Scomparso l’obbligo di richiesta di archiviazione ex art. 405 i comma bis C.P.C.

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            E’ con grande sollievo che si può accogliere la sentenza 20-24 aprile 2009 n. 121 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 405 I comma bis c.p.c. introdotto nel 2006, dalla Legge n. 46, "in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento", c.d. “Legge Pecorella”, che introduceva nel codice di procedura penale una nuova norma concernente l’esercizio dell’azione penale al termine delle indagini preliminari.
            La norma di cui trattasi stabiliva che: "il pubblico ministero, al termine delle indagini, formula richiesta di archiviazione quando la Corte di cassazione si è pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ai sensi dell’art. 273, e non sono stati acquisiti, successivamente, ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini".
            La novella introdotta con la Legge n 46/2006, pertanto, incideva in maniera apprezzabile e rilevante sulle prerogative legate all’esercizio dell’azione penale da parte del magistrato del pubblico ministero poiché, nel caso in cui vi fossero state la pronuncia di insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 c.p.p. da parte della Suprema Corte e l’assenza di ulteriori elementi indiziari "a carico" dell’indagato, imponeva al magistrato inquirente di non poter chiedere il rinvio a giudizio, bensì esclusivamente l’archiviazione del procedimento.
            Già prima facie era evidente il contrasto con il principio sancito dall’art. 112 della Carta Costituzionale concernente l’obbligatorietà dell’azione penale in quanto l’introduzione di detto comma, non lasciava alcun dubbio in ordine alla circostanza che, in presenza dei due requisiti summenzionati, al p.m. non era più consentita alcuna alternativa.
            Qualora, infatti, il pubblico ministero, in presenza della situazione delineata dall’art. 405, I comma bis c.p.p., avesse inviato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari e successivamente avesse esercitato l’azione penale sarebbe incorso, trattandosi di una "disposizione concernente l’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale", in una nullità assoluta ex artt. 178, I comma, lett. b), 179 c.p.p..
            L’art. 405 c.p.p. disciplina le forme ed i termini dell’esercizio dell’azione penale e prevede come il pubblico ministero debba determinarsi per l’esercizio dell’azione penale ogniqualvolta in cui "non deve richiedere l’archiviazione".
            Tale disposto normativo è confermato dall’art. 50 c.p.p. dove viene stabilito che il magistrato del pubblico ministero non "esercita l’azione penale quando non sussistono i presupposti per la richiesta di archiviazione".
            Si sottolinea quindi come, con la novella, il legislatore avesse imposto una notevole compressione delle facoltà relative all’esercizio dell’azione penale da parte del p.m., ma tale limitazione era agirabile in sede del controllo ex artt. 408 e ss. c.p.p. da parte del Giudice per le indagini preliminari il quale poteva comunque imporre un’imputazione coatta.
            Si vuole ulteriormente evidenziare quindi che, in presenza di determinati presupposti, la pubblica accusa aveva l’obbligo di chiedere l’archiviazione del procedimento, ma era di competenza del G.I.P. avallare tale scelta nel merito ovvero decidere di far svolgere ulteriori indagini ovvero di formulare l’imputazione coatta.
            La limitazione della facoltà del p.m. in ordine all’esercizio dell’azione penale introdotta con la Legge 46/2006 poteva essere oggetto di un’interpretazione costituzionalmente orientata, sebbene forzata, solamente qualora la titolarità e l’obbligatorietà avessero trovato nei poteri di controllo del Gip la loro sintesi corretta.
            In forza di quest’ultimo postulato era, quindi, astrattamente plausibile prevedere la possibilità concreta che l’istanza di definizione del procedimento, avanzata dalla parte pubblica di accusa al G.I.P., non avesse sortito l’effetto conclusivo previsto dagli artt. 408, 409 e 410 c.p.p. e che, quindi, fosse stato, comunque, possibile addivenire, alla formulazione di un’imputazione coatta ovvero a nuove indagini integrative.
            La dottrina costituzionalistica più attenta ed accorta, infatti, ha avuto modo di puntualizzare che "il principio dell’obbligatorietà non esclude che l’ordinamento preveda ipotesi specifiche e predeterminate in cui l’obbligo del pubblico ministero è subordinato al verificarsi di condizioni estranee alla sua volontà; situazioni cioè in cui il contemperamento tra gli interessi della giustizia ed interessi di altra natura – privatistici o pubblicistici – è risolto attribuendo prevalenza ai secondi. Ciò che importa è che la prevalenza … non si risolva in una interferenza arbitraria. … Deve trattarsi quindi di situazioni predeterminate dalla legge, di categorie generali, e non di casi in cui al potere politico sia attribuita la facoltà di impedire il promovimento dell’azione penale per motivi contingenti ed estemporanei".  (cfr. Commentario della Costituzione, Zanichelli, art. 112, Neppi Modona)
            La fattispecie normativa in parola, comunque, era applicabile unicamente alle situazioni in cui vi fosse stato un annullamento definitivo della Suprema Corte di Cassazione in materia cautelare per carenza dei gravi indizi di colpevolezza, ossia quando si fosse formato il c.d. “giudicato cautelare”.
            La norma delineata dall’art. 405 I comma bis, tuttavia sembrava contrastare altresì con il principio secondo il quale la Suprema Corte sia solamente Giudice di legittimità e non anche giudice di merito: ancorare la “richiesta di archiviazione coatta” alla pronuncia della Cassazione circa l’insussistenza di gravi indizi di colpevolezza significava investire la summenzionata Corte di un compito che non le apparteneva, quello di giudicare sull’esistenza o meno degli indizi ex art. 273 c.p.p..
            Merita ora di essere evidenziata l’ulteriore incongruenza della norma de qua riferentesi al significato che occorreva fornire alla dizione "ulteriori elementi a carico" requisito la cui persistente assenza (id est non sopravvenienza) avrebbe legittimato, in presenza di una pregressa pronuncia di insussistenza ex art. 273 c.p.p., la richiesta di archiviazione da parte del magistrato del pubblico ministero.
            Tale previsione normativa sembrava non considerare l’ipotesi in cui il pubblico ministero, in sede di richiesta di applicazione di misura cautelare, non avesse provveduto alla totale discovery.
            Non sussisteva e non sussite, infatti, in capo al magistrato inquirente, l’obbligo di rendere noti al Giudice procedente, ai fini della presentazione della propria istanza, tutti gli elementi a carico dell’indagato/imputato, bensì solamente quelli che riteneva utili ai fini dell’applicazione della misura de qua.
            Astrattamente, pertanto, era possibile che il pubblico ministero dovesse coattivamente richiedere l’archiviazione del procedimento anche qualora fosse stato in possesso di elementi di prova tali da dimostrare, nel futuro processo, la colpevolezza del soggetto.
            Alla luce delle considerazioni di cui sopra, la sentenza della Corte Costituzionale 20-24 aprile 2009 n. 121, dichiarativa dell’illegittimità del I comma bis dell’art. 405 c.p.p., riporta l’ordine, sistemico e sistematico, all’interno del codice di procedura penale, venuto a mancare con l’emanazione di una norma che un legislatore poco attento all’intera struttura codicistica vi aveva introdotto.
 
 
Avv. Maddalena Martino

Martino Maddalena

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