GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA,
DIRITTI PATRIMONIALI CONSEGUENZIALI E DANNO INGIUSTO,
AZIONE DI REINTEGRAZIONE PATRIMONIALE E DI ANNULLAMENTO

di Italo Franco, Consigliere nel TAR Veneto

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Sommario: 1- La devoluzione al g.a. della giurisdizione sui diritti patrimoniali conseguenziali. 2- Tutela risarcitoria dei diritti patrimoniali conseguenziali e degli interessi legittimi. 3- Tecniche di risarcimento: il danno ingiusto. 4- La reintegrazione in forma specifica e la riparazione per equivalente. 5- Il danno: prova; elementi; concorso di colpa del danneggiato; compensatio lucri cum damno (cenni). 6- Azione di condanna al risarcimento e azione di annullamento. 7- Domanda di risarcimento disgiunta dall’azione impugnatoria.

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1- La devoluzione al g.a. della giurisdizione sui diritti patrimoniali conseguenziali.

La riforma della giurisdizione predisposta dal D.Lgs. n. 80/98 non si è limitata ad incidere sul criterio di riparto della giurisdizione, adottando quello della materia, con riguardo ai servizi pubblici nonché all’edilizia e urbanistica. La delega conferita dal Parlamento riguardava testualmente, infatti, l’estensione della giurisdizione del g.a. alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali conseguenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno. Questo aspetto della riforma la differenzia nettamente da tutte le altre norme erratiche che, in precedenza, avevano attribuito alla giurisdizione esclusiva del medesimo giudice questa o quella materia. In tutte le precedenti ipotesi, infatti, restava, in ogni caso, ferma la preclusione –di ordine generale- nascente dall’art. 7 della legge n. 1034/71 (istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali), in forza della quale, pur nelle materie assegnate alla giurisdizione esclusiva del g.a., (in quanto tale estesa alla cognizione anche dei diritti), la cognizione sulle liti concernenti le conseguenze di ordine risarcitorio, e simili, rimaneva conferita al giudice ordinario.

In realtà, si tratta(va) di un ulteriore criterio generale di separazione fra giurisdizioni, anche in presenza di ipotesi normativamente previste di giurisdizione esclusiva, in forza del quale, anche in simili fattispecie, si poneva comunque una duplicità di giurisdizione fra giudici diversi in ordine a controversie quanto meno collegate, se non identiche. In siffatto modo, la linea di separazione era soltanto, per così dire, più avanzata rispetto alla giurisdizione ordinaria di legittimità. Ad ogni modo, la sintesi normativa di tale discorso era racchiusa nella formula che segue (art. 7 cit.):

"Restano, tuttavia, sempre riservate all’autorità giudiziaria ordinaria le questioni attinenti a diritti patrimoniali conseguenziali alla pronuncia di illegittimità dell’atto o provvedimento contro cui si ricorre".

Ora, la rilevante e significativa portata della riforma sta proprio nell’avere voluto incidere su detta "storica" limitazione della giurisdizione (anche quella esclusiva) del giudice amministrativo, infrangendo una sorta di barriera o limite dogmatico, da sempre osservato dal legislatore, nonostante che si avvertisse ed anzi si toccasse con mano la necessità del suo superamento. Tanto più risalta la carica di novità e di rottura con i vecchi schemi concettuali e mentali, ove si rifletta sul fatto che il legislatore, nemmeno quando veniva spinto dalle norme comunitarie a predisporre rimedi risarcitori per i casi di violazione del diritto comunitario o delle norme nazionali di recepimento, con rimedi giurisdizionali rapidi ed efficaci, aveva inteso rompere con il vecchio tabù, ponendo una norma –l’art. 13 della legge 19 febbraio 1992 n. 142, ora abrogato con l’art. 35 D.Lgs. n. 80/98- che ripeteva il vecchio cliché dell’assegnazione al g.o. della giurisdizione sulle controversie relative. Ciò non sarà senza conseguenze sul modo stesso di rendere giustizia da parte del g.a. (cfr. prossimo paragrafo, in fine).

A questo riguardo occorre, anzi, sottolineare che il decreto delegato è andato, forse, ancora più in la della delega legislativa.

2- Tutela risarcitoria dei diritti patrimoniali conseguenziali e degli interessi legittimi.

Tuttavia, conviene spostare momentaneamente l’attenzione su tematiche attinenti ai modi in cui può effettuarsi il raccordo delle innovazioni in commento con il tema della tutela risarcitoria degli interessi legittimi, onde verificare se ed in quale misura la riforma intervenga anche sui filoni oggetto di dibattito nel sistema previgente. Al riguardo, invero, ci si chiede: la devoluzione al giudice amministrativo delle controversie concernenti i c.d. diritti patrimoniali conseguenziali, in che modo ha inciso sulla disciplina del risarcimento delle lesioni di interessi legittimi? Si tratta, in altre parole, di ambiti coincidenti, o diversi? Insomma, le nuove disposizioni sulla devoluzione della giurisdizione sulle controversie inerenti ai diritti patrimoniali conseguenziali, ha risolto, sul piano generale, il problema della risarcibilità degli interessi legittimi?

Una prima risposta, di ordine formale, non può che essere negativa. In primo luogo, infatti, si osserva che la soluzione approntata con la riforma riguarda solo specifiche materie, per quanto estesissime e in sè di grande rilievo. Dunque, la devoluzione della tutela risarcitoria al giudice amministrativo non sposta i termini del problema, in tesi generale e in astratto, della tutela risarcitoria degli interessi legittimi: trattasi, invero, anche concettualmente, di ambiti non strettamente coincidenti, quanto all’estensione: infatti, anche se si trattasse della stessa cosa, (vale a dire, anche se ci fosse identità concettuale fra diritti patrimoniali conseguenziali e risarcimento delle lesioni di interessi legittimi), deve convenirsi, secondo un criterio, per così dire, di logica formale, che la soluzione individuata dal legislatore, riguardando una parte soltanto di tutte le possibili materie rientranti nella giurisdizione amministrativa, non costituisce una soluzione generale.

In secondo luogo, deve ritenersi, con tutta verosimiglianza, e sempre rimanendo sul piano delle nozioni e dei concetti giuridici, che tutela risarcitoria dei diritti patrimoniali conseguenziali e tutela risarcitoria degli interessi legittimi non sono ambiti coincidenti, a rigor di termini, quanto al tipo di posizioni giuridiche soggettive: già le espressioni usate pongono in risalto che si tratta di posizioni giuridiche diverse, ragion per cui può dirsi, sia pure a livello epidermico o astratto, che si tratta di cose differenti.

In effetti, l’espressione "diritti patrimoniali conseguenziali" -che è formula tralaticia, e in certo modo di stile- in ogni caso pone in rilievo, fin dalla semantica, che si tratta di un quid che interviene dopo, successivamente. Per converso, non può negarsi che la lesione di situazioni soggettive che vanno sotto il nome di interessi legittimi, avviene nel momento stesso in cui viene emesso il provvedimento lesivo (a livello virtuale), e quando lo stesso viene portato a esecuzione (sul piano dell’efficacia concreta). Dunque, sembrerebbe trattarsi di cose diverse, anche se strettamente connesse.

Seguendo questo ordine di idee, potrebbe sostenersi, ad esempio, che l’illegittimità di provvedimenti che incidono su interessi legittimi (o posizioni comunemente qualificate come tali) come, ad es., un diniego di autorizzazione di commercio, e tutti i provvedimenti di secondo grado (annullamento o revoca di un atto di assenso, dichiarazione di decadenza, e simili) (1) arrecano di per se stessi un danno al destinatario, danno valutabile in quanto tale, autonomamente, e che perciò differisce dai danni prodotti in via conseguenziale. Da simili provvedimenti, poi, potrebbero derivare ulteriori pregiudizi patrimonialmente valutabili (ad es., perdita di chances; investimenti effettuati confidando nell’aspettativa –fondata- che la p.a. provvedesse favorevolmente; danni all’immagine, ecc.).

A ben guardare, tuttavia, queste distinzioni, qui appena abbozzate, potrebbero trovare riscontro nella classica distinzione fra damnum emergens e lucrum cessans oppure, a tutto dire, fra danni prevedibili e d. imprevedibili (argomenti classici nella teoria del danno, specialmente da illecito aquiliano, e della relativa responsabilità). A ragionare in tal modo, si tratterebbe, pertanto, nient’altro che di distinzione all’interno della nozione di danno, circa le sue componenti (talune essenziali o naturali; tal’altre soltanto eventuali), senza che se ne possa inferire una distinzione fra (pregiudizi a) diverse posizioni giuridiche. Sempre in simile ottica, allora, la formula "diritti patrimoniali conseguenziali" sintetizzarebbe e rappresenterebbe, comunque, conseguenze patrimoniali derivanti dal comportamento illegittimo dell’amministrazione.

La stessa formula assume rilievo nella logica fatta propria, quanto al riparto della giurisdizione, dal sistema previgente, per cui tutte le controversie e le liti che non concernono direttamente l’illegittimità dei provvedimenti amministrativi, bensì le conseguenze di detta illegittimità, purchè valutabili sul (solo) piano patrimoniale-economico, si appartengono al giudice ordinario, intendendosi far correre la linea di demarcazione fra i due ordini di giurisdizione proprio a cavallo di tale discrimine. Ciò, come si è visto, vale(va) anche nei casi preesistenti di giurisdizione esclusiva del g.a.

In una impostazione diversa, invece, come quella adottata dalla riforma, la stessa finisce per perdere di rilievo (ai fini che ne occupa), e per riguardare ogni pregiudizio (beninteso, purchè economicamente valutabile) comunque derivante da atti e comportamenti della p.a. illegittimi (o, ormai, si deve dire illeciti?).

Si ricordi che, stante la previgente linea di demarcazione, ogni volta che il g.o. ha inteso assicurare la tutela risarcitoria di danni inferti a posizioni giuridiche di dubbia classificabilità (ma a volte anche non incerte), ha, sic et simpliciter, qualificato la posizione giuridica in questione come diritto soggettivo, così troncando in radice ogni problema di tipo dogmatico o sistematico che potesse complicare la soluzione della risarcibilità.

La conseguenza è –riteniamo, in conclusione- che, nelle materie interessate dalla riforma (cioè, in ambiti davvero molto estesi, tanto da far parlare di una giurisdizione generale), la tutela risarcitoria si estende, d‘ora in poi, a tutti i pregiudizi che il giudice in concreto ritenga sussistenti e assistiti dai presupposti (di cui si dirà), indipendentemente dalla loro ascrivibilità alla categoria del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo. Le nuove norme si sono preoccupate, in altre parole, di assicurare al cittadino pienezza di tutela nei confronti della p.a.(nelle materie individuate), scegliendo, a questo scopo, anche il prezioso strumento della riunificazione della giurisdizione in capo ad un solo giudice (da ritenere il più qualificato e concettualmente attrezzato (2) nel dirimere le controversie con la p. a). Questa era la finalità, che sembra realizzabile, stando ad una prima valutazione degli strumenti prescelti.

Se ciò è vero, può anche affermarsi –al di là delle espressioni usate e della loro valutazione sul piano teorico-sistematico- che, nelle materie individuate, il legislatore della riforma ha "aperto" in pieno alla tutela risarcitoria, comprendendovi anche le lesioni degli interessi legittimi (se ritenute sussistenti).

Comunque sia, deve ritenersi che la portata delle modifiche normative in discorso sia tale da indurre un mutamento dell’oggetto del processo amministrativo. Ed invero -a parte le ipotesi, da ritenersi non infrequenti, dato che la giurisdizione piena tocca anche liti inerenti a mere prestazioni di servizi- finora la sentenza resa dal g.a. in ordine ad una controversia incentrata sull’assunta illegittimità di un provvedimento si limitava a pronunciare, in caso di accoglimento del gravame, detta illegittimità, salvo la valutazione dell’effetto conformativo (a parte gli sviluppi legati all’azione di esecuzione del giudicato), disinteressandosi degli sviluppi successivi alla sentenza, dalla stessa discendenti.

D’ora in poi, invece, il giudice dovrà occuparsi, nel corso dello stesso processo, di tutte le conseguenze che discendono dall’accertata illegittimità, onde verificare se fra queste vi sia la produzione di un danno ingiusto, e se questo sia riparabile attraverso la reintegrazione in forma specifica, oppure si debba condannare al risarcimento (in tal caso ponendosi questioni in ordine al quantum). Orbene, il fatto che il giudice dovrà, d'ora in poi (nelle materie indicate) farsi carico anche di questi profili, finirà per interagire sui modi stessi di rendere giustizia (anche in ordine all’accertamento dell’illegittimità), e sul contenuto delle sentenze.

3- Tecniche di risarcimento: il danno ingiusto.

Ai fini dell’attuazione della delega (dalla formulazione, in verità, oltremodo ellittica), occorreva fare, in relazione a molteplici aspetti, scelte determinanti fra varie possibili opzioni, il più delle volte, per di più, dalle notevoli implicazioni sul piano concettuale e sistematico. Per quanto non si presentassero, forse, alternative diverse, il decreto delegato ha dovuto prendere posizione in relazione ai modi e agli strumenti tecnico-giuridici da utilizzare al fine di definire le controversie sul risarcimento del danno provocato dal provvedimento o comportamento illegittimo della p.a. Precisamente, lo strumento individuato in sede di attuazione della delega risiede nel ricorso alla nozione giuridica di danno ingiusto.

In tal modo il legislatore, in primo luogo, mostra di muoversi nell’ottica dell’illecito extracontrattuale o aquiliano (3), mostrando di volere ascrivere a questo genus la (relativamente) nuova forma di responsabilità della p.a. Dunque, utilizzandosi la formula contenuta nell’art. 2043 c.c., (espressivo del principio generalissimo neminem laedere), si sceglie di rinviare all’applicazione delle regole sull’illecito extracontrattuale (della p. a.), desumibili dagli art. 2043 ss. del codice. Quanto alle implicazioni di una scelta siffatta, segnaliamo per ora una delle conseguenze di maggiore rilievo dell’opzione a favore del modello di r. extracontrattuale: l’onere della prova del danno incombe sul soggetto che si afferma danneggiato. In secondo luogo –e questo è, forse, un dato ancora più significativo, visti i precedenti- si ricorre ad uno strumento tecnico da sempre utilizzato per escludere, già in astratto e in tesi generale, la tutela risarcitoria degli interessi legittimi.

Certo, ricordiamo, in ordine a questo secondo punto, che, a rigor di termini, la devoluzione della giurisdizione sulle controversie inerenti al risarcimento riguarda, testualmente, i diritti (patrimoniali conseguenziali) e non gli interessi legittimi. Tuttavia, ora non è più il caso –anzi, non si pone più la necessità- di distinguere fra diritti soggettivi e interessi legittimi nell’ambito dei giudizi risarcitori, per quanto si è osservato retro, e il fulcro della nuova disciplina si sposta sulla dimostrazione di avere subito un danno valutabile patrimonialmente, indipendentemente dalla classificabilità secondo canoni astratti o teorici della posizione soggettiva lesa.

Ad ogni modo, gli strumenti concettuali usati confermano, ancora una volta e per altra via, la portata fortemente innovativa -e la conseguente rottura decisa con la concettuologia del passato- dei cambiamenti apportati all’ordinamento previgente. La strada imboccata, insomma, davvero prescinde dalle strette maglie e dalle barriere ideologiche di cui era prigioniero il vecchio sistema. Ne consegue che forte è l’aspettativa che si ripone sul ruolo che il g.a. è chiamato a svolgere, nell’applicazione delle nuove regole: sarà egli capace di assumere un atteggiamento conseguente, e concorde con lo spirito della riforma? Osserviamo che una risposta positiva è imprescindibile per la riuscita della medesima.

Ora, occorre dedicare un sintetico excursus alla nozione di danno ingiusto, e all’evoluzione che lo stesso ha subito, fino a quello indotto dalle norme che ora ci interessano.

Premettiamo, brevemente, che il codice civile, nel disciplinare questo tipo di illecito (e della responsabilità che ne deriva) ha optato –al contrario di altri ordinamenti (4)- per un modello fondato sull’atipicità dell’illecito aquiliano, fondato su una clausola o principio generale (neminem laedere). La formula usata nel porre la norma –principio (art. 2043) –in fondo alquanto ambigua- usa l’espressione danno ingiusto per definire quale sia la responsabilità fonte di risarcimento. Ma, al tempo stesso, pone il problema di cosa debba intendersi per danno ingiusto.

Dunque, non solo c’è, in tale norma, una clausola generale di responsabilità; c’è, in più, un canone normativo –l’ingiustizia del danno- la cui definizione e delimitazione viene lasciata, palesemente, all’apprezzamento prudente della giurisprudenza. E’ così che, fra i tre elementi, tutti indispensabili, ravvisati dalla dottrina per configurare una simile responsabilità –a) atto o comportamento illecito, doloso o colposo; b) danno (ingiusto); c) nesso di causalità fra a) e b)- si venne spostando l’attenzione della dottrina dall’atto o comportamento colpevole al fatto dannoso (vale a dire, in altre parole, dall’agente alla figura del danneggiato), che divenne il nucleo centrale della fattispecie(5). In simile contesto, il criterio dell’ingiustizia andava riferito non tanto alla condotta dell’autore, quanto al danno (6).

Premesse queste ellittiche annotazioni sulla struttura dell’illecito extracontrattuale, occorre dire che l’attenzione della dottrina, ma più ancora della giurisprudenza, si concentrò su che cosa dovesse intendersi per ingiustizia del danno. In uno sforzo di superamento della concezione basata sulla violazione dell’obbligo generale del principio neminem laedere (ritenuto troppo generica), si sostenne una derivabilità del canone dell’ingiustizia dalle singole fattispecie normative dirette a reprimere specifici comportamenti, in un tentativo di ancoraggio a figure tipiche di illecito. Per un’altra teoria, l’ingiustizia corrisponderebbe all’espressione non jure usata dai classici, vale a dire in assenza di cause di giustificazione.

Infine, una terza opinione -destinata, poi, ad affermarsi, specialmente nella giurisprudenza- "ravvisa l’ingiustizia nella lesione di una qualsiasi situazione giuridica soggettiva, giuridicamente rilevante, a seguito della protezione dell’interesse dei privati accordato in vario modo dalla norma (...). Nella medesima prospettiva si afferma che il significato della nozione legislativa di ingiustizia è quello di lesione di un interesse giuridicamente rilevante. Tale significato serve a svincolare la categoria concettuale del fatto illecito dal requisito del pregiudizio economico e aiuta a comprendere perchè in mancanza della presenza effettiva di un pregiudizio l’ordinamento offra altre misure di reazione contro il fatto illecito (es.: l’azione inibitoria). Questa interpretazione è inoltre del tutto coerente col sistema di atipicità dell’illecito adottato dal nostro codice"(7).

Nella materia, decisivo, ad ogni modo, è l’orientamento della giurisprudenza. Ed invero quest’ultima –a parte recenti teorie di altra dottrina tendenti a superare il rilievo attribuito al requisito dell’ingiustizia, e a valorizzare il danno in sè- ha determinato il corso e l’evoluzione della materia, centrando l’indagine (e risolvendo le varie controversie) sulla nozione dell’ingiustizia, e sulla relativa estensione. In particolare, la giurisprudenza della Corte di cassazione, ad es., oltre a porre in rilievo il requisito non jure del danno (i.e. l’assenza di cause di giustificazione), ribadisce la necessità che il danno sia arrecato, al tempo stesso, "contra jus (vale a dire, in quanto tale fatto incida su una posizione soggettiva attiva tutelata come diritto perfetto), sì che non vi è ragione di escludere dalla tutela i diritti relativi"(8).

Fu così che, dall’originaria delimitazione del requisito dell’ingiustizia ai soli diritti assoluti (validi, cioè, erga omnes), la Cassazione pervenne –con un deciso e storico révirement operato nel 1971 (9)- ad ammettere la tutela aquiliana anche dei diritti di credito del terzo, incisi dal comportamento colposo produttivo di un danno (perciò) ingiusto, imprimendo una sterzata decisiva al progresso e all’estensione dell’area di risarcibilità del danno extracontrattuale.

Come si vede, da una precedente –e di molto lunga durata- limitazione del riconoscimento della risarcibilità ai soli diritti assoluti, si pervenne -evidentemente sotto la spinta della realtà sociale, economica, di costume, che andava sensibilmente mutando nel senso di spostare sensibilmente i rapporti economici dai diritti assoluti a quelli di credito- ad estendere l’area della risarcibilità nei riguardi di questi ultimi diritti. Ma il cammino intrapreso non poteva certo fermarsi a questo punto, data la molteplicità e varietà delle situazioni giuridiche soggettive (10) suscettibili di essere pregiudicate dal danno arrecato dall’altrui comportamento colposo o doloso.

Si spiega così la lenta ma continua marcia di avvicinamento, sia pure in forme spesso mascherate o indirette all’inserimento nell’area della risarcibilità anche delle lesioni degli interessi legittimi, quanto meno in alcune fattispecie. Stanti le vedute attuali della dottrina –ma specialmente, ciò che appare più decisivo, della giurisprudenza- l’apertura alla tutela risarcitoria di dette posizioni non poteva non passare, senza contraddire il sistema, attraverso l’inclusione nell’estensione del requisito dell’ingiustizia (del danno) anche di siffatte situazioni giuridiche soggettive.

Ed invero, a parte le riserve circa una presunta volontà legislativa di ammettere, come acquisizione di carattere generale, la tutela aquiliana anche degli interessi legittimi, comunque si vogliano chiamare quei diritti patrimoniali conseguenziali ora ammessi al risarcimento (11), sta di fatto che, perchè risarcimento si abbia, il loro insorgere deve configurare un danno ingiusto per chi lo subisce. E’ questa la strada individuata, ora, dal legislatore, in accordo con il sistema vigente di tutela aquiliana, per includere dette posizioni giuridiche nell’area della risarcibilità.

4- La reintegrazione in forma specifica e la riparazione per equivalente.

La norma –art. 35.1 del D.Lgs. n. 80/98- non parla, d’altra parte, soltanto di risarcimento del danno, ma anche di reintegrazione in forma specifica: "Il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli art. 33 e 34, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto".

Il dato testuale della disposizione a prima vista suscita, sotto il profilo dell’uso ortodosso dei concetti giuridici, qualche perplessità: invero, è insegnamento consolidato che la nozione di esecuzione in forma specifica sia qualcosa di alternativo rispetto al risarcimento del danno, nel senso che, là dove non è possibile accordare protezione all’interesse sotto forma di sua ricostituzione, o di restitutio in integrum- si fa luogo alla riparazione per equivalente, costituita, appunto, da obblighi risarcitori. Il risarcimento, in sostanza, è un surrogato rispetto al ripristino della situazione preesistente all’evento dannoso, e viene logicamente in rilievo soltanto quando non sia possibile la restitutio in integrum., che logicamente dovrebbe prevalere su altri modi di riparazione, in quanto e nei limiti in cui sia possibile (ma, cfr. l’art. 2058 c.c.).

Invece, nella norma appena riportata, sembra accedersi ad una visione incentrata precipuamente sul danno (inferto dal provvedimento o dal comportamento illegittimi dall’amministrazione), inteso come figura generale e principale, fra le cui componenti possono rientrare anche modi di reintegrazione in forma specifica. Si tratta di impostazione in apparenza discutibile, che in parte trova una giustificazione nel menzionato parere del Consiglio di Stato.

In detto parere, infatti, mentre, da una parte, si sottolinea che la clausola generale dell’ingiustizia "non esclude il danno da inadempimento", si accenna ai vari modi che il giudice ha a disposizione per disporre la reintegrazione delle lesioni di diverse situazioni giuridiche soggettive. Si vorrebbe, in questa sede, prescindere anche da possibili dubbi –sempre di ordine teorico-sistematico- circa l’oscillazione fra modelli di responsabilità contrattuale e di r. extracontrattuale, per sottolineare come la soluzione di quesiti e dubbi di ordine applicativo (che possono immaginarsi numerosi e consistenti) sia stata largamente e fiduciosamente affidata al prudente apprezzamento del g.a. e della sua giurisprudenza e per sottolineare, altresì, che l’attenzione si sposta, in tal modo, doverosamente, sulle componenti del danno, in verità spesso ipotizzabile di varia ed eterogenea composizione.

Vediamo, allora, come potrà presentarsi la lesione delle posizioni giuridiche del soggetto, quali i tipi di pregiudizio, e quali i modi della riparazione, limitandoci, per ora, a rimanere entro l’ipotesi di emissione di provvedimento giudicato illegittimo.

Come si può immaginare, la situazione muta, da un primo angolo visuale, a seconda che si tratti di provvedimenti che dispongono di interessi legittimi oppositivi o pretensivi. Si faccia, ora, l’ipotesi del provvedimento che incide sulla sfera giuridica del destinatario, disponendo il sacrificio o la compressione, in tutto o in parte, di una sua posizione giuridica. Si ipotizzi, altresì, che il g.a. abbia accertato l’illegittimità di un simile atto.

Orbene, in tesi generale e in astratto, un simile accertamento, con il conseguenziale annullamento, basta a ripristinare la situazione preesistente all’emissione dell’atto illegittimo. In simile fattispecie, in altre parole, il "danno ingiusto" provocato dalla p.a. al destinatario del provvedimento sarebbe rappresentato proprio e solo dall’illegittimità dell’atto, e la riparazione avverrebbe, ipso jure, con l’annullamento del provvedimento illegittimo. Dunque, si tratterebbe di reintegrazione in forma specifica, dal momento che qui si realizza -sempre in pura teoria- il ripristino della situazione anteriore, vale a dire quella in essere prima dell’emissione (rectius: esecuzione) dell’atto illegittimo.

Ma si tratta di situazione affatto schematica, che nella realtà potrebbe essere ben più ricca ed articolata. Ed invero, una situazione del genere potrebbe presentarsi solo nel caso che il provvedimento non sia mai stato portato a esecuzione, per via della tempestiva impugnazione davanti al g.a., e della sospensione della sua esecutività, ad opera del giudice, nella fase cautelare del processo. In simile ipotesi, davvero l’annullamento dell’atto dovrebbe bastare ex se ad esaurire ogni obbligo di riparazione (a meno che non si dimostri, per altra via, la sopravvenienza di altri danni derivanti dall’illegittimità in sè), costituendo la reintegrazione in forma specifica dovuta al danneggiato.

Una diversa situazione potrebbe presentarsi nel caso che l’atto sia stato portato a esecuzione (ad es., per intempestiva proposizione della domanda cautelare, o per diniego di sospensione da parte del giudice, ecc.), in tutto o in parte, per un tempo limitato, o per tutta la durata del processo. In simile fattispecie, evidentemente, non basta la rimozione del provvedimento illegittimo per reintegrare la situazione previgente, se l’esecuzione dell’atto illegittimo ha prodotto effetti irreversibili: mentre l’annullamento –vale a dire la reintegrazione in forma specifica- ovvierà per l’avvenire, per il periodo in cui il provvedimento è stato eseguito, ove non siano possibili forme di ripristino o di restituzione, occorrerà fare luogo alla riparazione per equivalente, vale a dire al risarcimento.

E’ anche possibile, poi, che il provvedimento illegittimo che incide su i.l. oppositivi sia stato portato in toto ad esecuzione, e una reiterazione del medesimo in forme legittime non basti a ripristinare la situazione (si faccia l’esempio di un’ordinanza di sospensione dell’attività economica di un’impresa risultata poi illegittima, ma intanto eseguita: in tal caso non v’è altro rimedio che il risarcimento del danno, in relazione al periodo di chiusura).

Ipotesi particolari –ma non certo infrequenti- si presenteranno, poi, sempre in tema di provvedimenti che incidono su posizioni giuridiche in qualche modo ragguagliabili a i.l. oppositivi (o sui veri e propri diritti?), di natura sanzionatoria (ad es., nella materia dell’edilizia e dell’uso del territorio). Orbene, trattandosi di ordinanze recanti irrogazione di sanzioni pecuniarie (eseguite), l’annullamento dell’ordinanza risultata illegittima al vaglio del giudice produce la conseguenza della restitutio in integrum: in questo caso la reintegrazione in forma specifica o la restituzione coincide con il pagamento di una somma di denaro, che non configura, dunque, una riparazione per equivalente (risarcimento).

Affatto diversa, invece, è l’ipotesi di sanzione di natura non pecuniaria (afflittiva), bensì ripristinatoria, irrogata con ordinanza di cui venga accertata l’illegittimità. In tal caso, il portare a esecuzione l’ordine di demolizione o di rimessa in pristino dell’area interessata comporta l’irreversibilità (in senso relativo) degli effetti dell’esecuzione dell’ordinanza illegittima. Stante una simile situazione, si può pensare che spetterà, prima ancora che al giudice, alla parte vittoriosa scegliere fra la reintegrazione in forma specifica (il che comporterebbe la ricostruzione del fabbricato abbattuto, in ipotesi) ovvero la condanna alla corresponsione di una somma di valore equivalente (risarcimento). Si ritiene, infatti, appicabile a simile fattispecie l’art. 2058, in base al quale il diritto di scelta spetta al danneggiato, fermo restando che il giudice potrà dispore il risarcimento ove la reintegrazione risulti eccessivamente onerosa per il responsabile. A parte questo aspetto fondamentale, tuttavia, anche in una simile ipotesi potrebbero riscontrarsi componenti ulteriori di un più vasto e complesso danno ingiusto, come, ad es., nel caso che l’interessato invochi, per il periodo di demolizione, e fino alla sua ricostruzione, perdute chances in relazione ai possibili usi, fruttuosi, dell’immobile demolito. Anche nell’ipotesi che si opti per la riparazione per equivalente, in ogni caso le componenti della somma totale riguarderebbero, una il valore dell’immobile, ed un’altra le perdute opportunità di utilizzazione o investimento(12).

Altre classi di ipotesi riguardano i provvedimenti –di cui venga accertata l’illegittimità- che incidono su interessi legittimi c.d. pretensivi. Al riguardo valgano le considerazioni che ordinariamente si fanno in tema di effetto conformativo delle sentenze relative al giudizio ordinario di legittimità.

Per quanto attiene alle problematiche che si pongono con il giudizio sul danno che scaturisce da consimili atti, anche se si possono nutrire perplessità sui modi, è chiaro che realizzare la giustizia in argomento non può prescindere da forme (non di reintegrazione in forma specifica in senso proprio, perchè il provvedimento vanamente richiesto alla p.a. tendeva ad accrescere –o mutare in melius- la situazione previgente, bensì) di condanna ad un facere specifico. Il risultato cui devono tendere le misure che il giudice assumerà con le relative sentenze, in altre parole, non può che essere diretto alla finalità di assicurare l’utilità che il diniego o l’inerzia della p.a. hanno impedito all’interessato di conseguire. Occorre fare in modo da far ottenere alla parte risultata vittoriosa in un simile giudizio l’atto di assenso denegato, ecc., e viene naturale pensare che la sentenza recherà la condanna della p.a. soccombente all’emissione dell’atto favorevole, e che, nelle more, l’interessato sia comunque facultato a svolgere l’attività in contestazione (13). In ogni caso, è chiaro che si tratta di soluzioni affini alla reintegrazione in forma specifica, e non propriamente di risarcimento (o, forse più correttamente, di qualcosa che sta a metà strada fra i due istituti giuridici). Ma potrebbero anche presentarsi ulteriori componenti del danno, a somiglianza di quanto si è visto nelle ipotesi precedenti.

Conviene, ora, abbandonare l’esame di tutte le possibili eventualità, poichè sarà, senza meno, la giurisprudenza ad elaborare soluzioni specifiche in ordine alla casistica che verrà sottoposta ai giudici.

Piuttosto, in via di conclusione sull’argomento, si possono fare due osservazioni. In primo luogo, sembra implicito in quanto si è fin qui detto che, quanto meno nella materia de qua, non può parlarsi di vera e assoluta alternatività fra reintegrazione in forma specifica e risarcimento: vero è che qui il danno è l’aspetto prevalente, e che, fra le sue componenti, ben spesso si inseriscono anche detta reintegrazione o le restituzioni (14) (o qualcosa di intermedio). Alla luce di queste considerazioni, sembrano giustificarsi le espressioni usate nell’art. 35 (e, prima ancora, nel menzionato parere del Consiglio di Stato), cui si è accennato.

In secondo luogo, sembra evidente che, in questa prospettiva di palese giudizio sul rapporto, perde in certo modo di valore il giudizio sull’annullamento, che diviene (solo) un presupposto al fine di pervenire al ripristino o al risarcimento: "Il risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, è sempre attribuito al giudice amministrativo nell’esercizio della giurisdizione esclusiva. L’annullamento finisce con lo svolgere una funzione meramente strumentale rispetto alla pronuncia di merito, che rende cioè effettiva ed immediata giustizia" (15).

5- Il danno: prova; elementi; concorso di colpa del danneggiato; compensatio lucri cum damno (cenni).

Circa il carattere (ed anzi la qualità) di ingiustizia del danno, si è detto alquanto. Ora, invece, conviene aggiungere qualche breve considerazione in merito alla prova, agli elementi del danno e ad altri aspetti della disciplina relativa, nonchè ai caratteri dell’azione di risarcimento ed agli aspetti più specificamente processuali.

Partendo dalla costruzione della responsabilità aquiliana (in cui va inserita quella di cui stiamo discorrendo, come si è accennato), bisogna dire –tanto per cominciare- che sul soggetto che agisce per ottenere (oltre, eventualmente, all’annullamento dell’atto) il risarcimento o la restitutio in integrum, grava l’onere di dimostrare l’esistenza del danno, conformemente ai principi inerenti a detto tipo di responsabilità (16). Diverso sarebbe, invece, se si trattasse di responsabilità contrattuale, ove, in presenza di inadempimento o adempimento imperfetto o tardivo, l’onere di dimostrare l’assenza di responsabilità –rectius: la non imputabilità- ricade sul debitore (art. 1218 c.c.)(17).

In merito all’argomento della dimostrazione del danno, ci si chiede se, e in quali modi, sia applicabile al giudizio risarcitorio davanti al giudice amministrativo il consolidato e costante indirizzo giurisprudenziale formatosi in materia civile, in ordine allo sdoppiamento di esso giudizio in due (il primo concernente l’esistenza, o meno, del danno, il secondo ai fini della liquidazione del danno in separata sede) (18) e, più in particolare, alla possibilità, per l’attore, di chiedere la condanna generica al risarcimento, il che potrebbe avvenire anche sulla base di criteri probabilistici circa l’attitudine a produrre danni del fatto accertato, senza pregiudizio del concreto futuro accertamento della sussistenza o meno di tali danni (naturalmente, è stato ritenuto legittimo il rigetto della seconda domanda in caso di esito negativo del giudizio sull’an (19), quando, cioè, sia stata accertata l’inesistenza di qualsiasi danno).

Di ciò si dirà, più avanti. Tuttavia, sembra di potere anticipare che, per come è stato strutturato il processo sul danno (cfr. art. 35.2 del D. Lgs. n. 80/98), tale duplicità di giudizi può farsi coincidere, grosso modo, con la quanto meno duplicità di giudizio, suddiviso fra processo sulla legittimità o meno dell’atto o del comportamento della p.a. e quello –contestuale o conseguenziale- sul risarcimento (o reintegrazione in forma specifica). Proseguendo nel parallelo con quanto accade nella materia civile, si può, forse, affermare, senza tema di andare molto lontano dalla verità, che la facoltà del g.a. di fissare i criteri per la determinazione del danno nella sentenza può, grosso modo, assimilarsi alla condanna generica di pagamento, laddove il giudizio di ottemperanza –che segue, nell’ipotesi di mancato accordo sul danno ex art. 35.2 cit.- potrebbe rapportarsi al giudizio sul quantum che segue indefettibilmente la sentenza di condanna generica. Un fatto è certo: le affinità fra i due giudizi risarcitori valgono e reggono fino ad un certo punto, tanto che il legislatore delegato ha dovuto compiere uno sforzo di adattamento delle nuove competenze del g.a. alle peculiarità del processo amministrativo.

Elemento psicologico

Se si dovesse seguire più da vicino la teoria della responsabilità aquiliana in materia civile, occorrerebbe dedicare non poco spazio all’elemento soggettivo. Qui ci limitiamo ad osservare che, per l’art. 2043 ss. c.c., è irrilevante se il fatto sia stato prodotto con comportamento colposo o doloso (ma questo dato normativo del sistema tende ad essere criticato dalla più recente dottrina) (20), perchè, come è stato osservato (21), l’art. 2056, per la valutazione dei danni, non richiama l’art. 1225 (che, per la r. contrattuale, limita l’obbligo di risarcimento dei danni arrecati per colpa ai soli danni prevedibili al tempo in cui è sorta l’obbligazione). Invece, con riguardo alle ipotesi di responsabilità civile nascente da reato, si è costretti ad ammettere in più di un caso una differenziazione, quanto meno in ordine al carico risarcitorio, per il fatto che, spesso, per il diritto penale, più grave si appalesa la responsabilità caratterizzata da dolo. In ogni caso può aggiungersi che la colpa –desunta, peraltro, dall’art. 43 c.p., in mancanza di esplicita norma nella la disciplina della r. civile-, caratterizzata da imperizia negligenza, imprudenza, ecc., si presenta più spesso nei comportamenti omissivi. (Ma, ovviamente, un’omissione si può attuare anche con dolo).

Poichè, nelle materie devolute alla giurisdizione piena del g.a. dal decreto n. 80/98, la responsabilità nasce, ordinariamente (ma non sempre) da atti e provvedimenti della p.a. (ed anche da comportamenti come l’inerzia, il ritardo, e così via), occorre avvalersi di un metro diverso, per il fatto che, quanto meno nel primo caso, si tratta per definizione di atti volontari, più precisamente di manifestazioni di volontà dirette ad uno scopo tipico previsto dalla legge per la realizzazione di finalità legate al soddisfacimento di interessi generali o comunque riguardanti gruppi sociali più o meno ampi. Dunque non solo la volontarietà, ma finanche la finalità è come ipostatizzata nell’atto, ragion per cui non occorrono indagini sull’atteggiarsi della volontà dell’agente e, in genere, sull’elemento psicologico di questi (a meno che non si tratti di accertare una intenzione dolosa, e dunque una volontà deviata rispetto al fine tipico del provvedimento posto in essere) (22).

Queste sintetiche annotazioni mostrano –con la ridotta rilevanza dell’elemento psicologico dell’agente nell’attività amministrativa (ma ciò vale in particolare per gli atti)- che il soggetto il quale abbia ricevuto danni da un atto (o comportamento?) illegittimo, se è tenuto a dimostrare l’esistenza del danno (ma spesso, occorre dire, il danno è in re ipsa, sorge, cioè, contestualmente all’emissione dell’atto, di tipo, ad es., ablatorio, trattandosi così soltanto di stabilire se il danno sia contra jus –nel caso di atto illegittimo- o secundum jus, nel caso contrario), non ha un onere preciso di dimostrazione della colpa. Le stesse considerazioni consentono di potere affermare, altresì, che, nel tipo di responsabilità di cui stiamo discorrendo, viene in rilievo non tanto la responsabilità dell’agente – persona fisica, quanto quella dell’ente o amministrazione o organo.

Invece, nel caso che il danno si faccia derivare precipuamente dal dolo, riteniamo che occorra una specifica dimostrazione. Ed invero, in tal caso si ipotizza un’intenzione della persona fisica che agisce per la p.a., diretta a conseguire un sua propria finalità, esterna al provvedimento –volontà deviata-, cui consegue la produzione del danno al destinatario dell’atto (eventualmente anche attraverso l’emissione di un provvedimento in sè legittimo). In simile eventualità, sembra potersi affermare che una simile dimostrazione tenda a coincidere con quella dell’eccesso di potere (o anche, eventualmente, dell’abuso d’ufficio, con ciò configurandosi anche una fattispecie di responsabilità penale, ex art. 323 c.p.).

Nesso di causalità.

Un discorso non molto dissimile ci sembra che possa essere fatto anche in relazione all’altro elemento della responsabilità, vale a dire il rapporto di causalità tra condotta –azione od omissione (in questo caso, in buona parte dei casi il provvedimento)- e l’evento-danno (alla stregua di un rapporto causa-effetto), per il fatto che tale elemento è diretta conseguenza della concezione soggettiva della responsabilità, "in quanto l’indagine sul nesso causale si basa sul comportamento illecito e si domanda se tale comportamento sia stato causa dell’effetto dannoso"(23). Tuttavia, ci sembra che, se un simile assunto sia sostenibile in presenza di contestazione di provvedimenti o condotte omissive (di provvedimenti), il tema riemerga allorquando oggetto della controversia sia una finalità personale dell’agente, deviata rispetto alla causa tipica del provvedimento amministrativo (come si è accennato retro, parlando dell’elemento psicologico).

In simile eventualità, invero, si tratta di dimostrare non solo la presenza di detta intenzione deviata, ma, altresì, le conseguenze da essa ricavabili in termini di danno.

Il tema del messo eziologico fra azione o condotta dell’agente e conseguenze dannose è a sua volta vasto e non esente da suggestioni, andando esso ad investire argomenti di cui si occupano la scienza e la filosofia, e per il fatto che occorre stabilire quale sia il criterio da seguire per ascrivere al soggetto agente le conseguenze dannose (i.e. quale fra le varie teorie sulla causalità prediligere). Dal momento che, secondo quanto si è accennato, l’onere della dimostrazione del nesso di causalità per responsabilità derivante da atti illegittimi è piuttosto residuale (come si è appena detto), omettiamo un discorso organico sull’argomento. Ci limitiamo soltanto a ricordare che, come accade per l’elemento psicologico, la disciplina in materia civile e penale è unitaria (tanto che le regole si desumono, anche per la r. civile, dagli art. 41-43 c.p.); che il criterio adottato dalla giurisprudenza non è assoluto ed univoco (nel senso che non viene privilegiata in assoluta nessuna delle teorie che si contendono il campo sulla causalità), per lo più rifacendosi al criterio (di causalità) ricavabile da un giudizio di probabilità ex ante ovvero di adeguatezza, corretto dal criterio della causalità efficiente (art. 41.2 c.p.), secondo cui, se interviene un avvenimento atto a spezzare la serie causale, di per sè solo sufficiente a produrre l’evento, è questa causa prossima ad assurgere al rango di causa efficiente esclusiva, non ravvisandosi il nesso di causalità fra l’azione dell’agente e l’evento.

Valutazione del danno; componenti.

Anche sulla composizione e valutazione dei danni, come sulla compensatio lucri cum damno, ci limitiamo ad accenni schematici, non essendo questa un’opera dedicata espressamente alla responsabilità della p.a.

La teoria della responsabilità esige la risarcibilità tanto del danno emergente che del lucro cessante, sia nella responsabilità contrattuale che in quella extracontrattuale. Invece, rientrando la responsabilità in discorso nel quadro della r. aquiliana, sono ammessi al risarcimento tanto i danni prevedibili che quelli imprevedibili. Infatti, si è già visto che l’art. 2056 c.c., parlando di valutazione dei danni, non richiama l’art. 1225 (che distingue, per il risarcimento nella r. contrattuale, fra comportamento doloso e colposo).

La stessa norma richiama, invece, gli art. 1223 (inclusione nel danno sia del damnum emergens che del lucrum cessans, in quanto, tuttavia, ne siano conseguenza immediata e diretta; ma su quest’ultimo punto la giurisprudenza spesso ha esteso l’obbligo di r. anche ai danni mediati o indiretti), 1226 (valutazione equitativa del danno da parte del giudice, quando questo non sia determinabile nel suo esatto ammontare), e 1227 (concorso del fatto colposo del creditore).

Quest’ultima disposizione, in particolare, sembra pacificamente applicabile, in talune fattispecie, alla responsabilità da atti illegittimi.

Si faccia l’ipotesi di un’ordinanza sindacale di demolizione parziale di un fabbricato ritenuto abusivo (limitatamente alla parte interessata dall’abuso), provvedimento risultato illegittimo al vaglio del giudice amministrativo, ma portato ad esecuzione o per intempestiva proposizione della domanda di sospensione, o per il rigetto di tale domanda cautelare da parte del medesimo giudice. Si ipotizzi, altresì, che il proprietario dell’immobile proceda erroneamente, in economia, all’abbattimento della parte abusiva del fabbricato, oppure che dia disposizioni imprecise o errate all’impresa incaricata della demolizione e che, di conseguenza, venga danneggiato l’intero immobile, ovvero una parte maggiore di quella interessata dall’ordinanza sindacale. In un caso simile, si deve ammettere che l’obbligo di risarcimento dell’amministrazione si estende non all’intero pregiudizio, ma si limiti ad una parte soltanto (i.e. quella rapportata alla parte di fabbricato cui si riferiva l’ordinanza sindacale). Dunque, le regole sul concorso di colpa del danneggiato, anche se non frequentissimamente, troveranno, presumibilmente, applicazione anche nella materia della responsabilità della p.a. per atti illegittimi.

Compensatio lucri cum damno.

Anche le regole relative a detto istituto potranno, in qualche fattispecie, trovare applicazione nella nuova giurisdizione piena per responsabilità da atti o comportamenti illegittimi della p.a. Un esempio potrebbe configurarsi riprendendo, con adattamenti, l’ipotesi appena fatta in relazione al concorso di colpa del creditore.

Si tratta di una o parziale elisione di danni e vantaggi che si pongano entrambi quali conseguenze del medesimo fatto illecito (qui, illegittimo), nel senso che deve sussistere il nesso di causalità non soltanto fra condotta e danno ma anche, al tempo stesso, fra la stessa condotta e il vantaggio. Infatti, la giurisprudenza (24) ha escluso tale compensazione allorquando abbia ritenuto che il vantaggio derivato al danneggiato non sia stretta conseguenza della condotta illecita, ma sia causalmente collegabile a una diversa origine.

Nell’esempio fatto, si potrebbe ipotizzare un incremento di valore dell’immobile demolito in toto anzichè parzialmente, a seguito della sua contestuale ristrutturazione o modifica, ecc. Poichè non potrebbe, in simile eventualità, ricollegarsi direttamente l'incremento di valore all’ordinanza di demolizione illegittima, la compensatio dovrebbe escludersi.

Alquanto nutrita è, poi, la casistica collegabile al vantaggio derivato al proprietario del fondo da occupazione divenuta illegittima per protrazione oltre il biennio: la compensazione è stata esclusa quando detto vantaggio non era collegabile causalmente al comportamento illegittimo dell’amministrazione (25).

6- Azione di condanna al risarcimento e azione di annullamento

Dedichiamo, ora un po’ di attenzione a taluni degli aspetti processuali della nuova disciplina.

Ed invero, a differenza delle pregresse previsioni normative di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (episodiche e frammentarie), per quanto riguarda il processo, ci troviamo, ora, davanti a disposizioni che sembrano farsi carico della natura e dell’entità dei problemi posti al g.a. con la devoluzione di questo nuovo tipo di giurisdizione –che non è più, riteniamo, un esempio classico di giurisdizione esclusiva, poiché l’estensione della cognizione ai diritti patrimoniali conseguenziali, e alle liti finalizzate alla reintegrazione patrimoniale, quanto meno deve indurre a definirla come giurisdizione piena- e dunque ad innovazioni di un certo respiro, che anticipano, in qualche modo, quella riforma del processo amministrativo più volte tentata in passato, con esito pressochè nullo.

D’altra parte, rilevata detta relativa organicità della nuova disciplina, si tratta di decifrarla, chiarendo come si svolgeranno i processi nelle materie interessate dalla nuova giurisdizione esclusiva (piena) del g.a., a partire dall’instaurazione dell’azione e passando attraverso l’istruzione probatoria, ecc.; in secondo luogo, occorrerà accertare se detta disciplina troverà applicazione anche alla giurisdizione esclusiva preesistente (cosa che appare più che probabile), nonchè anche agli altri tipi di giudizio, fra cui, principalmente, quello ordinario di legittimità (cosa, invece, meno probabile).

Infine, converrà chiarire i rapporti fra l’azione di annullamento e quella di risarcimento e/o di reintegrazione in forma specifica. Il discorso potrà apparire, forse, più organico iniziando proprio da quest’ultimo profilo.

Le norme che hanno dettato la disciplina riformatrice della giurisdizione in discorso, pur alquanto articolate, non chiariscono i rapporti fra la tradizionale azione impugnatoria, diretta ad ottenere l’annullamento del provvedimento illegittimo, e quella di condanna, diretta ad ottenere la reintegrazione patrimoniale, nella forma del risarcimento del danno ingiusto e/o della reintegrazione in forma specifica. Ma, nondimeno, il problema esiste. Mentre in passato, invero, il soggetto che intendesse ottenere la reintegrazione patrimoniale era costretto ad instaurare un duplice ordine di giudizi, per di più davanti a due diversi giudici, ora –beninteso, nelle (sole) materie interessate dalla riforma- è grandemente facilitato, potendo incardinare entrambe le azioni davanti al medesimo giudice.

Ma, ci si chiede: a) è tenuto, detto soggetto, ad instaurare, separatamente, due distinte azioni, ovvero, nel contesto di un unico ricorso, potrà formulare sia la domanda di annullamento, sia quella rivolta ad ottenere la condanna alla reintegrazione patrimoniale (evidentemente in via subordinata, dipendendo l’esito della seconda dall’accoglimento, o meno, della prima)? b) Potrà, eventualmente, l’interessato –trattandosi di controversie concernenti diritti- rivolgere al giudice adito soltanto la seconda domanda (e ciò, segnatamente, nell’ipotesi che egli abbia lasciato trascorrere invano il termine di decadenza per l’impugnazione del provvedimento)? (26)

La risposta alla prima domanda sembra contenuta nella norma stessa. In particolare, l’art. 35.1, recita, testualmente: "Il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli articoli 33 e 34, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto".

La lettera della norma sembra deporre senz’altro per l’interpretazione nel senso che di controversia unica deve trattarsi (o, ordinariamente, si tratta). Sembra, cioè, che il soggetto interessato a contestare un provvedimento amministrativo ritenuto illegittimo (e per questo lesivo nei suoi confronti), e a trarne le conseguenze di ordine risarcitorio o comunque in termini di reintegrazione, possa, al duplice fine di ottenere l’annullamento del provvedimento e la reintegrazione, aprire una sola controversia. In sostanza, il soggetto che proponga il ricorso diretto all’annullamento, nel contesto del medesimo atto introduttivo del ricorso, potrà senz’altro formulare anche la domanda di risarcimento e/o di reintegrazione in forma specifica.

Un ricorso siffatto conterrà, in altre parole, una domanda formulata in via principale, volta ad ottenere, con la declaratoria dell’illegittimità dell’atto, l’annullamento di questo, ed un’altra, ordinariamente formulata in via subordinata all’accoglimento della precedente, diretta ad ottenere la condanna alla reintegrazione. Si tratterà, cioè, dell’instaurazione di due azioni –di annullamento e di condanna- nel contesto di un unico ricorso. La cosa non è certo nuova, dal momento che nella giurisdizione esclusiva (segnatamente quella sul pubblico impiego) è usuale rivolgere al g.a. due domande con un solo ricorso, di accertamento del diritto e di condanna. (Certo, in quest’ultimo caso il nesso fra le due domande è strettissimo, ed anzi la condanna, si può dire, è l’altra faccia dell’accertamento, o riconoscimento del diritto; tuttavia, è innegabile che anche nel caso in esame il collegamento fra le due domande, per quanto mai si sia presentato in passato, è ugualmente stretto, sebbene la seconda domanda, subordinata alla prima, attenga a questioni che, a volte, si pongono in ordine alle conseguenze solo eventualmente discendenti dall’accoglimento di questa).

A dire il vero, la formulazione letterale della norma potrebbe indurre a pensare che non occorra nemmeno, per il ricorrente, formulare la domanda (in via subordinata) di risarcimento o di reintegrazione in forma specifica; si potrebbe sostenere, cioè, che il giudice, una volta accertata l’illegittimità del provvedimento e annullatolo, di seguito -ove consideri il tipo di illegittimità (27) accertata quale fatto causale di un danno ingiusto, e dunque fonte di un obbligo di risarcimento- con la stessa sentenza possa disporre il risarcimento medesimo.

Peraltro, riteniamo che non possa condividersi una simile prospettazione, siccome in contrasto con il principio della domanda, che domina il nostro sistema processuale. Vero è che ci sono casi determinati di condanna pur in mancanza di domanda di parte (come suol dirsi, ex officio): si pensi all’art. 429 c.p.c., il quale, nelle cause di lavoro, prevede che il giudice, "quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme per crediti di lavoro" (nella portata della previsione normativa la giurisprudenza ha, poi, attratto anche i crediti previdenziali, data l’affinità di natura giuridica, qui c.d. di retribuzione differita), dispone la condanna al pagamento anche degli interessi legali e del maggior danno dovuto alla svalutazione monetaria. Tuttavia, le due fattispecie normative non sono paragonabili, poichè nell’ipotesi di cui all’art. 429 c.p.c. ci si trova di fronte –oltre che ad un’esplicita previsione normativa derogatoria- a prestazioni accessorie rispetto al credito principale, di cui si controverte (del quale non mutano la natura giuridica), e di determinazione del quantum relativo (28). Dunque, la sentenza contiene (a rigor di termini) non due capi di condanna, bensì uno soltanto, concernente un credito che ha varie componenti, ma ascrivibili tutte alla medesima ratio e natura: sorte capitale; interessi; rivalutazione monetaria).

Nel caso dell’art. 35, invece, si tratta di due distinti giudizi –per quanto strettamente collegati da un nesso di conseguenzialità logico-giuridica- ed anzi di una pronuncia su due distinte domande. Pertanto si ritiene che il g.a., ove sia investito della sola domanda di annullamento, in caso di accoglimento, emetterà soltanto una sentenza (di tipo costitutivo) che dispone l’annullamento.

Certamente, bisogna dire che una consimile sentenza potrà costituire il presupposto per la eventuale azione di condanna successiva, da ritenere, fra l’altro, legata ai tempi della prescrizione e non di decadenza (come accade, invece, per l’azione di impugnazione), a somiglianza di quanto accadeva per il passato. Soltanto, con la nuova disciplina, anche questa seconda (eventuale) domanda va rivolta allo stesso giudice che si è pronunciato sull’illegittimità del provvedimento (il che non è poco, come si è più volte chiosato). Nulla, poi, impedirebbe, ovviamente, al giudice di inserire nella sentenza che pronuncia sull’annullamento eventuali obiter dicta che affermino tanto che l'illegittimità riscontrata può costituire fonte di risarcimento, tanto che ciò non può accadere, in considerazione del tipo di vizi riscontrati nell’atto.

Premesse queste considerazioni circa i rapporti fra le due azioni (o le due domande), conviene soffermarsi su quest’ultimo punto: si deve ritenere che ogni tipo di vizio riscontrato nell’atto, costituisca, al tempo stesso, presupposto per l’annullamento e per la reintegrazione patrimoniale? Oppure diverse possono essere le conseguenze agli uni e agli altri effetti?

Secondo un’impostazione ortodossa e tradizionale, dovrebbe ritenersi che qualsiasi tipo di vizio che inficia l’atto conduca al suo annullamento, sia esso attinente, usando un’espressione ellittica, alla forma (i.e. al procedimento, all’organizzazione, agli obblighi prescritti dalle norme circa il deliberare, verbalizzare, e così via), sia che riguardi, invece, prescrizioni di tipo sostanziale, nel senso che disciplinano quello specifico rapporto o quella data materia, ecc (come, ad es., un’erronea o falsa interpretazione, o mancata applicazione delle norme che pongono requisiti, condizioni, ecc., per il rilascio del provvedimento richiesto o comunque dovuto dall’amministrazione, o regolano i rapporti fra p.a. e privato nascenti dal provvedimento, ecc.).

D’altra parte, è noto che vi sono non pochi vizi che inducono il giudice che li abbia riscontrati a non annullare il provvedimento impugnato, secondo l’ottica del raggiungimento dello scopo (come accade, ad es., nei casi in cui venga invocata la violazione degli art. 7 ss. della legge n. 241/90, allorquando il giudice, pur accertando l’esistenza di detta violazione, riscontri che, aliunde, il ricorrente era venuto a conoscenza dell’avvio del procedimento, ovvero vi aveva comunque partecipato, secondo un indirizzo giurisprudenziale alquanto consolidato o anche, in ipotesi di violazione dell’obbligo, sancito dall’art. 5 del D.L. n. 316/89 conv. in L. 28 febbraio 1990 n. 39 e, ora, dall’art. 2.5 della legge 6 marzo 1998 n. 40, di comunicare ai cittadini extracomunitari i provvedimenti di espulsione, e simili in una lingua conosciuta ovvero in lingua francese, inglese o spagnola, allorquando si accerti che l’interessato aveva compreso il contenuto del provvedimento). Altri, poi, osserva che "già esistono decisioni del giudice amministrativo, rese in giudizi di pubblico impiego e inerenti ad attività vincolate dell’amministrazione, secondo le quali il giudice non annulla l’atto impugnato qualora, pur riconoscendo fondato uno dei vizi denunciati, dal complessivo esame della vicenda controversa deduca che l’interesse sostanziale perseguito dal ricorrente non può essere soddisfatto in sede di rinnovazione dell’attività amministrativa"(29).

Fin qui si sono riportati esempi in relazione a casi di mancato annullamento dell’atto, riconosciuto legittimo dal giudice nonostante lo stesso fosse inficiato da quei vizi, sulla base del riconoscimento che, essendo stato raggiunto lo scopo (come si è detto), si tratta, in buona sostanza, di difetti i quali, si può dire, vitiantur sed non vitiant.

Per contro, il più delle volte accade che il giudice acceda alle tesi sostenute dal ricorrente e che annulli il provvedimento inficiato da vizi di sola forma, data la loro rilevanza. Basterà questo, nel contesto della giurisdizione piena –ci si chiede- a giustificare anche, in ogni caso, la condanna al risarcimento? A nostro avviso, non ogni pronuncia di annullamento comporterà anche la condanna alla reintegrazione patrimoniale (ciò si può tradurre in altre parole, dicendo che non ogni motivo di illegittimità dà senz’altro luogo al verificarsi di un danno ingiusto).

Deve ritenersi, in conclusione, che il riconoscimento dell’esistenza di un danno risarcibile o di una situazione da ripristinare non sia, sempre e comunque, un’automatica conseguenza dell’accertamento di illegittimità di un atto amministrativo. In altri termini, l’annullamento dell’atto è condizione necessaria ma non sufficiente per il riconoscimento del diritto al risarcimento. Ed invero, anche ammettendo che il giudice, in fattispecie del tipo di quelle appena riportate, emetta sentenza di annullamento del provvedimento conclusivo, ad es., per l’esistenza, riscontrata, della violazione dell’art. 7 o 8 della legge n. 241/90, non per questo ciò comporterà di per sè solo l’esistenza di un danno risarcibile.

A meno che non si invochino danni inerenti al ritardo, ovvero al fatto stesso che il procedimento dovrà essere reiterato (ad es., per il ritardo con cui verrà definito l’assetto di rapporti con la p.a.), sembra che non ci sia spazio, in casistiche del genere, per una condanna al risarcimento. Infatti, ordinariamente la p.a. sarà tenuta (soltanto) a rinnovare il procedimento, partendo dal primo atto della sequenza riconosciuto illegittimo.

In simile ipotesi, accadrà che la sentenza sarà di accoglimento per quanto concerne la prima domanda, e di rigetto per la seconda.

Sarebbe, poi, molto interessante svolgere un’analisi dei rapporti fra il tipo di vizio o di illegittimità riscontrato da un lato, e il diritto al risarcimento, non solo quanto all’an (del che si è detto, per quanto sommariamente), ma specialmente in ordine al quantum. Infatti, nemmeno deve ritenersi certo che la violazione di una norma inerente alla disciplina sostanziale del rapporto ingeneri senz’altro un diritto al risarcimento: tutto dipende dalla fattispecie concreta, dall’andamento della vicenda e più ancora dal contenuto del provvedimento e del ricorso: tanto per abbozzare un esempio, il provvedimento impugnato può contenere misure sfavorevoli al destinatario, adducendo l’assenza di requisiti o condizioni per così dire, di carattere preliminare, senza addentrarsi oltre nell’esame della fattispecie concreta. Orbene, nell’ipotesi che un simile provvedimento venga impugnato unicamente con l’invocazione del vizio di violazione di legge per erronea interpretazione o mancata applicazione di specifiche norme (senza apportare elementi anche ulteriori rispetto a quelli preliminari), il giudice che riconosca fondato il ricorso ed accerti, pertanto, l’illegittimità dell’atto, non potrà, verosimilmente, disporre una reintegrazione in forma specifica o una misura risarcitoria (a parte l’ipotesi del ritardo, cfr. retro), dovendo ancora l’amministrazione apprezzare nel merito l’istanza, alla luce della sentenza.

Peraltro, un discorso che si avventurasse in analisi certamente ricche e articolate, non potrebbe, per ora, che essere di tipo congetturale. E’ preferibile, di conseguenza, attendere che sia stato elaborato un minimum di giurisprudenza prima di affrontare un discorso del genere.

7- Domanda di risarcimento disgiunta dall’azione impugnatoria.

Occorre, a questo punto, esaminare l’ipotesi insita nel secondo interrogativo che ci siamo posti, vale a dire cosa accade allorquando l’interessato trascuri di impugnare il provvedimento lesivo nei termini di legge, e, in un secondo tempo, proponga la domanda di reintegrazione patrimoniale sulla base di quel provvedimento. Ci si chiede, in altri termini, se si debba ritenere imprescindibile l’azione di annullamento, e si debba –conseguenzialmente- ritenere vincolata al rispetto dei termini di decadenza non solo quest’ultima, ma anche l’azione di risarcimento o reintegrazione in forma specifica.

A tale proposito si è sostenuto "che la tempestiva impugnazione dell’atto autoritativo che determina la situazione risarcibile costituisca presupposto indispensabile se si vuole evitare che la fattispecie rimanga disciplinata da un provvedimento che l’interessato aveva l’onere di impugnare e che non ha impugnato", e che l’azione di condanna non congiunta a quella di annullamento si possa ammettere solo allorquando ci si trovi al cospetto di "illegittima omissione di provvedimenti dovuti"(30).

L’assunto non ci trova del tutto concordi, pur inserendosi in un’ottica, per così dire, ortodossa, per due ordini di ragioni: in primo luogo, sarebbe pur sempre necessaria –secondo quanto si desume, implicitamente, dallo stesse espressioni usate- una fase del giudizio "prodromica" diretta ad accertare se l’omissione del provvedimento fosse illegittima o meno (ovvero, al contrario, se il provvedimento fosse dovuto o meno), a somiglianza di quanto avviene nel caso di impugnazione dell’atto; in secondo luogo, così ragionando, innegabilmente si porrebbero limiti all’esercizio di un’azione concernente diritti, costringendola nei limiti del termine di decadenza, laddove andrebbe applicati quello di prescrizione (come chiarito, del resto, dalla stessa giurisprudenza resa su materie già in passato sottoposte alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo).

Si tenga presente che le conseguenze di un simile argomentare troncherebbero drasticamente il diritto alla reintegrazione patrimoniale, frustrando le relative aspettative, anche in ipotesi di notevole gravità del danno ingiusto, ed anche quando i termini per l’impugnazione (in verità troppo brevi se rapportati all’esercizio di un diritto) potrebbero essere trascorsi per un comportamento non del tutto colpevole dell'interessato (il quale potrebbe, ad es., avere confidato in promesse o aperture dell’amministrazione, poi disattese).

Per queste ed altre ragioni propenderemmo, piuttosto, a ragionare in termini di disapplicazione, in maniera analoga a quanto accade, nell’impostazione teorica classica, nell’ipotesi in cui venga adito il giudice ordinario con l’instaurazione di una vertenza incentrata su una pretesa relativa a diritti soggettivi. In simile situazione, come è noto, il g.o., ove debba –al fine di decidere la vertenza con la p.a.- conoscere di un provvedimento amministrativo inerente alla fattispecie sottoposta al suo esame, lo può fare in via incidentale, con la conseguenza che, ove lo riconosca illegittimo, lo disapplica e risolve la contesa prescindendone del tutto, considerandolo tamquam non esset.

In una simile prospettazione – premesso che, in linea di principio, sarebbe doverosa l’impugnazione del provvedimento dalla cui assunta illegittimità si deduce il diritto al risarcimento- l’omessa impugnazione nei termini, a maggior ragione in caso di errore (di diritto) scusabile o di altra causa di giustificazione, non dovrebbe condurre ad una sentenza di inammissibilità. Invece, il giudice dovrebbe ugualmente addentrarsi nell’esame del merito della controversia, previo giudizio in via incidentale sulla legittimità del provvedimento ovvero del comportamento omissivo "a monte" dell’azione risarcitoria, e decidere per la disapplicazione del provvedimento ove questo risultasse, da questo giudizio incidentale, illegittimo, con effetti limitati inter partes (31). Il giudice amministrativo dovrebbe porsi, cioè, in posizione in tutto analoga al giudice ordinario, in passato detentore di questa giurisdizione, anche al fine di evitare difformità fra l’operato dei due ordini giurisdizionali. D’altronde, si ricorda che, ancora oggi, appartiene al giudice ordinario la giurisdizione sulle controversie inerenti ai diritti patrimoniali conseguenziali nelle materie non incluse nella giurisdizione piena (ex art. 33-35 del D. Lgs. n. 80/98) che stiamo esaminando.

Non si giustificherebbe, pertanto, un diverso modus operandi. (Questa osservazione ci induce a ritenere che le modifiche all’ordinamento che stiamo illustrando, nei tempi medio-lunghi, prefigurano qualcosa in più di una tendenza all’unificazione della giurisdizione, con specifico riferimento ai modi di amministrare giustizia).

Bisogna, ora, accennare al quesito se l’azione diretta al risarcimento o alla reitegrazione in forma specifica si possa instaurare anche con riguardo a provvedimenti o comportamenti della p.a. già giudicati illegittimi con sentenza resa anteriormente alla data di entrata in vigore della nuova disciplina (1 luglio1998). Preliminarmente ricordiamo che la legge (art. 45.18) dispone, in ordine alle controversie a quella data pendenti, che le stesse proseguono davanti al giudice competente. Dunque, non si verificano passaggi di giurisdizione per le cause in itinere.

Quanto al quesito posto, riteniamo che non possa escludersi l’ammissibilità di una domanda di reintegrazine patrimoniale avanzata (all’evidenza, disgiuntamente dalla domanda di annullamento) in relazione a pregresse sentenze di annullamento del g.a., davanti al medesimo giudice. Di regola l’instaurazione di una simile azione dovrebbe ammettersi entro il termine di prescrizione; tuttavia, nell’ipotesi che si propenda per la soluzione della proposizione delle domande congiuntamente, e con le regole delle domande impugnatorie (su cui retro), quanto meno una simile possibilità andrebbe consentita entro il termine di decadenza dalla data di entrata in vigore delle nuove norme.

Italo Franco

(Consigliere nel TAR Veneto)

NOTE:

1)  Invece va rilevato che la giurisprudenza del g.o. tende a qualificare come diritti soggettivi le posizioni individuali incise dai provvedimenti c.d. di secondo grado con i quali vengono rimossi vantaggi attribuiti al medesimo soggetto con precedenti atti della p.a. accrescitivi della sfera giuridica del destinatario (a fini di ammissione alla tutela risarcitoria).
2)  La preoccupazione di affidare le controversie sul risarcimento a carico della p.a. ad un giudice che possieda i “ferri del mestiere”, aduso, cioè, a verificare l’operato della p.a. e l’esercizio del potere con strumenti idonei (e dunque la netta preferenza, in un’ottica di riunificazione della giurisdizione, per il giudice amministrativo) è anche di Follieri, Lo stato dell’arte della tutela risarcitoria degli interessi legittimi. Possibili profili ricostuttivi, in Dir. Proc. Amm., 2/98, pag. 253, e degli A. ivi richiamati.
3)  Sull’argomento si tornerà discorrendo della nuova teoria della responsabilità della p.a.
4)  Ad esempio quello britannico, che non conosce un principio generale di illecito extracontrattuale, basato come è su una serie o sistema di torts tipici, ognuno caratterizzato in modo peculiare. Per considerazioni riguardanti, in particolare, simili  forme di responsabilità gravanti su organi pubblici, si rinvia a Caranta, La responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione, Milano 1993, pag. 229 ss. Sul sitema di giustizia amministrativa in Inghilterra, cfr. anche E. Marotta, La giustizia amministrativa in Inghilterra, in Trattato di diritto amministrativo diretto da Santaniello, XXV, cit., Ordinamenti europei di giustizia amministrativa, pag. 657 ss.
5)  C. Maglione, in A.V., Codice civile annotato.., diretto da Perlingieri, Napoli – BO, 1991 (sub commento all’art. 2043), vol. 4.2 pag. 1741, cui si rimanda per l’individuazione dei vari autori, e della giurisprudenza.
6)  C. Maglione, op. cit., pag. 1742.
7)  C. Maglione, op. cit., pag. 1742-43. Le espressioni evidenziate (il corsivo è nostro) mostrano come la definizione di ingiustizia fatta propria dalla teorica in questione fosse affatto aperta all’inclusione nell’ambito della nozione di danno ingiusto delle lesioni degli interessi legittimi , indubbiamente situazioni protette dall’ordinamento (cosa che, poi, è avvenuta, sostanzialmente, con le modifiche normative in discorso). 
8)  Maglione. Op. loc. cit.; cfr. Cass. 24 giugno 1972, n. 2135, in RFI, 1972, voce Responsabilità civile, c. 2419, n. 40; Cass., 26 gennaio 1971, n. 174, ivi, voce cit., c. 2531, n.40; Cass., 1 aprile 1980 n. 2105, ivi, 1980, voce cit., c. 2336, n. 27). 
9)  Celebre è la sentenza sul “caso Meroni” (originata dall’azione instaurata da una società di calcio, privata dalle prestazioni future, ritenute insostituibili, di un bravo calciatore, contro l’investitore del calciatore Meroni, rimasto ucciso nel sinistro) Cass. S.U., 26 gennaio 1971 n. 174, RFI, 1971, voce Responsabilità civile, c. 2531, n. 40-41, e in FI, 1971I, c. 1285 ss. ,con nota di F.D. Busnelli, Un clamoroso “révirement” della Cassazione: dalla “questione di Superga” al “caso Meroni”, e di A.C. Jemolo, Allargamnto di responsabilità per colpa aquiliana.
10)  Cons. Stato, Ad. Gen. Del 12 marzo 1998, cit. pag. 12.
11)  Esprime l’avviso che in ogni caso debba accertarsi se sia possibile la reintegrazione in forma specifica prima di disporre il risarcimento, a sua volta. M. Buricelli, Decreto legislativo n,. 80 del 1998 e giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: risarcimento del danno e norme processuali (art. 35), intervento al convegno del 5 giugno 1998, cit., pag. 7 del dattiloscritto.
12)  In relazione ad ipotesi similari prospetta la possibilità di condanna alla ricostruzione dell’immobile demolito anche Buricelli, op. loc. cit.
13)  Il tema delle conseguenze implicite nella nuova giurisdizione esclusiva e risarcitoria in relazione ad i.l. pretensivi è toccato anche da F. Satta, intervento al Convegno presso il Consiglio di Stato del 5 giugno 1998, cit., pag. 3-4 del dattiloscritto. L’A. si prospetta una varietà di soluzioni, fra cui anche l’adozione di un provvedimento ad opera del giudice, o che la sentenza favorevole possa equivalere alla concessione denegata, ecc.
14)  L’osservazione è presente anche in F. Satta, intervento cit.
15)  F. Satta, intervento, cit., pag. 3.
16)  Circa la necessità di prova del danno, secondo una regola conforme al principio secondo cui l’oonere della prova incumbit ei qui dicit, cfr. C. Maglione, in Codice civile annotato..., cit., vol. 4.2, pag. 1754-55.
17)  Quanto al risarcimento del danno nella responsabilità da inadempimento (contrattuale), si rinvia a B. Grasso, Codice civile annotato..., cit., vol. 4.,1 pag. 49 ss.
18)  L’ammissione della separazione del giudizio sull’an debeatur da quello sul quantum è ammesso, fra le altre pronunce, da Cass. Civ., 11 aprile 1987 n. 3603, in RFI 1987, voce sentenza civile, c. 3113, n. 56
19)  Cass. Civ. 20 marzo 1983, n. 2059, in RFI, 1983, voce sentenza civile, c. 2931, n. 74.
20)  Per taluni autori la presenza del dolo può talora dare luogo ad oneri risarcitori più gravosi rispetto alle ipotesi colpose: cfr. P. Cendon e L. Gaudino, Gli illeciti di dolo, in La responsabilità civile. Saggi critici e rassegne di girisprudenza, a cura di P. Ccendon, Milano 1988, pag. 389 ss.
21)  C. Maglione, Codice civile annotato.., cit., pag. 1756.
22)  Sulla rilevanza dell’elemento psicologico dell’agente in materia di atti amministrativi, e di vizio della funzione, si veda Sandulli, Manuale di dir. amm., XIV ed. cit., pag. 679 e passim. Per la giurisprudenza, cfr. Cass. S.U. 22 ottobre 1984 n. 5361, in Giust. Civ., 1985, pag. 1419. Per altri accenni sull’argomento si rinvia al capitolo sulla responsabilità aquiliana della p.a. nella giurisprudenza comunitaria.
23)  C. Maglione, op. cit. , pag. 1765.
24)  In relazione ad un caso in qualche misura affine, cfr. Cass. 27 giugno 1986 n. 4267, in RFI, 1986, voce Danni in materia civile, c. 695, n. 130.
25)  Alla sentenza richiamata nella nota precedente, adde Cass., 16 giugno 1987 n. 5287, in RFI, 1987, voce Danni in materia civile, c. 734, n. 151.
26)  D’altra parte può accadere, in non poche fattispecie, che non esista un provvedimento, quanto meno in senso proprio, specialmente nella materia dei servizi pubblici, allorquando si controverta su una prestazione resa (o da rendere) dal soggetto gestore nell’ambito, appunto, di un pubblico servizio. Nondimeno, anche in simile ipotesi, conformemente a quanto accadeva in passato nei casi di ricorso contro l’inerzia della p.a., e negli altri casi di giudizio su rapporto, preliminare ad ogni questione circa la rentegrazione patrimoniale è il giudizio diretto a far constare l’illegittimità (non dell’atto, bensì) del comportamento. La diffferenza sta nel constatare che, oggi, è consentito instaurare un unico processo, tanto per l’accertamento dell’illegittimità, quanto per la pretesa risarcitoria.
27)  Infatti, deve ritenersi che non ad ogni tipo di illegittimità possa collegarsi un obbligo di reintegrazione patrimoniale. Su ciò infra, nel testo.
28)  Del tutto pacifica la giurisprudenza della Cassazione, e anche del giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva.
29)  M. Buricelli, Decreto legislativo n. 80 del 1998 e giurisdizione esclusiva..., cit. pag. 6 del dattiloscritto. Dal canto suo, il Caianiello, nell’ambito della prospettazione di un giudizio “di tipo sostanziale”, osservava che l’annullamento del diniego di concessione edilizia, pur viziato nella motivazione, non può indurre la p.a. a rilasciare la concessione dopo la sentenza, qualora nella zona vi siano vincoli di inedificabilità assoluta (Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino 1988, pag. 411).  
30)  M. Buricelli, Decreto legislativo n. 80 del 1998 e giurisdizione esclusiva..., cit., pag. 5 del dattiloscritto.
31)  Così come avviene in tutti i casi di giudizio in via incidentale su materie normalmente non rientranti nella cognizione del giudice adito, al solo fine di decidere la controversia rientrante nella sua giurisdizione.