

Inizialmente, lo stesso Governo del Ruanda si pronunciava a favore della creazione di un Tribunale internazionale: il 6 agosto 1994, il Ministro della Giustizia del Ruanda inviava al Segretario Generale dell’ONU, Boutrus Ghali, una lettera con la quale chiedeva l’urgente istituzione di un tribunale, concludendo che “la pace e la stabilità della regione sarebbero state molto potenziate da una risposta internazionale coerente, rapida ed efficace”.

Dopo questo primo sostegno alla soluzione internazionale, il Governo del Ruanda ha incominciato  ad esitare fino ad arrivare a schierarsi contro la creazione del Tribunale, al punto che trovandosi ad essere membro non permanente del Consiglio di Sicurezza, ha votato contro la risoluzione n. 1168.

Tra i vari motivi che hanno indotto il Governo ruandese a questa posizione, alcuni meritano di essere sottolineati. Innanzitutto, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva escluso dallo Statuto la pena di morte per i criminali condannati. Il Ruanda, invece, prevede la pena di morte e soprattutto intendeva irrogarla contro gli autori dei più gravi crimini commessi in quel periodo. Di fronte alla fermezza del Consiglio di Sicurezza, il governo ruandese ha fatto notare che l’istituzione del Tribunale internazionale, e la circostanza che probabilmente esso processerà solo i leader politici e militari (attualmente in Ruanda sono detenuti più di ottomila ruandesi sospettati di gravi crimini, e il Tribunale internazionale potrà processarne solo alcune centinaia), porterà a una sorprendente conclusione: i capi, se condannati a livello internazionale, dovranno solo scontare pene detentive, mentre gli autori materiali dei crimini saranno passibili della pena capitale, nell’ipotesi assai probabile che essi siano processati da tribunali ruandesi.

Un’altra obiezione mossa dal Ruanda concerne la competenza temporale del Tribunale internazionale. Le Nazioni Unite hanno deciso che questo organo può giudicare non solo i reati commessi dagli Hutu, ma anche le violazioni perpetrate dai Tutsi durante la guerra civile; di conseguenza, la competenza temporale del Tribunale non è limitata al periodo aprile-luglio 1994 (come richiesto dal Ruanda), ma si estende a tutto il 1994 e quindi anche agli atti commessi dal Fronte Patriottico del Ruanda.[24]

 

- Segue: IL FONDAMENTO LEGALE PER L’ISTITUZIONE DEI TRIBUNALI INTERNAZIONALI

Come si visto in precedenza, i Tribunali per la ex Jugoslavia ed il Ruanda sono stati istituiti dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con due risoluzioni. Grandi perplessità ha suscitato nella dottrina la via scelta per l’istituzione di questi tribunali che non è stata quella dell’accordo internazionale, bensì quella della decisione di un organo internazionale.

Varie sono state le tesi proposte in ordine alla questione della legittimità dei due nuovi organi giudiziari. Per chiarire il problema è interessante prendere le mosse dalla sentenza emessa dalla Camera d’Appello del Tribunale per la ex Jugoslavia, il 2 ottobre 1995, sul caso Dusko Tadic, la quale si è occupata della controversa questione relativa al fondamento giuridico del potere del Consiglio di Sicurezza di istituire lo stesso Tribunale.[25]

Le contestazioni della difesa, portate all’attenzione della Camera d’Appello, si muovevano lungo due direttrici fondamentali. Con una prima eccezione si chiedeva alla Camera d’Appello di pronunciarsi sul potere del Consiglio di Sicurezza di istituire un organo sussidiario di carattere giurisdizionale. Ciò che si contestava era che il Consiglio potesse attribuire ad un organo sussidiario una funzione che la Carta delle Nazioni Unite non conferisce allo stesso Consiglio.

Il Consiglio nella risoluzione 827 non aveva preso posizione sulla base giuridica dell’istituzione del Tribunale, chiedendo al Segretario Generale un rapporto. Nel rapporto del 3 maggio 1993, il Segretario Generale sosteneva che il Tribunale è un organo sussidiario del Consiglio ai sensi dell’art. 29 della Carta delle Nazioni Unite. In realtà l’art. 29 stabilisce che il Consiglio può istituire organi sussidiari che ritiene necessari per lo svolgimento delle sue funzioni, mentre nel caso in esame all’organo sussidiario (il Tribunale) è stata attribuita una funzione, quella giurisdizionale, che la Carta non attribuisce al Consiglio.

La Camera d’Appello ha però ritenuto legittima l’istituzione del Tribunale in quanto la funzione esercitata dal Consiglio, attraverso questa misura, è quella di assicurare il mantenimento della pace.

Con una seconda eccezione si chiedeva alla Camera d’Appello di verificare se l’istituzione del Tribunale costituisse una misura riconducibile ad uno dei poteri attribuiti al Consiglio di Sicurezza nell’ambito della Carta, dal momento che una misura di questo genere non è prevista espressamente in alcuna disposizione.

L’individuazione di questo fondamento è compiuta dalla Camera d’Appello attraverso l’esame delle disposizioni contenute nel Capo VII della Carta. Non è stata presa in considerazione, invece, la possibilità che il fondamento si possa trovare in altre disposizioni della Carta, in particolare nell’art 24, che la Corte Internazionale di Giustizia, nel parere del 1971 sulla Namibia, ha individuato come la base giuridica delle azioni del Consiglio di Sicurezza, che non rientrano espressamente nei capitoli VI e VII e nell’art. 25, che, nello stesso parere, è stato indicato come quello che attribuisce al Consiglio il potere di adottare decisioni vincolanti.

La scelta compiuta dalla Camera d’Appello sembra, però, da condividere, non solo perché la soluzione proposta dalla Corte di Giustizia suscita numerose riserve, ma soprattutto perché lo stesso Consiglio di Sicurezza ha indicato (nel Preambolo dello Statuto) nel Capo VII, la base giuridica della propria decisione.

La Camera d’Appello si è quindi soffermata ad analizzare gli artt. 40, 41 e 42 della Carta. Immediatamente è stata esclusa l’applicabilità degli artt. 40 e 42. L’art. 40 attribuisce al Consiglio il potere di adottare misure provvisorie dirette ad impedire l’aggravarsi di una situazione, riferendosi quindi, secondo il Tribunale ad interventi di emergenza più che all’esercizio di un’attività giurisdizionale. L’art. 42, invece, riguarderebbe solo le misure implicanti l’uso della forza e tale non può certo essere considerata l’istituzione di un Tribunale penale.

La Camera d’Appello ha quindi individuato il fondamento giuridico nell’art. 41 della Carta, sostenendo fra l’altro che contro questa valutazione non può essere addotto il fatto che l’istituzione di un Tribunale non sia compresa tra le misure espressamente indicate in tale disposizione, la quale avrebbe un carattere meramente esemplificativo.[26] La tesi della Camera d’Appello, che ha individuato come base giuridica per l’istituzione dei Tribunali penali l’art. 41 della Carta delle Nazioni Unite, era già stata avanzata dalla dottrina, anche se buona parte della dottrina, aveva comunque cercato una base giuridica negli artt. 40 e 42,[27] nonché nell’art. 24.

Una tesi particolarmente interessante è, però, quella espressa dal Condorelli,[28] il quale considera ormai obsoleto il dibattito sulla legalità, affermando: “sono fermamente convinto che oggi – sottolineo l’oggi, contrapponendolo a ieri – si possa serenamente rispondere in modo positivo alla domanda se l’istituzione da parte del Consiglio di Sicurezza dei Tribunali penali ad hoc trovi o no nella Carta un fondamento giuridico adeguato. Voglio dire che, secondo me, questa questione non va più discussa alla fine del 1995 come si poteva fare alcuni anni addietro, cioè senza tenere conto di tutto quello che è accaduto di nuovo dal momento in cui i due Tribunali sono stati per così dire inventati”. Secondo Condorelli, infatti, non si può continuare a discutere di legalità limitandosi ad utilizzare semplicemente argomenti basati sull’interpretazione letterale della Carta. Innanzitutto, si deve tenere conto del fatto che l’Assemblea Generale ha dato e dà sostegno ai Tribunali in diversi modi (prendendoli in carico nel bilancio e appoggiandone l’azione) e che negli Accordi di pace per la ex Jugoslavia il ruolo del Tribunale penale internazionale è riconosciuto ed affermato da tutte le Parti contraenti.

Questi dati indicano che secondo la comunità internazionale gli Stati membri dell’ONU hanno ratificato l’interpretazione della Carta secondo cui il Consiglio di Sicurezza aveva il potere di creare i Tribunali, come misura rientrante nel Capo VII. Questo, secondo Condorelli, è un caso esemplare in cui si può constatare che la pratica seguita nell’applicazione del trattato permette di considerare raggiunto l’accordo delle parti in relazione all’interpretazione del trattato, così come prevede l’art. 31, 3° comma, lett. b) della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.

L’autore offre, anche, un nuovo spunto di riflessione utilizzando l’art. 51 della Carta, in cui, a suo parere, “vi si mette in evidenza, ed in termini decisi oltrechè generali (cioè, a ben vedere, indipendentemente dal collegamento con la legittima difesa) che il Consiglio di Sicurezza ha il potere di agire in qualsiasi momento nel modo necessario per mantenere e ristabilire la pace e la sicurezza internazionali. In nessun altro punto della Carta è esplicitato in modo così netto, mediante un linguaggio da riserva automatica, l’altissima discrezionalità di cui gode il Consiglio della scelta della maniera adatta di agire”.[29]

Infine, si deve tenere conto della proposta di quella  parte  della  dottrina  che  ritiene  di poter individuare la base giuridica dell’istituzione di Tribunali ad hoc in una norma di diritto internazionale generale. Il Carella, a questo proposito, sottolinea come, per la repressione dei crimini di guerra, contro l’umanità e la pace, commessi da individui, una norma consuetudinaria di diritto internazionale prevederebbe il principio della giurisdizione universale, e cioè la facoltà per ogni Stato di esercitare la giurisdizione sugli individui che li abbiano commessi. Tale potere potrebbe tuttavia essere esercitato non solo dagli Stati, ma anche da altri soggetti del diritto internazionale generale, ed in particolare dalle Organizzazioni internazionali.[30]

Si può comunque concludere che, nonostante tutti i dubbi relativi alla legittimità dell’istituzione dei due Tribunali ad hoc da parte del Consiglio di Sicurezza, questa probabilmente costituiva l’unica strada possibile. Infatti, convocare una conferenza diplomatica in cui negoziare un trattato istitutivo dell’organo, avrebbe significato ritardare notevolmente i tempi. Questo avrebbe potuto comportare la perdita delle prove e la fuga dei colpevoli. Di fronte all’esigenza di intervenire prontamente ed efficacemente nel caso concreto, forse l’unico strumento utilizzabile era appunto quello della decisione di un organo internazionale.

 

- Segue: I LAVORI PREPARATORI E LA CONFERENZA DI ROMA PER L’ISTITUZIONE DELLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE

Negli anni novanta, a seguito delle stragi commesse in Cambogia, ex Jugoslavia e Ruanda, l’opinione pubblica mondiale chiese, sempre più insistentemente, l’istituzione di un sistema giudiziario penale internazionale. L’idea di una giurisdizione penale permanente è stata sicuramente rafforzata dalla istituzione dei due Tribunali per la ex Jugoslavia e il Ruanda, tanto che nel 1995 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite istituì un Comitato ad hoc incaricato di analizzare le questioni relative alla creazione di una corte permanente. Dopo un anno il Comitato sollecitò l’Assemblea Generale ad istituire un Comitato Preparatorio (il c.d. “PREPCOM”).[31] Esso presentò, alla fine dello stesso anno, un importante rapporto in due volumi all’Assemblea Generale, la quale estese il mandato del PrepCom al periodo 1997-1998.

Il nuovo mandato prevedeva l’elaborazione di un testo consolidato (un testo che includesse tutte le proposte dei vari Governi) da trasmettere ad una Conferenza Diplomatica.[32] Infine, l’Assemblea Generale ha deciso di convocare in Roma, dal 15 giugno al 17 luglio 1998, una Conferenza Diplomatica dei Plenipotenziari per l’istituzione della Corte Penale Internazionale ed ha disposto la trasmissione del testo del progetto di statuto, allora ancora in corso di elaborazione avanti il Comitato Preparatorio, direttamente alla Conferenza.[33]

Il 3 aprile 1998 il PrepCom , terminati con successo i propri lavori, ha trasmesso alla Conferenza Diplomatica, in esecuzione della citata risoluzione dell’Assemblea Generale, il proprio rapporto sull’attività  svolta,  contenente  in allegato il progetto di Statuto della Corte penale internazionale.[34]

Il progetto di Statuto, predisposto dal Comitato Preparatorio, che ha costituito la base dei lavori della Conferenza di Roma, era diviso in tredici parti ed era composto da 116 articoli. Nonostante le carenze tecniche del testo - dovute alle particolari modalità con le quali era stato elaborato dalle Rappresentanze Diplomatiche degli Stati, spesso prive di esperti di diritto in genere e di diritto internazionale comparato in particolare - le differenti visioni politiche e le diverse estrazioni giuridiche delle varie Delegazioni avevano trovato tutte collocazioni all’interno del progetto, sia laddove le contraddizioni siano state positivamente risolte, sia laddove le Delegazioni non fossero riuscite a raggiungere una soluzione unitaria, e si fossero, quindi, limitate a proporre alla Conferenza le possibili soluzioni alternative.[35]

Questa caratteristica del progetto di Statuto era diretta conseguenza della natura del mandato conferito dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite al Comitato Preparatorio, nel quale i rappresentanti degli Stati partecipanti possedevano mandato non di negoziazione, ma di mera compilazione di un testo consolidato sul quale potesse convergere il maggior numero di consensi da parte degli Stati e che potesse quindi costituire una valida base per le successive negoziazioni diplomatiche, senza però che  il testo fosse vincolante per gli Stati partecipanti.

Ma il numero assai rilevante di questioni lasciate irrisolte dal PrepCom e rinviate alla negoziazione da svolgersi durante la Conferenza Diplomatica, ha costituito un grande limite operativo ed ha rischiato di condizionare negativamente l’esito della Conferenza. Le alternative più significative, infatti, erano state proposte dalle Grandi Potenze, il cui supporto alla creazione della Corte penale internazionale non era affatto scontato, dato che il ruolo di preminenza che esercitano, attualmente, nella giustizia internazionale è destinato ad essere eroso dall’istituzione del nuovo organismo giudiziario. Tali preoccupazioni della vigilia si sono rivelate fondate e sono state superate solo nelle sedute finali degli organi della Conferenza.

I lavori della Conferenza di Roma hanno avuto inizio il 15 giugno 1998. Subito è stato adottato il Regolamento interno della Conferenza, e, sulla base degli artt. 4, 6, 11 e 49 dello stesso, sono stati eletti i funzionari di vertice della Conferenza e sono stati formati il Comitato Generale, il Comitato di Redazione ed il Comitato per la Verifica delle Credenziali, organi che aggiungendosi all’Assemblea Plenaria ed al Comitato Plenario, hanno completato l’organigramma della Conferenza Diplomatica.

Lo svolgimento dei lavori prevedeva l’esame, da parte del Comitato Plenario, del Progetto di Statuto predisposto dal PrepCom ed il deferimento al Comitato di Redazione del testo delle disposizioni sulle quali fosse stato via via raggiunto il necessario consenso, attraverso le opportune negoziazioni diplomatiche. Compito del Comitato di Redazione sarebbe stato quello di tradurre il testo negoziato, in forma giuridica e nelle sei lingue ufficiali della Conferenza (inglese, francese, russo, arabo, spagnolo e cinese), per poi trasmetterlo nuovamente al Comitato Plenario per l’approvazione e l’invio all’Assemblea Plenaria, organo competente all’adozione definitiva.

Il 17 luglio 1998 venne approvato lo Statuto della Corte, con l’annesso Atto Conclusivo della Conferenza, con un voto largamente maggioritario, e più largo anche della maggioranza qualificata richiesta (pari a due terzi degli Stati presenti e votanti, che rappresentassero anche la maggioranza assoluta degli Stati presenti alla Conferenza). Alla votazione, infatti, presero parte 148 dei 160 Stati partecipanti alla Conferenza: 120 hanno votato a favore, 21 si sono astenuti e 7 hanno votato contro: le opposizioni più clamorose sono state espresse da Stati Uniti, Cina India ed Israele. Gli Stati Uniti, in particolare, subiscono una sconfitta diplomatica cocente, non essendo riusciti ad imporre il loro punto di vista né sulla questione del crimine di aggressione (che volevano fosse escluso dalla competenza della Corte) né sul ruolo del Consiglio di Sicurezza che secondo gli americani doveva erigersi quale organo di tutela e di supervisione sull’operato della Corte.

In conformità alle disposizioni contenute nei punti 24 e 25 dell’Atto Conclusivo e dell’art. 125 dello Statuto di Roma, il 18 di luglio dello stesso anno i due strumenti sono stati aperti alla firma ed all’adesione di tutti gli Stati, sia dei 160 partecipanti alla Conferenza di Roma che di quelli non partecipanti, siano o meno membri delle Nazioni Unite.

Gli Stati che già durante la Conferenza avevano firmato lo Statuto si erano assunti il compito di provvedere, sulla base dei rispettivi ordinamenti interni, a ratificare, accettare o approvare lo Statuto (art. 125, comma 2). Per gli Stati non firmatari è comunque consentita in ogni momento l’adesione allo Statuto (art. 125, comma 3).

Con la ratifica dello Statuto, dunque, gli Stati attribuiranno alla Corte una funzione tipica del loro dominio riservato: la potestà punitiva nei confronti di individui.

L’art. 126 dello Statuto prevedeva che per l’effettiva entrata in vigore dello Statuto di Roma e, quindi, per la concreta creazione della Corte sarebbe stato necessario il deposito presso il Segretario Generale delle Nazioni Unite, di almeno sessanta strumenti di ratifica, accettazione, approvazione od adesione.[36] Tale numero minimo di ratifiche costituisce lo strumento, che è stato individuato in sede di negoziati, per bilanciare da un lato l’esigenza di consentire l’istituzione della Corte in tempi ragionevolmente brevi (prevedendo quindi un numero di ratifiche non elevato), e dall’altro quella di far si che la Corte divenisse effettiva solo quando fosse stata dotata di un ampio e concreto consenso internazionale (prevedendo un consistente numero di ratifiche).[37]

Nonostante la rigidità imposta al meccanismo dall’impossibilità di apporre riserve allo Statuto in sede di ratifica, accettazione, approvazione od adesione (art. 120), lo scorso 11 aprile 2002 è stato raggiunto il numero di ratifiche richieste dal protocollo di adesione. Lo Statuto è stato ratificato,infatti, da sessantasei Paesi, sei in più di quelli necessari, dimostrando in tal modo che sia gli Stati che l’opinione pubblica internazionale hanno sentito e continuano a sentire forte la necessità di una giurisdizione penale internazionale.

La Corte, pertanto, entrerà ufficialmente in funzione il 1° luglio del 2002.

 

- Segue: LE RAGIONI PER L’ISTITUZIONE DI UNA CORTE PENALE INTERNAZIONALE

Vi sono molte ragioni, sia pratiche sia di principio, che giustificano gli sforzi per dare vita ad una Corte penale internazionale permanente.[38] Tra le tante, alcune sembrano particolarmente importanti. Innanzitutto, a fondamento dell’istituzione di un meccanismo di giustizia internazionale si colloca l’esigenza che l’impunità dei responsabili non porti a dimenticare le più gravi atrocità commesse, le violazioni che arrivano a negare l’essenza stessa della dignità umana. La comunità internazionale ha un dovere di civiltà nei confronti delle vittime delle atrocità e nei confronti delle generazioni future: preferire la giustizia all’oblio, una giustizia che sia equa ed imparziale. L’impunità di fatto garantita agli autori di simili crimini a causa dell’inefficienza dei sistemi giudiziari nazionali è stata messa ben in luce dalle riflessioni svolte, nell’ottobre del 1996, durante un convegno organizzato da Amnesty International, dall’allora Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, José Ayale Lasso, secondo il quale “è una crudele ironia che un individuo abbia più possibilità di essere processato e giudicato per aver ucciso un uomo che per averne uccisi centomila”.                

Una Corte penale internazionale assolverebbe, inoltre, ad un’altra fondamentale funzione: quella di porre fine ai conflitti, evitando la vendetta. Quando, infatti, lo Stato o la comunità internazionale non possono o non vogliono fare giustizia, si ingenera il rischio che coloro che dei crimini sono stati le vittime dirette cerchino di farsi giustizia da soli. Non solo: l’incapacità da parte dei governi di fare giustizia alimenta l’impunità e il senso di frustrazione e impotenza di fronte alle più gravi violazioni del diritto umanitario e dei diritti umani, fornendo continuamente alimento alla violenza, dal livello interpersonale a quello internazionale. In situazioni che comportano conflitti etnici, la violenza genera altra violenza: la garanzia che almeno alcuni autori di crimini contro l’umanità o di crimini di guerra possano essere giudicati, agisce da deterrente ed accresce la possibilità di porre fine ad un conflitto.

La Corte penale internazionale è stata definita l’anello mancante del sistema giuridico internazionale. La Corte di Giustizia dell’Aja, infatti, esercita la propria giurisdizione esclusivamente sugli Stati, non sugli individui: senza una giurisdizione penale internazionale che abbia competenza nei confronti dei singoli individui, atti di genocidio e gravi violazioni dei diritti umani rimarrebbero impuniti. Il principio fondamentale sul quale si fonda la giurisdizione penale è l’idea che la responsabilità sia personale. Questo principio riveste un’importanza preponderante quando si tratti di giudicare reati su vasta scala, quali i crimini di guerra o i crimini contro l’umanità. Solo punendo i singoli autori dei crimini sarà possibile evitare di considerare colpevole un intero popolo, un’intera nazione, per il solo fatto di essere stata “parte avversa” in un conflitto. In mancanza di un accurato accertamento dei fatti e delle singole responsabilità,  il  rischio  di  alimentare  nazionalismi  aggressivi  e  xenofobia   diventa particolarmente alto.

Ci si può chiedere, però, a quale scopo istituire un Tribunale internazionale, quando potrebbero bastare i giudici interni a fare giustizia anche nei casi più difficili e atroci. Gli Stati sono d’accordo che i criminali dovrebbero, normalmente, essere giudicati dalle istituzioni nazionali, ma varie sono le ragioni che in certe situazioni rendono preferibile una giustizia internazionale. Innanzitutto, quella di rompere la spirale della vendetta e della rappresaglia, in quanto, c’è il rischio che lo Stato territoriale, che più da vicino ha vissuto il dramma del conflitto o della violazione sistematica dei diritti umani di cui si tratta, giudichi con minore imparzialità i responsabili dei crimini. La storia, anche recente, mostra che quando è il nuovo regime o la fazione risultata vincitrice dal conflitto a giudicare i crimini commessi dalla parte avversa, gli strumenti di giustizia finiscono per essere piegati a mezzi di vendetta.

In secondo luogo, si deve tenere conto del fatto che, la giustizia dello Stato difficilmente viene attivata. Gli esempi di trattati internazionali che pongono il principio della giurisdizione universale sono numerosi. Il principio stabilisce che tutti gli Stati parti della Convenzione hanno “l’obbligo giuridico” di processare o estradare i presunti autori dei crimini individuati dalla Convenzione (principio dell’aut dedere aut judicare). Questa norma è rimasta sostanzialmente disattesa. Solo recentemente vi è qualche caso di applicazione, ma si tratta anche in queste sporadiche ipotesi, di interventi degli Stati fondati su un interesse “nazionalistico”. Per esempio, l’interesse dell’Italia a punire autori dei crimini commessi negli anni 70 e 80 dalla dittatura argentina è dato dalla nazionalità italiana di alcune delle vittime dì quel regime, oltre che dal carattere di crimine contro l’umanità che i fatti di sparizioni forzate e tortura rivestono. L’Italia non interviene, tuttavia, a perseguire argentini resisi colpevoli di crimini nei confronti di loro connazionali, né interviene a punire ruandesi colpevoli di genocidio a danno di altri ruandesi.

L’esistenza di un Tribunale internazionale permetterebbe di esercitare l’azione penale anche quando nessuno Stato ha interesse a farlo.

In terzo luogo, la giustizia affidata ai singoli Stati finirebbe così per “minimizzare” l’entità del crimine. I crimini che rientrerebbero nella competenza della Corte penale internazionale sono crimini internazionali proprio perché il loro carattere sistematico e l’entità  dell’offesa da essi recata non toccano solo la sfera personale degli individui, ma attentano all’umanità stessa, in quanto violano beni considerati essenziali per l’intera Comunità mondiale. Qualora tali crimini vengano perseguiti su iniziativa di un solo Stato, la loro gravità rischia di essere sminuita. L’encomiabile atto di giustizia del singolo Stato può in qualche modo avere l’effetto di sminuire il carattere di offesa contro la specie umana che certi crimini rivestono, dimostrando come l’entità della violazione sia stata effettivamente riconosciuta solo da pochi e non dall’intera comunità internazionale.

Infine, un’ultima ragione può essere costituita dal fatto che lo Stato spesso non ha risorse sufficienti per perseguire i crimini internazionali. Non di rado il carattere internazionale di questi crimini non è legato solo alla loro gravità, ma anche al dato geografico, ossia al fatto di aver esplicato i propri effetti in più Stati o alla circostanza che i sospetti, i testimoni, le vittime si trovano sparsi in paesi diversi. Per perseguire tali crimini le capacità di indagine di un singolo Stato sono il più delle volte insufficienti e, comunque, si scontrano con l’opposizione degli altri Stati a subire ingerenze territoriali. Un Tribunale internazionale che fosse dotato di mezzi finanziari sufficienti e di un apparato esecutivo adeguato alla natura internazionale delle indagini avrebbe, invece, molte più probabilità di successo. Naturalmente, allo stato attuale, questo successo è ancora fortemente condizionato dagli Stati che tendono ad oppone la loro sovranità esclusiva non solo a fronte dell’ingerenza investigativa” di uno stato terzo, ma anche di quella di un organismo internazionale. Per questo motivo è  essenziale che una Corte penale internazionale permanente sia dotata  dei poteri adeguati per ottenere la collaborazione degli Stati che ne abbiano accettato la giurisdizione, in tutte le fasi dell’azione penale.

Non basta però un tribunale internazionale, ma occorre anche che esso sia permanente, cioè precostituito rispetto ai fatti criminosi su cui dovrà giudicare. L’alternativa è quella di istituire di volta in volta dei tribunali speciali, ognuno con le proprie regole, esponendosi al pericolo di indebolire il messaggio di giustizia e di eguaglianza di cui ogni corte dovrebbe essere portatrice. L’istituzione di una Corte permanente è necessaria per superare la logica dell’emergenza. Le risoluzioni con le quali il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso l’istituzione dei Tribunali speciali per l’Ex Jugoslavia e il Ruanda affermano il principio fondamentale secondo il quale il ricorso alla giustizia internazionale è mezzo imprescindibile per ottenere il ristabilimento della pace e della sicurezza. Nei casi dell‘Ex Jugoslavia e del Ruanda questo principio non poteva oggettivamente tradursi nell’istituzione di una Corte permanente, data l’urgenza di intervenire in situazioni di conflitto già in atto. Tuttavia perché il principio affermato sia effettivamente rispettato è indispensabile l’istituzione di un organo permanente in grado di attivarsi immediatamente, senza dover ricercare il consenso sull’esigenza di intervenire a punire i responsabili delle violazioni commesse.

Una delle principali critiche mosse ai Tribunali ad hoc è quella di attuare una “giustizia selettiva” e da questo punto di vista, l’istituzione di un organo permanente consentirebbe di superare la commistione fra giustizia e politica. Sulla base del principio sopra indicato - quello secondo cui la via giudiziale è presupposto essenziale per il ristabilimento della pace – ogni qualvolta dovesse ripresentarsi una situazione di conflitto e la conseguente commissione di crimini di guerra o di crimini contro l’umanità, le Nazioni Unite dovrebbero istituire un Tribunale ad hoc per portare i responsabili dinnanzi alla giustizia. Questo tuttavia non avviene sempre e regolarmente. Il Consiglio di Sicurezza ha ritenuto necessario istituire Tribunali per i crimini commessi in Ruanda ed Ex Jugoslavia, ma non per quelli che hanno tristemente reso note l’Algeria, la Cecenia, l’Afghanistan, la Cambogia... La presenza di un Tribunale Internazionale Permanente di cui fosse assicurata l’indipendenza eviterebbe che il perseguimento dei criminali avvenisse sulla base di criteri eminentemente politici.

Si è parlato anche delle conseguenze negative che i ritardi inerenti alla costituzione di un tribunale ad hoc possono avere: una prova determinante può essere distrutta; gli autori dei crimini possono fuggire o scomparire; i testimoni possono trasferirsi o essere intimiditi. L’indagine diviene così estremamente costosa e l’ingente spesa per tribunali ad hoc può attenuare la volontà politica necessaria per affidare loro il mandato.

Inoltre limiti di tempo e di spazio, stabiliti per i tribunali ad hoc, possono lavorare contro gli interessi della giustizia.

Infine si deve tenere conto delle forti critiche mosse all’istituzione di Tribunali speciali per il loro possibile contrasto con i principi fondamentali del diritto penale. Tra i principi fondamentali in materia di diritto penale, accanto al già visto principio di responsabilità personale, vi è quello dell’irretroattività della legge penale. Secondo tale principio, non si può essere puniti se non per un fatto riconosciuto come reato al momento della sua commissione. Questo principio ha come conseguenza diretta il fatto che la punizione di un crimine richiede la presenza di un giudice “precostituito”. La giustizia penale internazionale non può essere costruita attraverso eccezioni a tale principio. Per questi motivi, la competenza dei Tribunali ad hoc per l’ex Jugoslavia e il Ruanda è stata prudentemente circoscritta a quei fatti sui quali esisteva sufficiente certezza circa la loro natura di crimini internazionali, per i quali quindi esisteva un obbligo di conformarsi precedente alla creazione dei tribunali; resta tuttavia il fatto che per poter ritenere un soggetto penalmente responsabile occorre che egli sappia non solo che esiste una norma che sanziona un certo comportamento, ma anche che esiste un giudice incaricato di applicare quella nonna. Ad una giustizia internazionale parzialmente “a posteriori”, come quella dei due tribunali speciali, non può che essere preferita l’istituzione di un Tribunale internazionale permanente.

 

CONCLUSIONI

Le più clamorose vicende che successivamente al 17 luglio 1998 hanno scosso l’opinione pubblica mondiale (Kosovo, fermo di Pinochet, vicenda Ocalan), costituiscono la miglior riprova di quanto è preziosa una giurisdizione internazionale: se un organismo di tale tipo fosse stato operante i relativi processi avrebbero senz’altro trovato la via ideale da percorrere.

Nell’imminenza dell’entrata in vigore dello Statuto di Roma sembra allora opportuno valutare quali siano i limiti e le potenzialità che esso ha .

La Corte è stata pensata per pronunciarsi sui “crimini più gravi che riguardano l’intera comunità internazionale”: i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra ed i crimini contro la pace. Per questi atti lo Statuto prevede la responsabilità penale individuale anche di persone  che  rappresentano  lo  Stato, in  quanto  sono  loro  che  normalmente dispongono del potere e dei mezzi necessari per commettere crimini di una tale enormità consacrando la regola tradizionale del diritto penale internazionale dell’irrilevanza della qualifica ufficiale, che non può costituire un motivo di esonero dalla responsabilità penale.

Dall’idea che nessuno dei partecipanti a reati di una tale atrocità deve rimanere impunito, deriva il principio secondo il quale le persone che abusano del proprio potere (che questo sia stato acquisito in modo legittimo o meno), ordinando la commissione di un crimine internazionale, devono essere punibili quanto le persone che obbediscono a tali ordini.

Il regime attuale di repressione dei crimini internazionali, fondato sul principio dell’universalità della giurisdizione, permette ad un qualsiasi giudice nazionale di giudicare una persona di qualunque nazionalità, accusata di atti commessi in qualsiasi parte del mondo, anche se non previsti dalla legge penale dello Stato giudicante, in forza della loro incriminazione da parte del diritto penale internazionale. Per la Corte penale internazionale invece, è stato pensato un regime di giurisdizione maggiormente limitato. Lo Statuto prevede la sua competenza soltanto nei casi rispetto ai quali lo Stato dove è stato commesso il reato o quello di nazionalità dell’accusato ne abbiano accettato la giurisdizione.La giurisdizione universale è prevista dallo Statuto soltanto quando sia il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a deferire un caso alla Corte.

Una tale limitazione ha conseguenze negative rilevanti, in particolare quando in uno Stato sia al potere un governo che commette  crimini di competenza della Corte nei confronti della propria popolazione: la Corte potrebbe trovarsi nelle condizioni di dover chiedere il permesso d’agire agli stessi carnefici che dovrebbe condannare. Il rifiuto di tali governi di consentire che venga aperta un’inchiesta sul caso (come succede generalmente in questo tipo di situazione) equivale alla concessione di un’immunità giurisdizionale di fatto per i responsabili.

Le situazioni che verranno portate all’attenzione della Corte quindi saranno limitate probabilmente ai casi che presentano una dimensione internazionale, in cui lo Stato dove è stato perpetrato il reato è diverso da quello di nazionalità dell’accusato. L’incapacità di agire del giudice penale internazionale rispetto agli altri casi si può superare soltanto con un’adesione generalizzata della comunità internazionale allo Statuto o qualora il Consiglio di Sicurezza sia determinato a fare uso del suo potere di deferire dei casi alla Corte in maniera sistematica. Questa seconda soluzione però porta  con sé il rischio di compromettere in una certa misura l’indipendenza (e di conseguenza l’imparzialità) della Corte, che farebbe dipendere l’esercizio della sua giurisdizione dalle decisioni di un organo politico.

La persistente reticenza degli Stati a rinunciare alla loro sovranità in materia penale si evidenzia anche nella regola della complementarietà della giurisdizione della Corte penale internazionale rispetto a  quella dei tribunali nazionali. La Corte non è destinata  a sostituire i tribunali nazionali in materia di repressione di crimini internazionali, né ha preminenza nei loro confronti. Il giudice penale internazionale potrà intervenire soltanto rispetto a situazioni di sua competenza che non siano oggetto di un’inchiesta o di un procedimento giudiziario, in conformità con le regole del “giusto processo”, a livello nazionale.

In questo senso, la Corte deve essere concepita come un meccanismo di garanzia del rispetto, da parte degli Stati che avranno aderito allo Statuto, del loro “dovere” di processare le persone accusate di crimini internazionali, e non come l’organo esclusivamente o naturalmente competente in materia di repressione di questi crimini. L’efficacia di questo meccanismo di garanzia sembra tuttavia limitata, non essendo lo stesso destinato ad applicarsi a tutti i casi che rientrano nella competenza dei giudici interni, competenza fondata sul principio della giurisdizione universale. L’istituzione della Corte penale internazionale costituisce comunque un progresso rispetto al sistema attuale di repressione dei crimini internazionali. In un certo senso, la “qualità” di un’inchiesta o di un processo a livello nazionale (cioè il rispetto da parte delle autorità nazionali delle regole internazionali del “giusto processo”) sarà sottoposta al controllo del giudice internazionale.

La competenza della Corte è limitata infine ai crimini internazionali che potranno essere commessi in futuro, dopo l’entrata in vigore della convenzione. La volontà di “mettere fine all’impunità”, espressa nel preambolo dello Statuto, si deve quindi interpretare, non come una promessa di rimediare al passato, ma come l’obiettivo di un processo che inizia con la creazione della Corte penale internazionale.

In conclusione, quindi, il ruolo di un giudice penale sovranazionale è quello di evitare che persone responsabili di crimina iuris gentium possano vivere nell’impunità perché nel loro paese non esistono le condizioni necessarie affinché vengano sottoposte a giudizio. Tuttavia i limiti imposti alla Corte penale internazionale impediscono la soluzione definitiva di questo problema.

I giudici internazionali sono comunque chiamati a svolgere un ruolo importante, almeno nei casi che rientrano nella competenza della Corte, se come in passato succederà che gli Stati si rifiutino, o il sistema giudiziario di un paese si riveli incapace, di giudicare i responsabili di crimini internazionali.

Una volta entrata in funzione la Corte, la sua attività forse dimostrerà l’interesse che casi di una tale sensibilità politica vengano delegati ad un organo giudiziario sovranazionale ed incoraggerà i governi a concederle dei poteri più estesi, in occasione di un’eventuale revisione dello Statuto. In definitiva, dato che  l’interpretazione che faranno i giudici dei poteri loro conferiti porterà probabilmente ad un rafforzamento del loro ruolo nella pratica, bisognerà aspettare l’entrata in vigore dello Statuto per vedere se la Corte penale internazionale riuscirà nell’esercizio della sua funzione: mettere fine all’impunità.

Nell’elencare i gravi avvenimenti che hanno colpito la comunità internazionale nel corso di questi ultimi anni, non si è volontariamente fatto riferimento agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001

La scelta è stata determinata dal fatto che attualmente la Corte non ha competenza per i cosiddetti treaty crimes (fra i quali spiccano il terrorismo ed il traffico internazionale di stupefacenti), anche se potranno in futuro rientrare nella giurisdizione della Corte, a seguito di Conferenze di Revisione.

L’esclusione di tali crimini è stata motivata richiamando l’esistenza di un’efficace rete di cooperazione nascente da obblighi assunti in sede convenzionale sia sul piano penale che processuale per la repressione del terrorismo e del traffico di stupefacenti.

In realtà la volontà di reprimere il terrorismo internazionale solo sulla base di convenzioni internazionali, sconta dei forti limiti, posto che le stesse consentono una possibilità di cooperazione limitata in confronto alla estensione del fenomeno e posto che continuerebbero a sussistere tutti i problemi relativi alla ricerca della prova ed alla consegna dei responsabili dovuti al dominio riservato degli Stati.

La speranza, pertanto, sarebbe quella di un’estensione della competenza della Corte, unico soggetto che potrebbe garantire (per tutti i motivi visti in precedenza) un’adeguata repressione di tale crimine.

 

Note:

[1] L’Italia ha ratificato lo Statuto con legge n. 232 del 12 luglio 1999.

[2] F. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 1992, p. 911.

[3] N. LEVI, Diritto penale internazionale, 1949, pp 1-5, nota 16.

[4] M. PISANI, La penetrazione del diritto penale internazionale nel diritto penale italiano, Indice pen., 1979, p. 5.

[5] Si pensi ad esempio ad espressioni come “condizioni di vita intese a provocare la distruzione fisica totale o parziale” utilizzate nella definizione di genocidio.

[6] Art. V: “Le Parti contraenti si impegnano ad emanare, in conformità alle loro rispettive Costituzioni, le leggi necessarie per dare attuazione alle disposizioni della presente Convenzione, ed in particolare a prevedere sanzioni penali efficaci per le persone colpevoli di genocidio o di uno degli altri atti elencati nell’art. III”.

[7] La Commissione del diritto internazionale fu istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione n. 174-II del 21 novembre 1947; con la risoluzione n. 177-II del 21 novembre 1947, le fu attribuito il compito di formulare i principi del diritto internazionale così come previsti dalla Carta del Tribunale di Norimberga e nelle sentenze dello stesso e di preparare un codice per i crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità.

[8] A. TANZI, Sul progetto ONU di codice dei crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità e sull’istituzione di un tribunale penale internazionale, Critica pen. 1993, 6.

[9] I cinque articoli del progetto del 1951 vennero ridotti a quattro con l’eliminazione dell’art. 5, riguardante la determinazione delle sanzioni.

[10] L. CAVICCHIOLI, Sull’elemento soggettivo nei crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità, Riv. internaz. 1993, 1054.

[11] In questo senso si è espresso, ad esempio, il delegato del Canada.

[12] A. TANZI, op. cit., 11.

[13] N. RONZITTI, Crimini internazionali, Enc. giur., X, Roma 1995, 6.

[14] Principio accolto anche dal legislatore italiano

[15] Per la ricostruzione storica cfr. M. FAVA, Verso l’istituzione di una Corte penale internazionale, Diritti dell’uomo 1997, 28.

[16] In questo senso cfr. BASSIOUNI, International criminal law, New York, 1986.

[17] M. BALBONI, Da Norimberga alla Corte penale internazionale, in G. ILLUMINATI – L. STORTONI – M. VIRGILIO, Crimini internazionali fra diritto e giustizia: dai Tribunali internazionali alle Commissioni Verità e Riconciliazione, Torino 2000, 5.

[18] SG report UNSCs/25704/1993.

[19] Per la ricostruzione storica del conflitto jugoslavo cfr. F. HARTMANN, Bosnia, in R. GUTMANN – D. RIEFF, Crimini di guerra, Roma 1999, 58. Interessante è inoltre la ricostruzione del sito Internet www.amnesty.it.

[20] Le notizie storiche sono tratte da M. HUBAND, Ruanda: il genocidio, in R. GUTMANN – D. RIEFF, Crimini di guerra, Roma 1999, 322. Una ricostruzione storica si può leggere, inoltre, sul sito Internet www.amnesty.it.

[21] I. BOTTIGLIERO, Il rapporto della Commissione di esperti sul Ruanda e l’istituzione di un Tribunale internazionale penale, Comunità internaz. 1994, 760.

[22] A. CASSESE, Il Tribunale penale internazionale dell’ONU per i crimini nel Ruanda, Dir. pen. proc. 1995, 294.

[23] A. CASSESE, op. cit., 295.

[24] A. CASSESE, op. cit., 295.

[25] Cfr. Decision of the appeals Chamber on the defence motion for interlocutory appeal on jurisdiction, in Riv. dir. int., 1995, p. 1016 ss.

Su queste stesse eccezioni si era pronunciata con sentenza di rigetto la Camera di Prima istanza. Cfr. Decision of the Trial Chamber on the defence motion on jurisdiction, 10 agosto 1995.

[26] Naturalmente le considerazioni svolte dalla Camera d’Appello sono relative al Tribunale per la ex Jugoslavia, ma le stesse possono essere estese anche al Tribunale per il Ruanda.

[27] In particolare per l’art. 42 cfr. B. CONFORTI, Le Nazioni Unite, V ed., Padova 1994, 197, il quale considera l’istituzione del Tribunale come una “misura rientrante tra le azioni di tipo bellico che il Consiglio sta conducendo nella ex Jugoslavia”.

[28] L. CONDORELLI, Legalità, legittimità, sfera di competenza dei Tribunali penali ad hoc creati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in F. LATTANZI – E. SCISO (a cura di), Dai Tribunali internazionali ad hoc a una Corte permanente, Napoli 1996, 47.

[29] L. CONDORELLI, op. cit., 50.

[30] CARELLA, Il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, in P. PICONE (a cura di), Interventi delle Nazioni Unite e diritto internazionale, Padova 1995, 478.

[31] Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite n. 50/46 dell’11 dicembre 1995.

[32] Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite n. 51/207 del 17 dicembre 1996.

[33] Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite n. 52/160 del 15 dicembre 1997.

[34] Riunioni e temi affrontati dal PrepCom dal marzo 1996 all’aprile 1998:

-               PrepCom I, New York, 25 marzo-12aprile 1996: la giurisdizione ratione materiae della futura Corte ed il principio di “complementarietà” tra giurisdizione della Corte e competenza concorrente degli Stati.

-               PrepCom II, New York, 12-30 agosto 1996: i principi generali di diritto penale, le garanzie poste a tutela, le regole di procedura e di prova, la struttura organizzativa della futura Corte.

-               PrepCom III, New York, 11-21 febbraio 1997: ancora i crimini sui quali la Corte avrà giurisdizione ed i principi generali di diritto  penale.

-               PrepCom IV, New York, 4-15 agosto 1997: il principio di “complementarietà”, i meccanismi di avvio dell’azione penale e le regole di procedura.

-               PrepCom V, New York, 1-12 dicembre 1997: la cooperazione internazionale e l’assistenza giudiziaria, i principi generali di diritto penale, le questioni procedurali, definizioni ed elementi costitutivi dei crimini di guerra, le pene applicabili.

-               PrepCom VI, New York, 15 marzo-3 aprile 1998: la composizione e la composizione della Corte, regole di procedura e prova, la relazione tra la Corte e le Nazioni Unite, la legislazione applicabile e principio del “ne bis in idem”, l’esecuzione delle sentenze della Corte.

[35] Nel testo del progetto di Statuto, tali alternative si ritrovano o sotto forma di opzioni o racchiuse in parentesi quadre.

[36] L’Italia ha ratificato lo Statuto con legge n. 232 del 12 luglio 1999.

[37] In passato il numero di ratifiche necessario per l’entrata in vigore di un Trattato Internazionale ha oscillato fra 5 e 65, mentre le numerose proposte avanzate in sede di Comitato Preparatorio prevedevano da un numero minimo di 25 ad un massimo di 90 ratifiche.

[38] Le ragioni per l’istituzione di una Corte permanente sono state espresse da Kofi Annan, Segretario Generale dell’ONU e sono riportate nel sito Internet www.onuitalia.it.