inserito in Diritto&Diritti nel aprile 2002

La vicenda dei prodotti agroalimentari tradizionali nel diritto comunitario e nazionale

di Vito Rubino

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Sommario: par. I : il quadro comunitario sui prodotti agroalimentari tradizoonali nelle proposte di riforma , par. II le disposizioni comunitarie sull’igiene degli alimenti, par. III la normativa italiana, par. IV rapporto fra i prodotti agroalimentari tradizionali e le produzioni DOP – IGP, par. V conclusioni

 

Il quadro comunitario sui prodotti agroalimentari tradizionali nelle proposte di riforma presentate dalla Commissione europea a seguito del Libro bianco del 2000.

 

In questi giorni il Parlamento europeo sta discutendo una proposta di regolamento[1] presentata dalla Commissione europea sull’igiene dei prodotti alimentari con l’ambizioso programma di conferire un nuovo assetto organico ad una materia che a partire dai primi anni ’90 ha visto diversi interventi orizzontali e verticali del Legislatore comunitario e dei suoi corrispettivi nazionali. Fra le innovative proposte contenute nel testo oggetto di discussione assume particolare importanza per l’economia agroalimentare nazionale il co. 4 del paragrafo 4 dedicato ai prodotti “tradizionali”, ossia quei prodotti cui il legame con la tradizione produttiva locale ed il talento dell’uomo chiamato ad intervenire direttamente nel processo produttivo conferiscono condizioni e qualità del tutto peculiari.

Tale paragrafo, intervenendo sulla disciplina comunitaria dell’igiene delle produzioni alimentari che ha nella direttiva 93/43[2] il suo punto attuale di riferimento, se dovesse essere approvato nella sua versione attuale, porrebbe fine ad una serie di anomalie che si sono prodotte in particolare nella legislazione italiana negli ultimi anni in materia di produzioni agroalimentari tradizionali, stabilendo che:

 

“Gli Stati membri possono adeguare i requisiti di cui all’allegato II (req. igienici delle produzioni secondarie) per rispondere alle esigenze delle aziende del settore alimentare situate in regioni soggette a particolari vincoli geografici o a difficoltà di approvvigionamento che provvedano alla distribuzione sul mercato locale o per tener conto di metodi tradizionali di produzione, purchè gli obiettivi in materia di igiene dei prodotti alimentari non vengano compromessi”

 

02. Le disposizioni comunitarie sull’igiene degli alimenti

Per comprendere appieno la portata di questa innovazione è necessario ripercorrere le tappe essenziali della normativa nazionale e comunitaria sui prodotti tradizionali e l’igiene alimentare.

La direttiva 93/43 è a tutt’oggi il punto di riferimento comunitario in materia: essa è intervenuta nel 1993 in modo orizzontale a disciplinare un settore in precedenza lasciato all’attività normativa nazionale o solo parzialmente toccato da alcuni interventi del Legislatore europeo, per lo più di carattere verticale[3], introducendo il principio dell’autocontrollo aziendale per le produzioni secondarie basato sul metodo haccp[4]. Con tale disposizione il Legislatore comunitario ha inteso anticipare alla fase della produzione la verifica della salubrità delle derrate alimentari in precedenza effettuato “a campione” sul prodotto finito già in distribuzione, al fine di aumentare la sicurezza degli alimenti e prevenire possibili casi di tossinfezioni alimentari da contaminazione microbiologica, chimica o fisica.

L’autocontrollo aziendale imposto dalla direttiva 93/43 si basa essenzialmente su due azioni di carattere preventivo: all’imprenditore alimentare viene richiesto infatti di mettere in “atto” una strategia di “prevenzione dei pericoli” basata sull’impiego obbligatorio di 5 dei 7 principi del metodo haccp raccomandato dal “Codex Alimentarius”[5] e di osservare comunque una serie di regole di “buona prassi igienica” contenute nell’allegato I alla direttiva che riguardano essenzialmente la salubrità degli ambienti di lavorazione degli alimenti, la igienicità dei materiali destinati a venire a contatto con gli alimenti durante la fase della lavorazione, la corretta prassi igienica del personale addetto nonchè delle operazioni relative al trasporto e alla distribuzione dei prodotti.

A causa delle analitiche prescrizioni contenute in questo allegato sono sorte notevoli difficoltà per i Paesi come l’Italia o la Francia che basando la gran parte delle proprie strutture produttive su aziende di piccola dimensione e a carattere artigianale e fondando la propria tradizione industriale agroalimentare su metodiche di lavorazione più attente ad aspetti quali le qualità organolettiche ed il talento dell’uomo piuttosto che l’igienicità esasperata del processo si sono trovati a doversi adeguare ad una serie di prescrizioni che minacciavano la stessa sopravvivenza di tali realtà produttive.

I problemi in materia erano i più diversi ed andavano dall’utilizzo di strumentazioni in legno quali paioli, mestoli etc..., ritenute non idonee perchè costituite da materiale non totalmente sanificabile alla inidoneità di certi locali di produzione, colpiti dalle rigide prescrizioni comunitarie in materia di pareti, pavimenti, soffitti etc... Intere categorie di prodotti quali i formaggi di fossa o certi a pasta filata, salumi d’alta montagna etc... rischiavano di scomparire.

A soffrirne maggiormente erano senza dubbio le unità produttive con le minori dimensioni per le quali gli adeguamenti alla disciplina comunitaria erano preclusi dalla natura del prodotto trattato o del sistema di produzione utilizzato.

Per salvaguardare questo patrimonio unico gli strumenti a disposizione dei Legislatori nazionali erano pochi: l’art. 7 della direttiva 93/43 infatti stabilisce unicamente una “facoltà” di specificazione delle regole contenute nell’allegato per gli Stati membri vincolando comunque gli interventi al mantenimento del medesimo “rigore” igienico e sottoponendo comunque tali provvedimenti ai sensi della disciplina generale delle disposizioni tecniche a comunicazione preventiva alla Commissione.

In questo quadro l’attività immediata dei Legislatori nazionali (in particolare dei Paesi mediterranei) si è rivolta all’ottenimento di provvedimenti di “deroga” da parte della Commissione europea. Tali provvedimenti sono stati adottati unicamente per il settore dei formaggi, per il quale con due decisioni successive, la 96/536/CE[6] e la 97/284/CE[7] la Commissione ha ammesso disposizioni nazionali divergenti dalle prescrizioni comunitarie per quanto concerne:

la natura dei materiali che compongono le attrezzature specifiche per la preparazione o il condizionamento o l’imballaggio dei prodotti (per le quali è comunque previsto l’obbligo di mantenimento in soddisfacente stato di pulizia)

i requisiti di cui all’allegato B cap. I lettere a) b) c) e d) della direttiva 92/46/CEE[8] sul latte e derivati per quanto concerne i magazzini di stagionatura o i locali di maturazione dei prodotti che possono comprendere anche pareti geologicamente naturali (formaggi di fossa), muri, pavimenti e soffitti e/o porte non lisci, non impermeabili, non resistenti, senza rivestimento chiaro o non composti da materiali inalterabili.

Inoltre a salvaguardia della specifica flora batterica la Commissione ha ammesso che le operazioni di pulizia venissero scadenzate secondo programmi adattati al tipo di attività.

Sulla base di tali decisioni le Regioni italiane hanno adottato nell’ambito della propria potestà normativa disposizioni di deroga alla disciplina comunitaria e nazionale sull’igiene delle produzioni lattiero-casearie. A titolo esemplificativo possiamo citare la legge regionale della Basilicata nr. 1 del 4 Gennaio 1999[9] relativa ai formaggi lucani tradizionali le cui modalità produttive siano incompatibili con la dir. 93/43 e il d. lgs 155/97 ma che rientrino nelle previsioni delle menzionate decisioni della Commissione. Provvedimenti simili sono stati adottati anche per gli stabilimenti produttivi di alta montagna (Lombardia – Val D’Aosta –Veneto etc...) con difficoltà di approvvigionamento di acqua potabile ed altri aspetti di incompatibilità con la disciplina generale. Ai provvedimenti regionali in materia va aggiunto poi il d.p.r. 54 del 14 Gennaio 1997 che riproduce in parte aspetti già analizzati per le normative regionali.

 

Il quadro normativo italiano sui prodotti agroalimentari tradizionali

 

Allo stato attuale le decisioni comunitarie indicate sono le uniche adottate dalla Commissione per concedere deroghe alle rigide prescrizioni dettate dalla dir. 93/43 il che significa che per tutti gli altri prodotti cui si applica la normativa sull’igiene le prescrizioni in essa previste devono essere rispettate.

Il Legislatore italiano tuttavia spinto dalle richieste provenienti dai diversi comparti dell’industria agroalimentare nostrana è andato oltre con alcune disposizioni di carattere orizzontale la cui rispettosità dei precetti comunitari è quantomeno discutibile.

Il primo provvedimento in materia è il decreto legislativo 173 del 30 Aprile 1998[10] denominato “disposizioni in materia di contenimento dei costi di produzione e per il rafforzamento strutturale delle imprese agricole a norma dell’art. 55, co 14 e 15, legge 27 Dicembre 1997 nr. 449”, il cui art. 8 stabilisce che:

 

per l’individuazione dei prodotti tradizionali, le procedure delle metodiche di lavorazione conservazione e stagionatura il cui uso risulta consolidato dal tempo, sono pubblicate con decreto del Ministro per le Politiche Agricole, d’intesa con il Ministro per l’Industria il commercio e l’artigianato, e con la Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato e le Regioni e le Provincie autonome di Trento e Bolzano. Le Regioni e le Provincie autonome di Trento e Bolzano entro 6 mesi dalla suddetta pubblicazione dispongono con propri atti l’elenco dei ‘prodotti tradizionali’

2. Con decreto del Ministro della Sanità di concerto con il Ministro per le Politiche Agricole e con il Ministro dell’Industria , Commercio e Artigianato sono definite deroghe relative ai prodotti tradizionali di cui al co.1 riguardanti l’igiene degli alimenti consentite dalla regolamentazione comunitaria”.

 

L’accenno a possibili deroghe per i prodotti tradizionali è piuttosto ambiguo e di difficile interpretazione: se infatti il Legislatore nazionale ha inteso riferirsi alla disciplina del latte e dei prodotti lattiero caseari non si comprenderebbe la sostanziale duplicazione degli interventi normativi in materia dal momento che le Regioni godono di una postestà normativa autonoma che, come in precedenza dimostrato, è stata per lo più direttamente utilizzata sulla base delle indicazioni comunitarie. Se invece si riferisce a settori differenti non si comprende sulla base di quali decisioni comunitarie si renda possibile l’adozione di provvedimenti di deroga stante l’attuale quadro normativo.

Nè per altro si potrebbe ipotizzare che si tratti di un riferimento al già menzionato art. 7 della direttiva 93/43 dal momento che trattandosi di deroghe e non di specificazioni il d.p.r. 173 si riferisce sicuramente a condizioni meno rigorose di quelle previste nell’allegato I alla direttiva con una chiara violazione delle disposizioni dell’art. 7 stesso.

Sulla base di tale decreto legislativo il Ministero delle Politiche Agricole con decreto 8 Settembre 1999 nr. 350 ha disposto che le Regioni effettuassero un “censimento” delle produzioni agroalimentari tradizionali[11] istruendo ove il caso una apposita pratica per la richiesta di concessione delle menzionate deroghe da parte del Ministero della Sanità. Tale è infatti il significato dell’art. 4 ove si stabilisce che:

 

Per i prodotti tradizionali iscritti negli elenchi regionali o provinciali per i quali risulti necessario accedere alle deroghe previste nell’art.8 co. 2 del decreto legislativo 173 del 1998 le Regioni e le Provincie Autonome inviano al Ministro per le Politiche Agricole, per ciascun prodotto interessato, gli elementi relativi alle procedure operative in grado di assicurare uno stato soddisfacente di igiene e disinfezione dei materiali di contatto e dei locali nei quali si svolgono le attività produttive, salvaguardando le caratteristiche di tipicità, salubrità e sicurezza del prodotto, in particolare per quanto attiene la necessità di preservare la flora specifica. Il Ministro per le Politiche Agricole trasmette al Ministero della Sanità ed al Ministero per l’Industria , il Commercio e l’Artigianato la documentazione regionale di cui al co. 1 per l’emissione del provvedimento di deroga in conformità con le disposizioni comunitarie concernenti l’igiene degli alimenti, ai sensi dell’art. 8 co. 2 del decreto legislativo nr. 173 del 1998. Copia del provvedimento di deroga è trasmesso dal Ministero della Sanità al Ministero per le Politiche Agricole, per la comunicazione alla Regione o Provincia Autonoma competente nonchè per l’annotazione nell’elenco nazionale a margine del prodotto interessato”.

 

Va innanzi tutto specificato che allo stato attuale nonostante la pubblicazione dell’elenco dei prodotti tradizionali sia stata effettuata con il supplemento nr. 147 della Gazzetta Ufficiale 14 Giugno 2001 non sono ancora stati emessi dal Ministero della Salute singoli decreti di concessione delle deroghe alla disciplina sull’igiene alimentare dal momento che il Ministero della Politiche Agricole non ha ancora provveduto alla trasmissione delle relative richieste.

In data 25 Luglio 2000 Il Ministero della Sanità ha emanato un decreto denominato “definizioni delle deroghe relative ai prodotti tradizionali in attuazione del co. 2 dell’art. 8 d.lgs. 30 Aprile 1998 nr. 173[12] in cui sulla base della decisione della Commissione europea 284/97 (relativa ai prodotti lattiero-caseari), visti l’art. 8 del d.lgs 173/98 e i decreto del Ministero delle Politiche Agricole nr. 350/99 vengono stabilite alcune regole generali in materia. In particolare l’art. 1 stabilisce che:

 

per i prodotti tradizionali di origine animale, esclusi i prodotti dell’alveare, iscritti nell’elenco di cui al decreto 8 Settembre 1999 nr. 350 del Ministero delle Politiche Agricole sono consentite deroghe finalizzate alla conservazione del patrimonio gastronomico, tenendo conto degli ambiti previsti dall’art. 8 del decreto legislativo 30 Aprile ’98 nr. 173 e ferme restando le rispettive disposizioni sanitarie che ne disciplinano la produzione e la commercializzazione

 

Le deroghe previste in questo primo articolo sono definite singolarmente con decreto del Ministro della sanità di concerto con il Ministro delle Politiche Agricole e con il Ministro per l’Industria , il Commercio e l’Artigianato ai sensi di quanto disposto nell’ art. 3 del decreto stesso. Con tale disposizione viene risolta la questione del “metodo” oggetto di contrasto fra il Ministero della Sanità, propenso a concedere deroghe prodotto per prodotto, e il Ministero delle Politiche Agricole che al contrario riteneva necessario concedere le deroghe per “settore”. Tale decisione però rende potenzialmente “impraticabile” l’iter in questione stante la consistenza numerica delle deroghe richieste (su 3000 prodotti tradizionali censiti una considerevole parte è interessata al fenomeno).

Il Ministero dell’Industria per altro non ha ancora fatto pervenire alla Commissione alcuna comunicazione “tecnica” stanti i contrasti insorti e la mancanza di una chiara fisionomia della materia.

Che l’estensione delle disposizioni contenute nel d.lgs. 173 del 1998 vada ben al di là delle decisioni della Commissione europea risulta immediatamente evidente dalla lettura dell’elenco dei prodotti regionali e delle relative deroghe richieste. Si prenda a titolo esemplificativo l’elenco relativo alla Regione Umbria13: ad un attento osservatore non sfuggirà che l’Ente ha inoltrato richieste di deroghe oltre che per i formaggi e i prodotti lattiero-caseari anche per diverse tipologie di paste alimentari[13] tutte accomunate dall’utilizzo di strumenti in legno, le lavorazioni artigianali di tipo manuale, le modalità di cottura e conservazione spesso divergenti rispetto alle prescrizioni dell’allegato alla direttiva 93/43. Tali deroghe non trovano attualmente alcuna corrispondenza sul piano comunitario.

Il quadro fin qui descritto si va ancor più complicando se si analizza l’articolo 10 della legge 21 Dicembre 1999[14] recante modifiche al decreto legislativo 26 Maggio 1997 nr. 155 di attuazione delle direttive 93/43/CEE e 96/3/CE.

Il comma  5 di tale articolo stabilisce che:

 

Le Regioni, le Provincie Autonome di Trento e Bolzano, individuano entro 60 gg. dalla data di entrata in vigore della presente legge con proprio provvedimento le industrie alimentari nei confronti delle quali adottare in relazione alla tipologia di attività, alle dimensioni dell’impresa e al numero di addetti misure dirette a semplificare le procedure del sistema haccp. I provvedimenti sono inviati al Ministero della Sanità ai fini dell’emanazione degli opportuni regolamenti, ovvero, ove occorra, della proposizione di appropriate modifiche alla direttiva 93/43/CEE del Consiglio del 14 Giugno 1993

 

I prodotti interessati da tali provvedimenti sono evidentemente quelli esclusi dal novero dei prodotti tradizionali descritti nel decreto legislativo 173/98 per i quali come detto è prevista la deroga individuale secondo la procedura descritta. Anche in questo caso tuttavia la semplificazione delle procedure del sistema haccp laddove portasse ad una sostanziale diminuzione della sicurezza igienica disposta con la direttiva 93/43 costituirebbe una violazione dell’art. 7 di tale direttiva non autorizzata da alcuna decisione comunitaria in merito.

Sulla base di tale indicazione Regioni e Provincie Autonome hanno adottato disposizioni in materia: a titolo esemplificativo la Regione Toscana con delibera 1260 del 04.12.2000[15] ha adottato un regime di semplificazione per i settori vitivinicolo, oleicolo, ortofrutticolo, miele e cerealicolo.

Il co. 7 della medesima legge comunitaria è se possibile ancora più ambiguo nella sua formulazione, e prescrive:

 

“7. I prodotti alimentari che richiedono metodi di lavorazione e locali, particolari e tradizionali, nonché recipienti di lavorazione e tecniche di conservazione essenziali per le caratteristiche organolettiche del prodotto, non conformi alle prescrizioni di attuazione delle direttive 93/43/CEE del Consiglio, del 14 Giugno 1993 e 96/3/CE  della Commissione del 26 Gennaio 1996 non possono essere esportati, né essere oggetto di commercializzazione, fatta eccezione per i prodotti tradizionali individuati ai sensi e per gli effetti dell’art. 8 del decreto legislativo 30 Aprile 1998 nr. 173.

 

8. Non costituisce commercializzazione ai sensi del divieto di cui al co. 7 la vendita diretta dal produttore e da consorzio fra produttori ovvero da organismi e associazione di promozione degli alimenti tipici al consumatore finale nell’ambito della provincia della zona tipica di produzione

 

Il primo aspetto anomalo del Co. 7 è questa distinzione fra i prodotti tradizionali individuati ex d.lgs. 173/98 e gli altri prodotti alimentari che richiedano tecniche di lavorazione o ambienti di produzione non conformi alle disposizioni comunitarie. Questi ultimi non possono circolare nè essere commercializzati (ma la loro produzione non è vietata...), mentre i primi sono esenti da un simile divieto, venendosi così a creare una distinzione fra prodotti tradizionali “di serie A” e prodotti tradizionali “di serie B” di dubbia validità e non supportata da alcuna indicazione comunitaria in merito. Addirittura il co. 9 della legge statuisce che:

 

Gli alberghi, i pubblici esercizi le collettività, le mense devono conservare i prodotti alimentari di cui al co. 7 (quelli non “riconosciuti” dal d.lgs. 173/98) in modo idoneo a garantire la non contaminazione dei prodotti alimentari prodotti conformemente al decreto legislativo 26 Maggio 1997 nr. 155 e ss. modifiche”

 

con ciò delineandosi chiaramente che il Legislatore ritiene tali alimenti non riconosciuti “pericolosi per la salute” tanto da imporne una conservazione separata dal resto.

Ancor più strano è il co. 8 ove i prodotti tradizionali che a norma del co. 7 non potrebbero circolare ed essere commercializzati perché rischiosi sotto il profilo igienico e a norma del co. 9 devono addirittura essere tenuti separati dai normali alimenti, vengono comunque ammessi alla vendita in loco (forse la popolazione locale ci è abituata...!!!). Al di là delle evidenti contraddizioni che emergono dal testo della disposizione stessa resta il problema della compatibilità di tale norma con i principi del Trattato. Le osservazioni in merito sono diverse, ma si possono ricondurre sostanzialmente a due ordini di questioni: i problemi relativi al controllo su questi prodotti, che, stante l’eliminazione delle dogane intracomunitarie, potrebbero tranquillamente essere acquistati in loco e smerciati in un qualunque altro Paese comunitario, con grave danno per le aziende concorrenti che al contrario si siano adeguate ai principi di produzione igienica dettati dalla direttiva 93/43 investendo nelle proprie strutture (sono in gioco la lealtà dei negozi commerciali nonché la stessa concorrenzialità di prodotti simili ma “igienicamente adeguati”), e la questione relativa alla protezione della salute (nessuno può infatti garantire che un qualsiasi cittadino comunitario possa in loco acquistare e consumare uno dei suddetti prodotti considerati a “rischio"...).

Tali elementi delineano una legislazione dunque non solo incoerente, ma fortemente indiziata di contrarietà ai principi comunitari.

 

04. Il rapporto fra prodotti DOP – IGP e prodotti tradizionali.

 

La complessa legislazione descritta interessa i prodotti ottenuti con processi produttivi tradizionali, da non confondere con quella vasta area di specialità gastronomiche relative alle produzioni DOP e IGP la cui tutela è ben più ampia.

Il regolamento comunitario sulle denominazioni di origine[16] infatti, per il riconoscimento e la forte tutela comunitaria, rappresenta il quadro normativo di riferimento essenziale per la valorizzazione dei grandi prodotti tipici italiani e per supportare politiche di espansione delle produzioni agroalimentari mediterranee. Grazie a tale disposizione, adottata per effetto della sensibilizzazione del Legislatore comunitario al problema della “qualità” degli alimenti come reazione all’applicazione indiscriminata della formula “Cassis de Dijon” del mutuo riconoscimento, è stato possibile proteggere prodotti quali il Grana Padano, il Parmigiano Reggiano, il “Prosciutto di Parma” e il “San Daniele”, i cui disciplinari di produzione e le cui caratteristiche organolettiche e di lavorazione sono state depositate presso la Commissione europea che ha proceduto a iscrivere i prodotti nell’apposito “registro delle denominazioni d’origine protette e delle indicazione geografiche protette”.

La tutela offerta a questi prodotti dal regolamento in oggetto che attraverso i disciplinari di produzione si estende anche alle modalità di lavorazione, è sicuramente molto diversa da quella prevista in modo così confuso dal Legislatore italiano con le norme descritte. Esse infatti sembrano più indirizzate a coprire quella vasta area di opportunità, produzioni e nicchie che caratterizzano i nostri sistemi agricoli secondo un concetto di tipicità ben più esteso di quello previsto per i prodotti DOP e IGP. Le produzioni “tradizionali” sono in genere caratterizzate da elementi difficilmente assoggettabili agli schemi fin qui utilizzati in sede comunitaria essendo per lo più il frutto del lavoro di microfiliere di piccolissima dimensione, dell’attenzione per i dettagli e per la storicità del processo produttivo elementi che non consentono di riunire i produttori in veri e propri “consorzi” né di adottare politiche unitarie in materia. Questi aspetti, che nella maggior parte dei casi delineano comunque prodotti di vera e proprie eccellenza, non si adattano neanche a quanto previsto dal regolamento 2082/92[17] che ha assegnato alla Commissione il compito di istituire un albo delle attestazioni di specificità intendendosi con tale termine il riconoscimento di prodotti che si distinguono nettamente da alimenti analoghi appartenenti alla medesima categoria per la tradizionalità della propria composizione e lavorazione . Per quanto infatti tale disciplina risulti rivolta a quella fascia di prodotti non idonei ad entrare “nell’Olimpo” delle produzioni DOP e IGP essa contempla comunque l’esistenza di una organizzazione (art. 7 par. 1) sotto forma di associazione giuridica di produttori che ripercorra un iter assai simile a quello dei prodotti DOP e IGP per il riconoscimento, decisamente impraticabile per alimenti le cui dimensioni produttive non consentano neanche lontanamente simili “sforzi”.

 

 

Conclusioni.

 

Se la proposta di riforma della legislazione comunitaria sull’igiene delle produzioni alimentari avanzata dalla commissione venisse approvata nella sua versione attuale il Co. 4 del par. 4 porrebbe fine ai più evidenti contrasti fra la normativa italiana e le disposizioni europee in materia di prodotti agroalimentari tradizionali. I vantaggi di una simile modifica di atteggiamento del Legislatore comunitario non si esaurirebbero tuttavia nella sola “sanificazione” dei contrasti normativi esistenti. La decisione della Commissione europea di inserire la disposizione concernente le deroghe nazionali per i prodotti tradizionali segna un importante punto di vantaggio per i Paesi mediterranei impegnati da anni nella querelle sul contenuto del concetto di “igiene delle produzioni alimentari”. Tale battaglia come è noto ha viste contrapposte negli anni due concezioni opposte sul concetto di qualità: i Paesi nord-eurpei di tradizione anglosassone ritengono la qualità legata alla sicurezza del prodotto, alle caratteristiche nutrizionali ed alla conformità a determinati standard produttivi, mentre i Paesi mediterranei più legati alle tradizioni artigianali hanno da sempre privilegiato gli aspetti legati alla vocazionalità del territorio alla tradizionalità del processo produttivo e al talento dell’uomo. Il cammino del pensiero comunitario in materia è negli ultimi anni approdato ad una concezione più vicina alla nostra : dalle disposizioni esageratamente igienistiche dei primi anni ’90 che hanno portato alla adozione di una disciplina orizzontale sull’igiene delle produzioni alimentari piuttosto rigida e sicuramente assai analitica abbiamo assistito ad un lento mutamento di posizione sul concetot di qualità che ha in parte coinvolto l’aspetto igienico. I regolamenti sui prodotti DOP – IGP – STG rappresentano i primi passi in questo senso, se il regolamento di riforma della disciplina dell’igiene alimentare venisse approvato quale attualmente è esso sarebbe certamente il punto di arrivo di questo cammino: una soluzione equilibrata che garantisce il massimo rigore nelle produzioni alimentari industriali ed ha un occhio di riguardo per gli spetti della qualità delle produzioni agroalimentari regionali tradizionali: almeno questa battaglia sembrerebbe vinta!

 

 

Vito Rubino

 

 

 

 


* Il presente articolo è stato estratto ed adattato dal saggio “Evoluzione e riforma della normativa comunitaria sull’igiene delle produzioni alimentari: fra libera circolazione delle merci e tutela del consumatore”, di prossima pubblicazione, richiedibile via e.mail all’indirizzo vitorubino@katamail.com .

[1] 2000/178 (COD) contenuta in COM (2000) 438 def e pubblicata su internet all’indirizzo http://www.europa.eu.int .

[2] direttiva del Consiglio nr. 43 del 14 Giugno 1993 pubblicata su GUCE L 175 del 19.07.1993.

[3] Si vedano in proposito le diverse direttive relative al commercio di carni fresche e sui requisiti dei locali di macellazione adottate dalla Comunità durante il corso degli anni ’60 e ’70.

[4] Haccp= Hazard Analysis and Critical Control Point, sistema scientifico di analisi dei rischi connessi alla produzione e controllo dei punti critici di filiera ove tali rischi possono concretizzarsi. Inventato negli Stati Uniti negli anni ’60 su commissione della Nasa è stato poi adottato come standard per le produzioni alimentari dalla FDA (Food and Drug Administration) e dal Codex Alimentarius.

[5] Che mirano sostanzialmente alla individuazione “a priori” dei pericoli, il monitoraggio dei punti critici di filiera e l’adozione di idonee misure preventive.

[6] GUCE L 230 del 11.09.1996

[7] GUCE L 144 dell’1.05.1997

[8] GUCE L 268 del 14.09.1992

[9] pubblicata su BURB- Bollettino Regionale Regione Basilicata nr. 1 del 5.01.1999.

[10] Pubblicato su Gazzetta Ufficiale nr. 129 serie generale del 5 Giugno 1998.

11 La cui prima parziale pubblicazione è avvenuta con Gazzetta Ufficiale nr. 194 del 21.08.2000.

[12] pubblicato su Gazzetta Ufficiale nr. 184 – serie generale, del 08.08.2000.

13 L’elenco comprende i “brignoli”, i “pici” e gli “umbricelli”, ossia grossi spaghetti fatti a mano con farina e acqua, le “ciriole” e gli “strangozzi” pasta lunga a sezione quadrata o rettangolare, la “torta al testo” di grano tenero, acqua, sale e lievito, e svariati altri.

[14] Nota come “legge comunitaria del ‘99” recante “disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee”, pubblicata su Gazzetta Ufficiale nr. 13 supplemento ordinario nr. 15 del 18 Gennaio 2000.

[15] Disponibile su internet all’indirizzo http://www.regione.toscana.it

[16] Reg. CEE del Consiglio 2081/92 del 14 Luglio 1992, in GUCE L 208 del 24 Luglio 1992, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agricoli e alimentari (DOP – IGP).

[17] Regolamento del Consiglio nr. 2082/92 del 14 Luglio 1992 in GUCE L 208 del 24 Luglio 1992 relativo alle attestazioni di specificità.