24 febbraio: a due anni dal conflitto il diritto internazionale impone sostegno all’Ucraina

Nel terzo anno di guerra all’ Ucraina, Putin è sempre più determinato nella sua svolta autoritaria e bellicistica, come dimostrano la morte del perseguitato Alexey Navalny e la narrazione ossessiva sull’ «identità russa» degli ucraini. La distopica prospettiva di Putin va invece contrastata riaffermando l’identità storica dell’Ucraina e il suo percorso di libertà. Il sostegno ad  una  Nazione vittima di una ingiustificata “guerra di aggressione”  e di gravissimi crimini di guerra rimane perciò una priorità per l’Occidente delle democrazie, che dovranno puntare sugli strumenti del diritto internazionale e sulla deterrenza anche per negoziare una «pace giusta e duratura».  

Indice

1. 24 febbraio: inquietudini di due anni di guerra

A due anni da quel 24 febbraio 2022  in cui  Putin ha intrapreso l’ «operazione militare speciale» – in realtà una «guerra di aggressione»  – contro l’Ucraina si guarda con giustificata apprensione al futuro del conflitto. Il contesto globale peraltro vede l’escalation delle minacce in altre parti del mondo – in Medio Oriente, nel Sahel e nell’Indo-pacifico – mentre la disaffezione del c.d. Global South cresce contro  l’Occidente delle democrazie. Inoltre, se mai ce ne fosse stato bisogno, la morte del dissidente russo Alexey Navalny  – avvenuta il 16 febbraio, dopo due avvelenamenti, in una colonia penale agli estremi del circolo polare Artico – dimostra la deriva estrema che ha assunto la Russia, ormai giunta ai metodi repressivi dell’impero sovietico. Questi profili della dimensione ideologica sempre più autoritaria che sta connotando il regime imposto da Putin purtroppo sono destinati  ad incidere ancora sui  fattori di rischio per l’evoluzione del conflitto in Ucraina. Ed è appunto da questa prospettiva che è necessario partire per un’analisi sui possibili scenari che potranno configurarsi in questo terzo anno di guerra.

2. La “minaccia ideologica” contro il diritto internazionale

A delineare il quadro più rappresentativo dello stato della «minaccia ideologica» è lo stesso sito ufficiale del Cremlino, ove compare il testo integrale della “intervista” – il termine non è proprio adatto al caso – concessa al discusso giornalista filo-trumpiano Tucker Carlson: il presidente russo si è dilungato di un discorso che ha trovato solo un interlocutore compiacente e senza che abbia osato porre qualche dubbio serio rispetto alle verità dell’intervistato. È stata l’occasione per Putin di richiamare la dottrina enunciata nel saggio Sull’unità storica di russi e ucraini pubblicato il 12 luglio 2021 e nel più noto discorso alla nazione  del  24 febbraio 2022 quando ha annunciato l’inizio dell’ «operazione militare speciale» per «smilitarizzare»  e «denazificare»  l’Ucraina. I primi venti minuti della prolusione di Putin sono tutti dedicati alle origini della grande Rus’  medievale, sorta su tre momenti storici: l’Anno 862, quando dalla Scandinavia il principe vichingo Rurik giunse a Novgorod; l’Anno 882 in cui il successore di Rurik, il principe Oleg, si insediò a Kiev; e  l’Anno 998, quando il principe Vladimir, pronipote di Rurik, celebrò il Battesimo della Rus’ adottando il Cristianesimo ortodosso orientale. Il passaggio è indicativo della visione di Putin: il presidente lo omette volutamente ma se si parla di Rus’ per gli storici si indica la Rus’ di Kiev, il principato che in età medievale aveva l’odierna capitale ucraina – prima di Mosca – e comprendeva le attuali Ucraina, Russia occidentale, Bielorussia, Moldavia, Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia orientali. A quei tempi dunque erano Kiev e quelle popolazioni non russe ad avere un primato, prima che da Mosca si consolidasse un vero e proprio “mondo russo”.  L’excursus storico attraversa l’ascesa del Granducato di Lituania e poi del Regno di Polonia, cui si deve – sostiene Putin – «la ‘polonizzazione’ di quelle parte della popolazione per decenni: i polacchi  hanno introdotto lì la loro lingua, hanno iniziato a inculcare l’idea che non sono veramente russi, e che dal momento che vivono “vicino” alla regione sono ucraini». Perché, chiosa ancora il presidente-storico, «originariamente la parola ucraino significava che una persona viveva alla periferia dello stato, vicino al confine, o era impegnata nel servizio di frontiera, appunto. Non si riferiva a nessun gruppo etnico in particolare». Una conferma dunque che Putin si contraddice ancora, perché quelle popolazioni non potevano considerarsi ‘russe’. 
Putin prosegue la sua narrazione e  giunge al primo richiamo suggestivo del ruolo salvifico della Madre Russia per i suoi popoli oppressi. Esibisce le lettere di Bohdan Khmelnytsky, detto  Bogdan il Nero, l’etmano dei cosacchi d’Ucraina, sterminatore di ebrei (particolare che l’intervistato non menziona),  che guidò il sollevamento  contro la nobiltà polacca nel 1648 e si mise sotto la protezione dello zar di zar Alessio I di Russia, che acquisì così la riva orientale del Dnepr. Di fatto anche quelle genti non erano del  “mondo russo”, tanto che a metà del XIX secolo le amministrazioni imperiali austriache poterono facilmente promuovere in Galizia l’identità ucraina in contrapposizione al movimento nazionale polacco e agli orientamenti filorussi che nella regione non furono mai prevalenti. Quel periodo peraltro segnò la concessione di importanti libertà costituzioni da parte dell’impero asburgico, che avevano portato alla formazione di organi elettivi di autogoverno nelle province, cui seguì il periodo del centralismo zarista. Il racconto di Putin continua così ossessivamente nel tentativo di dimostrare che l’identità nazionale dell’Ucraina non sarebbe che opera di falsificazioni degli Stati nemici della Russia, come alla vigilia dei nazionalismi della I guerra mondiale, e dell’errore di Lenin che assecondò  le istanze separatiste delle repubbliche sovietiche, fino ad arrivare alla «creazione artificiale»  voluta da Stalin: l’Ucraina nasce dall’accorpamento di  vari territori eterogenei, tra cui quelli appartenuti a Polonia, Ungheria e Romania. Da qui il suggerimento dell’intervistatore per far precisare a Putin che, pur non avendo affrontato l’argomento con Orban, «gli ungheresi che vivono lì, naturalmente, vogliono tornare nella loro patria storica». Putin omette anche di menzionare l’Holodomor (1932 – 1933) , lo sterminio per fame di circa 6 milioni di ucraini imposto dalle politiche staliniane, per il quale Krusciov – russo autentico, che da giovane era vissuto nel Donbass del confine russo-ucraino –  nel 1954 sentì il bisogno di ‘indennizzare’ Kiev con l’attribuzione della Crimea, regione dove l’elemento russo non era quello esclusivo o prevalente essendo presente storicamente la comunità dei tatari. Peraltro anche per il Donbass proprio la presenza di minoranze russe deve considerarsi frutto di una “artificiale” ‘russificazione’, in quanto una Mosca coloniale volle  trasferire popolazioni russe per alimentare la manodopera dell’industria mineraria della regione.
Quanto al momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica il discorso di Putin diventa cruciale, ovviamente con altre omissioni. Non c’è qui alcuna menzione dell’ Atto di dichiarazione d’indipendenza pronunciato dal Soviet della RSS Ucraina nel 1991  e del Memorandum di Budapest del 1994, in cui la Federazione Russia si impegnò a riconoscere e a rispettare la sovranità e l’indipendenza  dell’Ucraina in cambio dell’acquisizione dell’arsenale nucleare. Per Putin questa parte della Storia è presto liquidata: con il crollo dell’Unione Sovietica «tutto ciò che l’Ucraina aveva ricevuto in dono dalla Russia, “dalla spalla del Signore”, se l’è trascinato dietro». E giunge alla tesi centrale: «Dopo il 1991, quando la Russia si aspettava di essere accettata nella famiglia fraterna delle “nazioni civilizzate”, non è successo nulla del genere. Ci avete ingannato». Prosegue quindi l’ossessione putiniana: l’Ucraina è russa, l’Occidente ci ha tradito ripetutamente, laNATO  aveva promesso di non espandersi e invece l’ha fatto più volte, «ben cinque volte» precisa Putin. E ancora,  la Russia «non ha attaccato mai l’Ucraina», ma,come accaduto per la Crimea, ha «dovuto difendere con le armi» i cittadini russi da governi imposti da colpi di Stato voluti dalla CIA che ha alimentato la nascita di movimenti neonazisti e nazionalisti.  Insomma, negando l’autenticità delle c.d. rivoluzioni colorate e dell’ Euromaidan – la  rivolta europeista degli ucraini del 2013-14 – si torna al ribaltamento della Storia sofferta di popoli che invece hanno guardato all’Occidente perché volevano libertà e democrazia. Né si fa cenno a oltre un ventennio di “omini verdi” infiltrati e ingerenze armate della Russia che, con il pretesto di difendere incerte minoranze russe e in nome dell’identità del popolo russo, ha colpito la  Georgia, occupato la Crimea e il Donbass ucraini, sino ad arrivare alla Transnistria moldava, riducendo anche la Bielorussia ad un servente Stato-satellite.
D’altro canto la sfrontatezza di Putin non sorprende, come emerge dal  passaggio emblematico del discorso del 24 febbraio 2022: «Voglio ribadire che i nostri piani non includono l’occupazione dei territori ucraini. Non imporremo nulla a nessuno con la forza». È noto  purtroppo quanto i fatti abbiano dimostrato altro.
L’intervista prosegue sulle prospettive della guerra per le quali Putin mette ancora sull’avviso chi sostiene l’Ucraina, e dichiarando il proposito di accettare il negoziato che sarebbe però ostacolato dagli altri: la guerra finirebbe presto se gli USA e l’Europa smettessero di fornire fondi e armi all’Ucraina, a scapito dei loro contribuenti. Poco dovrebbe importare dunque all’Occidente se Putin non intende cedere i territori occupati e mira solo a una resa incondizionata dell’Ucraina, considerati anche gli altri rischi della prosecuzione del conflitto.

3. Deterrenza e diplomazia per il Rule of Law

Su questo sfondo, dunque, lo scenario di un’iniziativa diplomatica che possa avere tratti di legalità e concretezza deve partire necessariamente da un assunto: il 24 febbraio segna l’inizio del terzo anno di una “guerra di aggressione” contro un Paese libero. La Federazione Russa, membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con la pretesa infondata di un “diritto storico” alla riunificazione di popolazioni perdute ha rinnegato il diritto internazionale violando la sovranità dell’Ucraina e l’obbligo posto dalla Carta delle Nazioni Unite di risolvere le controversie internazionali con mezzi pacifici. La condanna per la guerra intrapresa da Mosca è stata ribadita da diverse Risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (a cominciare dalla Un A/ES-II/L.1 del 1° marzo 2022) e da una pronuncia della Corte internazionale di giustizia (Order Ukraine v. Russian Federation 182 Icj, 16.3.2022). Lo stesso Putin è colpito da un ordine di arresto per il trasferimento forzato di minori ucraini emesso dalla Corte penale internazionale, che sta indagando su altri crimini di guerra come i bombardamenti indiscriminati e il massacro di Buča.
Questo giustifica perché al momento Zelensky abbia ritenuto di non estendere alla Russia l’iniziativa avviata con altri 80 paesi per un’ ipotesi di negoziato basato sul “piano dei dieci punti” che dovrebbe essere presentato ad una Conferenza per la pace convocata dalla Svizzera, rimasta ufficialmente neutrale. In questa fase il percorso è molto arduo, anche perché rimangono problematici i punti 5. Carta delle Nazioni Unite e integrità territoriale dell’Ucraina, 6. Truppe russe e ostilità, e 7. Giustizia. Sono i profili che nella formulazione dell’Ucraina prevedono il completo ritiro di tutti i territori occupati dalla Russia (dove sembra volersi includere anche quelli occupati prima del 2022, in Donbass e  Crimea)  e la costituzione di un Tribunale speciale per perseguire il crimine di aggressione e assicurare una giustizia riparativa. In questi termini è difficile pensare di superare la riluttanza della Federazione Russa, e tuttavia la strada di un percorso diplomatico deve rimanere tra le priorità dell’Occidente. Nel maggio 2022 l’Italia si è fatta avanti con una proposta di pace presentata dal Ministero degli Affari Esteri – avallata dal Presidente del Consiglio dell’epoca, Mario Draghi – al Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. Tra i passaggi scanditi dal piano italiano c’era la previsione del cessate il fuoco – garantito da una forza di interposizione con Italia, Usa, Francia, Regno Unito, Canda, Polonia, Israele, Turchia e altri paesi disponibili – e della  “neutralità” dell’Ucraina con garanzie delle maggiori potenze e l’ ingresso nell’Unione Europea. Ad oggi sul piano italiano piuttosto discutibili rimangono perciò la mancata previsione dell’ingresso nella NATO, condizione  ritenuta oggi “esistenziale” per Kiev che l’ha inserita nella Costituzione, e le soluzioni all’epoca previste con la conferma dei confini definiti al momento dell’indipendenza, ma con  imprecisate forme di autonomia nelle aree contese e un non-detto sul destino di  Crimea e Sebastopoli. Tuttavia uno spazio negoziale sulla linea italiana potrebbe essere riaperto sull’ultimo punto che prevedeva l’avvio di negoziati per una “nuova Helsinki”. L’iniziativa potrebbe avere ancora un senso per l’intento di proporsi con una ragionevole mediazione rispetto alle aspettative più accettabili di una Federazione Russa che rivendica un ruolo non emarginato in una nuova architettura della sicurezza in Europa. Quanto meno l’Occidente può concretamente manifestare di non avere alcun interesse a volere un crollo della Russia, anche per il rischio di implosione di una potenza nucleare che ha ordigni tattici e strategici in varie regioni. Nella prospettiva di Putin  una svolta che richiami anche la Russia ad un “Concerto europeo” di grandi potenze potrà consentirgli di proporsi sul fronte interno in qualche modo come “vincitore”. Tuttavia si dovrà rimanere fermi sul principio che il diritto internazionale va ripristinato,  e su questo la Russia dovrà dimostrare concreta disponibilità cominciando col ritirare gli schieramenti in Ucraina e ai confini dei già minacciati Paesi Baltici. Dovrà inoltre accettare l’attuale dimensione strategica della Nato, anche perché non è nelle condizioni di contestare la sua natura difensiva cui si sono riconosciuti in un processo di autodeterminazione Paesi che hanno scelto un sistema di valori e di libertà. Vale pure ricordare che sulla strada dei negoziati un passo in avanti si è compiuto almeno una parte del Global South che – come osserva Le Grand Continent – in passato si era tenuto a  distanza: nell’ agosto scorso l’Arabia Saudita è stata promotrice del vertice di Gedda  dove 40 Stati e i rappresentanti dell’Unione Europea hanno iniziato a condividere «consultazioni» sui «principi chiave per ripristinare una pace duratura e giusta per l’Ucraina».  Su questi profili anche le conclusioni della recente Munich Security Conference hanno evidenziato un più deciso orientamento dei Paesi europei e Nato nel potenziamento strategico dell’industria militare: un dato davvero singolare per un forum che ha come slogan Peace through Dialogue, ‘La pace attraverso il dialogo’, a dimostrazione di una maggiore consapevolezza sul ruolo della deterrenza per imporre la pace.
In conclusione, la strada dei negoziati che escludano una “resa” di fatto di una Nazione vilmente aggredita  – e di cui non si intende riconoscere la sovranità  – passa dal convincere Putin e il resto del mondo che una  «pace duratura e giusta» è voluta non solo gli Stati Uniti, ma soprattutto dall’Unione Europea che vede negli ucraini un popolo che combatte anche per le libertà e i confini europei. Per questo l’Ucraina deve essere ancora sostenuta per riconquistare la maggior parte possibile del terreno perduto, ma soprattutto l’Occidente dovrà essere capace di contrastare con più convinzione il disegno di Putin con le armi efficaci di cui può disporre: la deterrenza e la diplomazia. Entrambe rimangono fondamentali nella prospettiva di un conflitto che nel terzo anno di guerra si presenta ancora logorante, ma anche con la possibilità che un Occidente coeso possa far fallire le ambizioni imperiali di Putin.

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maurizio delli santi

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