Come si è osservato, benché in tema di regole fiscali europee la vulgata giornalistica ci abbia abituati a una sostanziale interscambiabilità fra “pareggio” ed “equilibrio” di bilancio, gli addetti ai lavori sanno che, a normativa vigente, il termine pareggio è oramai una semplificazione, e che, ogniqualvolta oggi vi si ricorra, la nozione implicata è quella di equilibrio, o meglio, di equilibrio strutturale di bilancio.
Pur tuttavia, l’identità dei due lemmi sembra essersi oltremodo radicata, sì da trasfondersi nella stesura stessa tanto della legge costituzionale (n. 1/2012) quanto della legge di attuazione (n. 243/2012), visto che entrambe recano nel titolo la locuzione “pareggio di bilancio”, mentre nelle disposizioni del testo compare sempre, e correttamente, quella di “equilibrio di bilancio”[1]. Di certo non si può non consentire con chi considera questa oscillazione terminologica del tutto irrilevante sul piano dell’ermeneutica giuridica, sia richiamando, in generale, il principio consolidato dell’ininfluenza dei titula legum per l’interpretazione delle disposizioni normative, sia osservando che, nella fattispecie, le due leggi in alcun modo potrebbero ospitare il concetto banale e inconsistente di “pareggio”, ovverosia aritmetica corrispondenza nelle poste a bilancio fra entrate ed uscite, trattandosi inequivocabilmente della nozione ben più dinamica e complessa di “equilibrio”[2].
Se tuttavia è pacifico che non c’è da questionare di semantica giuridica, la semantica politica, invece, lascia sul campo qualche interrogativo. Per tacere del fatto che proprio dal legislatore che pone mano alla Carta costituzionale ci si attenderebbe un sovrappiù di cura al principio dell’in claris non fit interpretatio, è forte il sospetto che la “svista” lessicale dei titoli risenta di quell’alone mediatico che, come si è visto, ha accompagnato sin dal suo concepimento la riforma costituzionale: il riscattarsi agli occhi delle istituzioni europee passò anche attraverso l’enfasi conferita, presso la pubblica opinione, al messaggio del nuovo corso politico intrapreso. E a tal fine, il concetto redivivo di “pareggio” senza dubbio captava più suggestivamente il senso comune di quanto non lo facesse “equilibrio”. Senza verosimilmente escludere anche la precisa volontà del legislatore italiano di evidenziare, premettendolo al testo legislativo, il rapporto genetico con il Fiscal compact e la regola del pareggio di bilancio nei termini di equilibrio strutturale ivi sanciti.
Entrando ora più nel merito, è opinione condivisa che la riforma del 2012 ha inteso di fatto costituzionalizzare il pareggio di bilancio esemplando le regole basilari statuite dal Patto di Stabilità e Crescita e dal Fiscal Compact[3]. Basta guardare i commi primo e secondo del novellato art. 81 Cost., per rendersi conto che la disciplina di bilancio nazionale viene incardinata sulle pietre angolari europee del controllo del deficit e della sostenibilità del debito:
Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.
Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali.
Qui, con tutta evidenza, la lettera del testo si conforma stricto sensu all’ordinamento europeo, agganciando l’equilibrio di bilancio all’andamento del ciclo economico e vincolando l’indebitamento all’azione anticiclica e agli eventi eccezionali.
L’esigenza però di recepire più puntualmente l’intero impianto della normativa fiscale UE, senza tuttavia appesantire il dettato costituzionale con disposizioni tecniche troppo specifiche, viene rimessa al sesto comma, che demanda l’attuazione del pareggio di bilancio a una legge, «approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale», che stabilisca il contenuto della legge di bilancio, come pure i criteri e le norme volti all’equilibrio fra entrate e spese e alla sostenibilità del debito.
A sua volta, l’art. 5 della legge 1/2012 Cost. provvede a delimitare e dettagliare tale materia oggetto della legge rinforzata. Lo scopo recettizio del legislatore costituzionale può dunque esplicarsi in chiari e precisi rinvii ai pilastri di finanza pubblica dettati dalla vigente legislazione europea, che la legge attuativa dovrà disciplinare per il complesso delle pubbliche amministrazioni, e fra i quali rilevano: i) accertamento e distinzione delle cause degli scostamenti rispetto alle previsioni (leggi: progressi o ritardi rispetto all’Omt) ― comma 1, lett. b); ii) limite massimo, in termini strutturali, degli scostamenti negativi in rapporto al Pil, oltre il quale s’impongono misure correttive (leggi: deviazione significativa e meccanismo di correzione) ― lett. c); iii) «definizione delle gravi recessioni economiche, delle crisi finanziarie e delle gravi calamità naturali quali eventi eccezionali […]» ― lett. d); iv) introduzione di regole della spesa volte all’equilibrio di bilancio e alla riduzione nel lungo periodo del rapporto debito/Pil (leggi: regola sulla spesa e regola sul debito) ― lett. e); v) istituzione presso le Camere di un organismo indipendente con compiti di analisi e verifica della finanza pubblica, nonché di controllo dell’osservanza delle regole di bilancio (leggi: fiscal council indipendente e dotato di autonomia funzionale) ― lett. f).
A fronte di tanta dovizia di determinazioni tecniche, vi è solo un blando e fugace accenno alle implicazioni sociali della regolamentazione di bilancio: la lettera g) rimette alla legge attuativa le modalità attraverso cui, in presenza di fasi avverse del ciclo e di eventi eccezionali, lo Stato, anche derogando dall’art. 119 Cost., «concorre ad assicurare il finanziamento, da parte degli altri livelli di governo, dei livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali».
All’interno della legge n. 243/2012, questa disposizione ha trovato attuazione nell’art. 11, che al primo comma obbliga il MEF a prevedere, in sede di programmazione economica e di bilancio, un Fondo straordinario attraverso cui lo Stato, in caso di congiuntura economica sfavorevole o di eventi eccezionali, concorre con le Regioni e gli enti territoriali a finanziare le prestazioni sociali essenziali erogate da questi ultimi; il Fondo è «alimentato da quota parte delle risorse derivanti dal ricorso all’indebitamento consentito dalla correzione per gli effetti del ciclo economico del saldo del conto consolidato». Il che rende evidente non solo un problema di esigibilità di fondamentali diritti sociali[4] ― nella misura in cui l’effettivo godimento del diritto di prestazione trova un limite finanziario esterno, prefissato nell’indebitamento consentito ―, ma anche una subordinazione della garanzia di tali diritti a quantificazioni econometriche non univoche. Infatti, nel caso di specie, l’ammontare della dotazione del Fondo straordinario discende dalle stime previsionali sull’andamento del ciclo economico ed è finanziato con una porzione dell’indebitamento calcolato sul saldo strutturale: stime macroeconomiche rivelatesi troppo spesso errate e, soprattutto, saldo strutturale, come si è visto, fortemente condizionato nei risultati dalle metodologie di calcolo usate.
A ciò si aggiunga che la ripartizione delle risorse fra gli enti territoriali avviene, ai sensi del terzo comma, tramite decreto del Presidente del Consiglio, sul quale le Camere sono chiamate ad una mera funzione consultiva, dovendo le Commissioni competenti esprimere pareri preliminari sullo schema di decreto e solo in merito ai profili di carattere finanziario; in ogni caso, i pareri «sono espressi entro trenta giorni dalla trasmissione, decorsi i quali il decreto può essere comunque adottato».
Inquadrate in una prospettiva più generale, queste norme investono questioni cruciali che la dottrina e la giurisprudenza hanno diffusamente affrontato, quali ― solo per citare le più rilevanti ― il principio del ragionevole bilanciamento fra risorse finanziarie e tutela dei fondamentali diritti sociali, l’impatto sui diritti di libertà e sulla dignità della persona dovuto alla riduzione delle prestazioni sociali dettate da legiferazioni rigoriste da tempo di crisi, la trasformazione della forma stessa di Stato e di governo, così come delineate nella nostra Costituzione repubblicana, allorché interventi di revisione costituzionale, come quello dell’art. 81, potenziano il valore prescrittivo della disciplina di bilancio.
Sul primo punto, a me sembrano persuasive le argomentazioni dei costituzionalisti che ammoniscono dall’assegnare al principio del “pareggio” di bilancio un primato gerarchico rispetto al complesso degli altri principi costituzionalmente sanciti e protetti, primo fra tutti quello della persona umana e della sua dignità: «Se tentiamo di mettere a confronto il limite posto dall’art. 81 e l’interesse da esso tutelato con gli interessi da esso limitati, ci troviamo dinnanzi ad un incommensurabile divario: a fronte di quella disposizione sta infatti la Costituzione intera, nel suo disegno complessivo, nei suoi fondamenti»[5].
Pertanto, proprio la struttura della nostra Costituzione, che ha nell’unitarietà il suo carattere più peculiare, e non separa le norme economiche dalle altre, in quanto presidiate da finalità e limiti sociali, imporrebbe molta cautela nel revisionarle, pena alterare i fini ultimi della Costituzione[6].
A dispetto, dunque, della giurisprudenza costituzionale che progressivamente, e ben prima della riforma dell’art. 81 Cost., ha sempre più scrutinato ricorrendo alla nozione di diritto finanziariamente condizionato[7], resta il fatto che «In tal modo l’elemento finanziario finisce per essere inteso come una sorta di “antefatto”, che in quanto tale può essere soltanto oggetto di constatazione; il serissimo rischio che ne deriva è quello di determinare lo “schiacciamento” della dimensione normativa della tutela del diritto costituzionale (il suo dover essere) su dati di carattere eminentemente effettuale, considerati nella loro mera preesistenza e staticità»[8].
La seconda questione discende recta via dalla prima: posto che i diritti a prestazione hanno un costo intrinseco e sono in sé finanziariamente condizionati, e che dunque la tutela dell’effettività del diritto sociale sotteso si risolve in ultima analisi nell’applicare un ragionevole equilibrio che non ne intacchi il nucleo essenziale costituzionalmente garantito, va da sé che la particolare coesione strutturale della nostra Costituzione appena richiamata esalta un’interdipendenza sistematica fra le disposizioni, tale che pur un ragionevole equilibrio potrebbe non bastare a proteggere quel nucleo, vale a dire a impedire la rifluenza su diritti di libertà, ovvero su principi fondamentali, primo fra tutti quello della dignità della persona[9].
A corollario di quanto detto, ― e veniamo all’ultimo nodo ― non può ignorarsi che le regole economico-finanziarie di rango costituzionale siano in stretto rapporto con l’assetto istituzionale stesso. Come ha efficacemente messo in luce Massimo Luciani in uno studio recente[10], questa interazione si esplica a più livelli, implicando non solo la forma di governo e quella di Stato, ma anche il tipo di Stato.
Circa la forma di governo, i Costituenti ― rileva Luciani ― furono mossi dal convincimento che al Governo spettasse la responsabilità delle scelte di bilancio e al Parlamento l’esercizio di controllo su di esse: negli anni a seguire, tutto il dibattito sulle corrette politiche di bilancio avrebbe visto quindi dipanarsi da questo assunto le posizioni contrapposte, fra chi propendeva per un rafforzamento delle attribuzioni ora in capo all’uno ora all’altro, secondo che si ravvisasse nell’Esecutivo una maggiore garanzia di disciplina finanziaria, oppure nella rappresentanza parlamentare un contenimento della discrezionalità governativa negli eccessi di spesa pubblica finanziati con aumento della pressione fiscale[11].
Quanto al legame con la forma di Stato, Luciani lamenta il fatto che la teoria del diritto costituzionale abbia quasi sempre guardato al nesso fra ambito economico-finanziario e diritti, trascurando nei fatti l’altro, e non meno decisivo, rapporto con doveri. Acquisito che tutti i diritti hanno un costo, non solo quelli sociali, negli ultimi tempi, non senza una certa dose d’enfasi retorica, l’attenzione ha finito per spostarsi sui diritti delle generazioni future, un uso estremo della categoria di finzione giuridica, viziata dai difetti logici ed ontologici tipici dei ragionamenti che arrischiano previsioni sul futuro, concependolo arbitrariamente come mera ipostasi del presente[12]. Più ragionevole e fondato sarebbe invece ancorare il discorso economico sub specie costituzionale alla tutela degli interessi del genere umano e soprattutto al rispetto dei doveri cui sono tenute le generazioni presenti[13].
In tal senso, è da considerarsi perniciosa la sottovalutazione della doverosità insita in particolare nelle prescrizioni dell’art. 53 Cost.: «Il vincolo di cittadinanza, infatti, al contrario di quanto comunemente si crede, non è costruito tanto dai diritti, quanto dai doveri. […] La grande lezione della concezione romana della cittadinanza, che, oltre che nella comunanza di interessi materiali e di regole giuridiche, identificava proprio nei doveri l’autentica sostanza del vincolo sociale, sembra essere stata imprudentemente dimenticata […]»[14].
È tuttavia l’incidenza che le vicende del bilancio hanno sulla concezione stessa del tipo di Stato a meritare oggi forse il maggiore apprezzamento. Proprio l’evoluzione normativa europea in tema di politiche di bilancio ha fatto emergere almeno tre evidenze problematiche inerenti direttamente all’ordinamento statuale.
La prima concerne la perdurante competizione fra gli Stati membri nel cercare di far prevalere i loro singoli interessi più che quelli generali, in una dinamica di rapporti di forza originata dall’assenza di una chiara e definita struttura federale o confederale dell’UE[15]. La seconda è quella del cosiddetto deficit democratico: la constatazione formale di un Parlamento eletto “direttamente” e di rappresentanti delle altre istituzioni UE legittimati da un voto diretto o indiretto, espresso democraticamente nei singoli Stati, confligge palesemente con la situazione sostanziale, dove il Parlamento europeo non può ancora dirsi effettivo organo di rappresentanza del popolo europeo, e soprattutto dove «i “gradi di separazione” fra le istituzioni eurounitarie e gli elettorati degli Stati sono troppi per poter sostenere che questi ultimi abbiano potuto esercitare una funzione realmente legittimante»[16].
L’ultima presenta i risvolti più complessi e per certi versi paradossali. Se da un lato, infatti, la necessità di un maggiore coordinamento fra le politiche di finanza pubblica ha spinto l’ordinamento UE ad atteggiarsi a sistema integrato, preludio della costituenda Europa federale o confederale, al livello degli Stati membri, invece, proprio l’accentramento delle regole eurounitarie di bilancio ha prodotto una sensibile riduzione dei margini decisionali per le autonomie territoriali interne[17].
Per tornare ora alla riforma costituzionale dell’art. 81, giova un’ultima notazione a margine delle presenti considerazioni preliminari.
Come si è visto, il comma secondo del novellato art. 81 Cost. dispone che, in caso di eventi eccezionali, l’indebitamento è consentito previa autorizzazione votata a maggioranza assoluta dalle Camere.
In attuazione di tale disposizione, l’art. 6 della legge n. 243/2012 ne disciplina il dettaglio stabilendo, fra l’altro, al comma terzo che qualora il Governo consideri indispensabile uno scostamento temporaneo dagli obiettivi di bilancio programmati, al fine di fronteggiare gli eventi eccezionali, «sentita la Commissione europea, presenta alle Camere, per le conseguenti deliberazioni parlamentari, una relazione con cui aggiorna gli obiettivi programmatici di finanza pubblica, nonché una specifica richiesta di autorizzazione che indichi la misura e la durata dello scostamento stabilisca le finalità alle quali destinare le risorse disponibili in conseguenza dello stesso e definisca il piano di rientro verso l’obiettivo programmatico, commisurandone la durata alla gravità degli eventi di cui al comma 2. […]. La deliberazione con la quale ciascuna Camera autorizza lo scostamento e approva il piano di rientro è adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti».
Si tenga presente che dall’esercizio finanziario 2014, ossia dalla prima applicazione delle nuove norme costituzionali sul pareggio di bilancio, e per i tre esercizi successivi ― 2015, 2016 e 2017 ―, il Governo si è sempre valso della via derogatoria.
Nel Documento di Economia e Finanza (DEF) dell’aprile 2014, il Governo programma il raggiungimento del pareggio strutturale di bilancio nel 2016: (2014) -0,6% del Pil; (2015) -0,1% del Pil; (2016) 0,0% del Pil.
A seguito della Nota di Aggiornamento del DEF (settembre 2014), dove alcuni dati macroeconomici vengono sensibilmente rivisti rispetto alle previsioni, il Governo presenta al Parlamento la Relazione contenente gli elementi che configurerebbero la presenza di eventi eccezionali, nonché la relativa richiesta di autorizzazione per lo scostamento temporaneo dal percorso di convergenza all’Omt, che prevede lo slittamento di un anno del pareggio strutturale: (2014) -0,9% del Pil; (2015) -0,9% del Pil; (2016) -0,4% del Pil; (2017) 0,0% del Pil.
Lo schema si ripete nel 2015. Il DEF di aprile conferma l’obiettivo del conseguimento del pareggio strutturale nel 2017: (2015) -0,5% del Pil; (2016) -0,4% del Pil; (2017) 0,0% del Pil. Ma la Nota di Aggiornamento di settembre evidenzia condizioni economiche più ardue di quelle attese, e perciò nuova Relazione e contestuale richiesta di autorizzazione al Parlamento per il posticipo di un altro anno del pareggio strutturale: (2015) -0,3% del Pil; (2016) -0,7% del Pil; (2017) -0,3% del Pil; (2018) 0,0% del Pil. Nel caso di specie, la base normativa è costituita dal comma quinto dell’art. 6 legge n. 243/2012: «Il piano di rientro può essere aggiornato con le modalità di cui al comma 3 al verificarsi di ulteriori eventi eccezionali ovvero qualora, in relazione all’andamento del ciclo economico, il Governo intenda apportarvi modifiche ».
Non diverso è quanto accaduto con l’esercizio finanziario 2016. Anzi, in questo caso, la correzione degli obiettivi di finanza pubblica programmati, intervenuta già nel DEF di aprile 2016, ha richiesto la concomitante presentazione al Parlamento della Relazione autorizzativa circa il nuovo piano di rientro e l’ulteriore differimento del pareggio strutturale, sempre ex art. 6, comma 5, legge n. 243/2012: (2016) -1,2% del Pil; (2017) 1,1% del Pil; (2018) -0,8% del Pil; (2019) –0,2% del Pil[18]. Si noti che quest’ultimo aggiornamento delle previsioni circa l’evoluzione dell’indebitamento strutturale non posticipa al 2019 neppure il pareggio effettivo, bensì ciò che viene definito dal Governo un «obiettivo di medio periodo […]sostanzialmente conseguito»[19].
Da ultimo il Quadro Programmatico di finanza pubblica del DEF 2017, che lascia le proiezioni sostanzialmente invariate: (2016) -1,2% del Pil; (2017) -1,5% del Pil; (2018) 0,7% del Pil; (2019) 0,1% del Pil; (2020) 0,0% del Pil. Con la Nota di Aggiornamento di settembre scorso è giunta però puntuale l’autorizzazione parlamentare all’ennesima correzione: «Il Governo, sentita la Commissione Europea, si impegna quindi a continuare il percorso di convergenza verso l’MTO nel biennio 2019-2010, prevedendo […] una discesa dell’indebitamento netto allo 0,6 per cento nel 2019 e allo 0,2 per cento nel 2020. Un saldo strutturale pari a -0,2 punti di PIL nel 2020 assicurerà il sostanziale raggiungimento dell’MTO, ovvero il pareggio di bilancio in termini strutturali, giacché la Commissione Europea consente un margine di tolleranza di 0,25 punti»[20].
Non spetta a chi economista non è, come chi scrive, commentare i dati su esposti; pur tuttavia ci si limita a registrare che, almeno in riferimento al pareggio strutturale, le previsioni programmatiche paiono improntate a un eccesso d’ottimismo, e tali da imporre poi più correzioni “al ribasso” a distanza ravvicinata, anziché ispirarsi a una linea di maggiore prudenza, forse più confacente all’attuale quadro economico generale fortemente instabile a causa della perdurante crisi.
In sé certo è non contestabile lo slittamento di un obiettivo di finanza pubblica dal 2016 al 2020 nell’arco di quattro esercizi finanziari ― in verità molti di più: 0,0% del Pil è l’Omt scelto dall’Italia dal 2005 ―: infatti, compito precipuo della scienza economica è anche osservare e valutare rapidamente gli eventi eccezionali o i peggioramenti del ciclo per riorientare, sulla base delle nuove stime, le scelte di politica economica e fiscale. Resta tuttavia legittimo eccepire l’opportunità che disposizioni costituzionali abbiano un sostrato extra-giuridico di dati tecnici soggetti a rilevazione empirica. Una Costituzione dovrebbe avere se non, come usa dirsi, aspirazione “alla perennità”, almeno aspirazione a una duratura stabilità.
Perché allora costituzionalizzare il pareggio di bilancio, se dall’entrata in vigore della riforma esso ha trovato solo applicazione in deroga e in regime di eccezionalità? Non è forse questo l’effetto distorto e tangibile di un intervento costituzionale totalmente privo d’ideazione riformatrice endogena, di visione “costituente” e di ponderazione politico-istituzionale? Non comprova, di contro, che si è messo mano alla Costituzione in modo precipitoso e, oserei dire, strumentalmente, per assecondare solo la spinta esogena e contingente della rassicurazione ai mercati e della dimostrazione di affidabilità alle istituzioni europee?
Sennonché, questa stessa vicenda si presta a suffragare tanto la posizione degli studiosi che hanno salutato con favore gli elementi di flessibilità preservati dalla novella dell’art. 81 Cost., giacché coerenti con la non dogmaticità voluta sulla materia dai padri Costituenti, quanto quella di chi, sul versante opposto, ha lamentato anche in questa occasione la consuetudine italica al timido compromesso, che con le modifiche apportate alla versione originaria del pareggio di bilancio avrebbe svuotato e reso anodino un intervento normativo altrimenti destinato all’efficacia, purché espresso in vincoli secchi, stringenti e inderogabili.
Ma analizziamo un po’ più nel merito queste posizioni.
- Una riforma mancata o sopravvalutata?
Il vasto dibattito dottrinario scaturito dalla riforma del 2012 credo possa dirsi sia andato essenzialmente polarizzandosi in due fronti, ferme restando al loro interno le più o meno sfumate differenze di angolazione e di argomenti.
Senza alcuna pretesa di completezza, i presupposti valutativi delle controparti in dottrina sono così riassumibili: 1) il pareggio di bilancio o è vero e proprio pareggio, oppure non è; traslato in equilibrio, fatalmente offre scappatoie al perpetuarsi di una gestione allegra della finanza pubblica; 2) l’equilibrio di bilancio, e non già il pareggio secco, agevola una sorveglianza sostenibile della spesa pubblica, nella misura in cui riesce a coniugare il rigore con la dovuta duttilità, resasi necessaria per le frequenti e repentine fluttuazioni macroeconomiche di un mondo globalizzato e sempre più interdipendente.
L’occasione sprecata
I fautori del pareggio di bilancio “puro”, con tutta evidenza, sono altresì convinti sostenitori della necessità di vincoli costituzionali alla spesa pubblica. La matrice ideologica è dichiaratamente quella liberal-liberista: alla base vi è «[…] la convinzione […] che ogni nuova spesa pubblica comporti inevitabilmente, prima o poi, un maggior debito pubblico o una maggiore pressione fiscale; anche se la spesa potrebbe avere effetti anticiclici, deve essere sempre preceduta dall’accumulazione di riserve fiscali, necessarie per coprire quella spesa»[21].
L’altra convinzione è che non si debba demandare il bilancio pubblico alla totale responsabilità del decisore politico, che è solito far leva sulla spesa per fini non commendevoli.
Una Costituzione contenente un obbligo sostanziale al pareggio fra entrate e uscite sarebbe dunque garanzia di una gestione sana e sostenibile delle finanze pubbliche, al riparo dalle spese in deficit, le quali hanno dubbia efficacia anticiclica, mentre troppo spesso divengono facile strumento nelle mani del ceto politico per assicurarsi consenso elettorale. Occorrono perciò norme non solo di rango supremo, ma soprattutto recanti disposizioni nette e chiare, tali da limitare i margini di discrezionalità e non consentire aggiramenti interpretativi da parte della politica.
Su questa linea si sono mossi, ad esempio, Sileoni e D’Amico che, sin dall’avvio dell’iter parlamentare, ebbero a rimarcare lacune e difetti del testo legislativo portato all’approvazione delle Camere, auspicandone modifiche e integrazioni nel senso di un maggior rigore ed efficacia.
Nel rilevare che, se in passato i governi non fossero ricorsi all’indebitamento illimitato per tacitare i dissensi, complice la debolezza dell’art. 81 della nostra Costituzione, non ci ritroveremmo drammaticamente con l’abnorme debito pubblico che espone oggi lo Stato a rischi d’insolvenza e ipoteca il futuro delle prossime generazioni, Serena Sileoni soggiunge tuttavia che «[…] introdurre meramente il vincolo del pareggio sarebbe quasi come dare nulla più che un’esortazione al legislatore, di poco differente, in fin dei conti, da quello che prevede l’attuale art. 81. […]. Ad esso debbono accostarsi necessariamente ulteriori disposizioni che lo rendano effettivo e resistente rispetto a qualsiasi interpretazione o prassi troppo generosa nei confronti delle scelte di spesa pubblica»[22]. Ed indica tre misure fondamentali: 1) fissare un tetto numerico alla spesa pubblica; 2) dettagliare le procedure e le maggioranze necessarie per il ricorso alle deroghe; 3) introdurre meccanismi efficaci di enforcement (ad es. maggioranza qualificata per approvare leggi rinviate dal Presidente della Repubblica per violazione dell’art. 81Cost., controllo preventivo della Corte dei Conti sugli atti aventi forza di legge, ricorso preventivo e diretto di quest’ultima alla Consulta)[23].
Analogamente, subito dopo la deliberazione in prima lettura della Camera dei Deputati, Natale D’Amico segnalava quelle che a suo dire erano evidenti manchevolezze del testo approvato, da sanare auspicabilmente nelle letture successive. Fra le modifiche suggerite spiccano: 1) sostituzione della locuzione “equilibrio di bilancio” con quella di “pareggio”; 2) previsione di un avanzo nelle fasi favorevoli del ciclo accanto al disavanzo previsto nelle fasi avverse; 3) introduzione di un meccanismo di compensazione nel tempo del debito cumulato per “inefficacia degli interventi” e per “eventi eccezionali”; 4) in occasione di fasi cicliche avverse, preclusione per le Amministrazioni locali di operare in disavanzo, per lo Stato di concorrere al loro finanziamento; 5) inserimento diretto in Costituzione del limite massimo alla spesa in rapporto al Pil[24].
Certamente è innegabile che nei quasi settanta anni di vigenza dell’art. 81 Cost. la politica italiana, in particolare quella della cd. Prima Repubblica, ha fornito assai spesso esempi di attenzione ai conti pubblici a dir poco discutibili: l’immenso debito cumulatosi nel tempo che oggi grava sull’Italia non consente di dar torto a chi stigmatizza l’inveterata attitudine nostrana all’indebitamento senza freno per finanziare la spesa pubblica.
Imputare però tutto alla debolezza del dettato costituzionale originario, ovvero all’interpretazione lassista che ha prevalso[25], è una palese semplificazione: ideologica, ma pur sempre una semplificazione.
In primo luogo, siamo di fronte al convinzione liberal-liberista per cui l’individuo deve essere anzitutto “protetto” dall’invadenza dello Stato: nella specie lo Stato impositore fiscale. Non a caso, nell’agenda delle priorità costituzionali, pareggio e pressione fiscale vengono accostati: «Vi è chi ha parlato anche di un tetto alla pressione fiscale, che rappresenta pur sempre un criterio sostanziale che supera il vincolo formalistico espresso dal saldo. Tuttavia, è preferibile spostare il tetto dal lato della spesa, anche per una questione simbolica di palesare, agli occhi dei governanti e dei governati, il fatto che i primi non possono spendere oltre un certo limite, come avviene in ogni sana gestione domestica»[26].
La (classe) politica è vista come “geneticamente” incline al moral hazard per tornaconto elettorale o altre utilità, e perciò asseconda deficit spending, facendo inevitabilmente lievitare il debito pubblico e/o aumentare la pressione fiscale. Il rigido pareggio e il tetto di spesa in Costituzione costringerebbero invece il decisore politico a finanziare la spesa pubblica essenziale ed effettivamente necessaria, a tagliare sprechi, inefficienze e assistenzialismo, e a non opprimere il cittadino-contribuente[27].
In questa ricostruzione c’è tuttavia una rilevante omissione, manca cioè l’elemento essenziale dell’ottemperanza all’obbligo contributivo.
Proprio perché la riflessione riguarda l’Italia, stupisce il fatto che fra tanta acribia critica riservata all’art. 81 non trovi posto neppure un interrogativo sulla reale effettività del dovere a concorrere alle spese pubbliche secondo capacità e progressività contributiva ex art. 53 Cost.. Sembra piuttosto che si preferisca presupporre un “idealtipo” di contribuente virtuoso, costretto all’infedeltà fiscale prevalentemente dallo Stato vessatorio. Un’astrazione questa che francamente confligge con la nostra storia repubblicana, che testimonia il pari radicamento di due condotte improprie, quella, in capo allo Stato, della spesa pubblica in deficit e quella, in capo al cittadino, della (grande) evasione fiscale, con il risultato che il mancato gettito per le casse dello Stato fa registrare proporzioni non meno allarmanti di quelle dello stock di debito pubblico.
Ci si stupisce meno, però, se lo schema che vuole l’individuo migliore dei suoi rappresentanti politici, il contribuente più virtuoso dello Stato, viene ricondotto all’attuale cultura neoliberista, nonostante che una lettura più acuta del dato fattuale, come quella di Paolo Leon, ci permetta di problematizzare in modo diverso e meno banale il nesso fra disavanzo/debito e gettito fiscale: «[…] se l’intera spesa pubblica deve essere in pareggio, per i capitalisti ciò non deve accrescere la pressione fiscale, ma dar luogo a riduzione di spesa, assottigliando sempre di più le competenze dello Stato, anche di quello minimo»[28]. E ancora: «Il sospetto è che si sia formato un vortice, nel nuovo capitalismo dei Paesi ricchi, che parte dalla riduzione dell’imposta progressiva, genera disavanzo pubblico, cui si pone rimedio restringendo la spesa e la domanda effettiva, che a loro volta determinano la riduzione del gettito tributario»[29].
D’altronde, anche l’altro nesso meccanico fra maggiore spesa pubblica e soddisfazione dell’elettore si rivela fallace, quando si consideri che questi non ragiona mai solo in termini di maggiore o minore spesa pubblica, bensì di efficacia di essa in rapporto alla propria situazione economico-sociale al momento del voto. Molteplici sono i casi dimostrabili in cui l’esercizio della democrazia e l’intervento pubblico prescindono totalmente dalle entrate e uscite dello Stato[30].
In definitiva, dall’approccio ultra-rigorista del pareggio in Costituzione si ricava l’impressione di una malcelata insofferenza verso l’in sé della dimensione politica.
Innanzitutto, verso una qualsivoglia politica economica. L’odierna ortodossia neoliberista ha radicalizzato il liberismo classico, spingendosi ben oltre il dettame di uno Stato che deve intervenire il meno possibile nell’economia e lasciare che il mercato dispieghi la propria capacità di equilibrio automatico e di autoregolazione: esige vincoli tassativi di bilancio in pareggio, soglie quantitative alla spesa pubblica ― al di là se sia corrente o per investimenti ―, tetti all’imposizione tributaria. Il che rende evidentemente superfluo anche solo il confronto fra politiche economiche, keynesiane e non, su temi storicamente cruciali, quale ad esempio l’effetto anticiclico della spesa pubblica: «[…] la questione della fase avversa del ciclo economico è una questione politica, su cui possono costituire pezze d’appoggio parametri riconosciuti (come gli indici Istat). In questo caso, più che proceduralizzare l’accertamento della fase avversa, è forse opportuno fissare un tetto di sforamento e le modalità per riassorbirlo»[31].
Ma l’insofferenza è nei confronti della politica tout court. Questa idea di Stato minimo espunge la tradizionale funzione mediatrice della politica, in quanto inutile e nociva, e prefigura una democrazia elitaria che superi la dialettica parlamentare fra le forze politiche e decida secondo logiche di stampo mercantile e imprenditoriale. Né del resto è dato pensare alla mera riproposizione del modello ottocentesco dello Stato liberale europeo: come è stato con ragione fatto rilevare, se è vero che il capitalismo ottocentesco subordinò il politico all’economico, ciò non corrispose affatto all’astensionismo dello Stato in economia[32].
Indicativa del mutamento di prospettiva è la chiosa circa le ragioni di debolezza della regola sulla spesa, così come prevista dalla legge 1/2012 Cost. e rinviata alla legge rinforzata: «[…] non prevede alcun limite costituzionale» (sic!) «alla possibilità che la politica possa pensare di risolvere il conflitto sociale e il confronto fra i partiti sulla base di una generale espansione del ruolo dello Stato nell’economia, piuttosto che dedicarsi alla ottimizzazione nell’utilizzo di risorse date, almeno nel loro rapporto con il prodotto»[33].
Insomma, un lampante paradosso: uno Stato “minimo e leggero” che necessita però di una forte copertura costituzionale per consacrare il primato dell’individualismo e del mercato.
Una riforma “equilibrata”
Sicuramente maggioritaria è la dottrina che ha giudicato in modo sostanzialmente positivo l’impianto della riforma. Il nuovo disposto costituzionale e la legge attuativa presenterebbero elementi di “flessibilità” sufficienti tanto a lasciar spazio all’azione politica quanto a garantire la coerenza dell’ordinamento interno e nel contempo l’armonia con l’ordinamento eurounitario. L’accusa di costituzionalizzazione dell’austerità sarebbe pertanto frutto d’ingiustificato allarmismo, dovuto al non adeguato apprezzamento della duttilità intrinseca al cuore della riforma, il pareggio di bilancio inteso come equilibrio strutturale.
Vi è una prima argomentazione che tende a valorizzare la revisione costituzionale scorgendovi un positivo adeguamento ai tempi, un ammodernamento richiesto dall’ineluttabilità dei processi economico-finanziari operanti ormai su scala sovranazionale e planetaria. In tal senso, l’integrazione europea non poteva esimere l’Italia dal dotarsi di regole supreme in materia di sorveglianza e sostenibilità della finanza pubblica più efficaci che in passato; semmai, occorreva contemperarle con i valori e i principi della nostra tradizione costituzionale. Pertanto, stando all’accurata analisi di Nicola Lupo, una volta scongiurato l’inserimento del principio del pareggio di bilancio nella prima parte della Costituzione ― come pure proposto da taluni ―, con il rischio di accentuare il peso del vincolo finanziario, in sé eminentemente procedurale, l’entrata in vigore della legge 1/2012 Cost. ci consente di «parlare di una Costituzione economico-finanziaria italiana (o, meglio, euro-italiana […]), che appare ora maggiormente in linea, […], con le tendenze attuali delle Costituzioni più recenti, attente a disciplinare i principi che guidano le procedure finanziarie, sia nei rapporti tra Governo e Parlamento, sia nelle relazioni tra i diversi livelli territoriali»[34].
Su questa stessa linea, c’è poi fra i costituzionalisti chi come Andrea Morrone arriva persino a parlare di opportunità storica perché attraverso il pareggio di bilancio si dia finalmente effettività ai diritti di cittadinanza inclusiva, giacché «tra pareggio di bilancio e stato costituzionale esiste una correlazione strutturale»[35]. Senza dimenticare che la sfida della futura coesione sociale passa anche attraverso l’ineludibile riconoscimento della sfera dei diritti intergenerazionali: il pareggio di bilancio «[…] si rivolge in senso solidaristico anche a coloro che sono fuori o ai margini del rapporto di lavoro o del sistema di protezione sociale, nonché alle future generazioni. Invero, proprio il tema dei diritti fondamentali e delle loro garanzie dovrebbe far propendere a valorizzare l’opportunità offerta dal pareggio/equilibrio di bilancio. […]. Il progetto costituzionale di promozione dell’eguaglianza può essere implementato attraverso regole stringenti di governo dei pubblici bilanci, specie se queste regole sono dirette a ridurre o evitare spese finanziate con debiti crescenti e insostenibili, specie in momenti in cui la crescita economica è scarsa o pari a zero, specie in contesti politici strutturalmente deboli o instabili»[36].
Una seconda argomentazione ― portata avanti, fra gli altri, con particolare zelo da Massimo Luciani[37] ― è quella che dà speciale rilievo alla flessibilità del novellato art. 81 Cost.. In particolare, sia la disposizione del primo comma, secondo cui lo Stato assicura l’equilibrio di bilancio tenendo conto delle fasi del ciclo economico, sia quella del comma secondo, che consente il ricorso all’indebitamento in considerazione degli effetti del ciclo e al verificarsi di eventi eccezionali, comproverebbero il carattere duttile e dinamico della nuova disciplina di bilancio.
Questa flessibilità insita nella nozione di equilibrio fra entrate e spese metterebbe dunque al riparo dal rischio di una compressione dei diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione, così come la facoltà d’indebitamento, sia pure enumerata in rigide fattispecie, lascerebbe ancora in gran parte aperto lo spettro delle opzioni di politica finanziaria, in linea con lo spirito dei Costituenti che non vollero aderire dogmaticamente ad una specifica teoria economica[38].
Iniziamo dall’ultima questione, quella del “ricorso all’indebitamento”. Prescindendo dalle difficoltà che pone all’interprete la non felice formulazione linguistica del comma secondo, per la cui soluzione ci rifacciamo all’interpretazione non letterale proposta convincentemente da Antonio Brancasi[39], può assumersi che il disposto del comma legittima due (distinte e non necessariamente cumulative) tipologie di ricorso all’indebitamento: a) un indebitamento finalizzato esclusivamente agli effetti del ciclo; b) un indebitamento aggiuntivo dipendente da eventi eccezionali e soggetto ad autorizzazione parlamentare. Detto altrimenti, si tratta di un «equilibrio anticiclico che può incorporare una quota di indebitamento e (con una autorizzazione rafforzata nella procedura) una quota speciale di indebitamento aggiuntivo, necessaria a fronteggiare gravi crisi economiche e crisi finanziarie»[40].
Letta così, la disposizione lascerebbe dunque impregiudicate le politiche di spesa in deficit, provvedendo solo a vincolarle a circostanze normativamente individuate e definite. Insomma, una elasticità volta a coniugare il rigore delle regole, per la tenuta dei conti pubblici, e la discrezionalità decisionale, per le politiche fiscali espansive in contesti macroeconomici problematici[41].
Ma il punto dirimente per l’interprete giuspolitico è tuttavia un altro: bastano questi margini riservati in linea di principio all’indebitamento netto ― insieme con altri elementi di flessibilità contenuti nella riforma ― per ritenere ancora realizzabili interventi pubblici di tipo keynesiano, o piuttosto si tratta di “residui formali” che poco o nulla possono di fronte all’imbrigliamento normativo e procedurale di matrice neoliberista? Siamo realmente davanti a una riforma temperata della disciplina di bilancio, oppure nella sostanza essa riflette una svolta nel modello macroeconomico di riferimento, che ha dato consacrazione giuridica al declino del keynesismo in favore del neoliberismo? Qui le posizioni divergono.
Come si è detto, prevalente è la valutazione di quanti tendono a ridimensionare l’impatto strutturale avuto dalla revisione costituzionale. Si va da chi indica nell’indebitamento previsto in via derogatoria in caso di gravi crisi economiche lo spazio per politiche keynesiane[42], a chi scinde il piano giuridico della riforma, che legittima ancora politiche anticicliche e spesa pubblica in disavanzo, dal piano fattuale (vincoli europei e dinamiche finanziarie internazionali), che potrebbe limitare l’attuazione di misure keynesiane[43], a chi, infine, ritiene che la debole prescrittività delle norme costituzionali ed europee e le molte eccezioni ammesse destituiscano di fondamento le letture (ideologiche) circa la transizione verso uno Stato post-keynesiano[44].
Benché meno diffusa, vi è d’altro canto parte della dottrina che respinge la tesi della novella di bilancio a Costituzione “economica” sostanzialmente invariata. Fra i vari contributi, da ultimo, merita senz’altro segnalazione la lucida e puntuale analisi di Omar Chessa[45], secondo cui nelle pieghe della riforma è possibile rinvenire invece una vera e propria «messa al bando» del keynesismo, che ha sancito una rottura con il fondamento “socialdemocratico” della nostra originaria Costituzione economica[46].
Attenendoci per il momento all’oggetto qui in discussione ― la previsione normativa sull’indebitamento ―, non può negarsi cogenza a quattro circostanze enucleate da Chessa. Queste fanno militare fortemente nel senso di una liquidazione dell’impianto teorico keynesiano, ottenuta tramite limitazioni fattuali e procedurali imposte dal nuovo articolato costituzionale, le quali finiscono per svuotare, snaturare e rendere impraticabile l’indebitamento nella sua autentica declinazione keynesiana, vale a dire quale intervento pubblico di stimolo all’economia, deciso con libera discrezionalità nell’ambito di politiche fiscali espansive. In sintesi: 1) il ricorso all’indebitamento è un eccezione soggetta a vincoli costituzionali e curvata sugli obiettivi fissati in sede europea; 2) la procedura aggravata prevista per l’autorizzazione parlamentare all’extra-deficit rischia di rallentare un processo decisionale altrimenti richiesto tempestivo proprio dall’eccezionalità degli eventi; 3) a fronte di un extra-deficit consentito per le «gravi recessioni economiche», si tace del tutto sulle recessioni di non grave entità e pur tuttavia non contrastate efficacemente dai soli stabilizzatori automatici; 4) la norma costituzionale nulla dice sull’indebitamento keynesiano per spese d’investimento (infrastrutture, tecnologia, formazione ecc.), che può realizzarsi anche in fasi congiunturali positive e rispondere esclusivamente ad una strategia di politica economica nazionale[47].
A me pare che i rilievi suesposti siano pienamente condivisibili e segnino il tracciato di una “mutazione genetica” nella normativa costituzionale di bilancio. Non saprei se essa abbia effettivamente alterato un connotato socialdemocratico della nostra originaria Costituzione economica, ma senza dubbio, introducendo vincoli sostanziali, ha minato ― come sopra si è detto ― la coesione strutturale del preesistente ordinamento costituzionale, che ancorava la disciplina di bilancio, proprio in forza della sua natura esclusivamente procedurale, al principio fondamentale della dignità della persona umana e ai diritti sociali ad esso connessi, con il solo vincolo esterno del principio di ragionevolezza e di equilibrio.
Quanto al merito, non mi soffermerei oltremodo sull’ultima notazione riguardante l’assenza di riferimenti normativi all’indebitamento diretto a finanziare spese per investimenti pubblici. È sin troppo chiara l’intenzione di estromettere per via giuridica la golden rule, uno dei pilastri della politica macroeconomica keynesiana. In realtà, la spesa per investimenti è menzionata, ma solo nell’articolato della legge attuativa e con riferimento alle Regioni e agli Enti locali (art. 10). Per lo Stato, infatti, la scelta di non normare al livello costituzionale la spesa pubblica per investimenti ― magari escludendola o almeno derogandola in qualche misura dal deficit ― è in piena coerenza con l’ordinamento eurounitario, che ha avocato a sé tale disciplina, confinandola quale clausola speciale, all’interno delle strettoie del PSC, per consentire agli Stati membri di ottenere dalla Commissione maggiore flessibilità nei vincoli di bilancio. Il che conferma che l’indebitamento è contemplato e legittimato soltanto in funzione anticiclica ed emergenziale, ovvero quale strumento “difensivo” e non già “progettuale”: una scelta di campo inequivoca, nei termini esaustivi illustrati da Chessa.
Importa invece riprendere e sviluppare gli altri tre punti, per avanzare qualche correttivo ed integrarne la prospettiva. Sui primi due, quello degli obblighi europei e quello della maggioranza assoluta, se ne dirà più avanti. Andiamo invece alla questione dell’extra-deficit in rapporto alle recessioni economiche ad impatto modesto.
Si potrebbe contro-obiettare che in sé non è affatto precluso un ricorso all’indebitamento in presenza di recessioni moderate, bensì è solo da farsi ricadere latamente nella prima fattispecie, ossia la quota d’indebitamento ammessa «al fine di considerare gli effetti del ciclo economico». Infatti, come è stato giustamente osservato, «si allude a un indebitamento coerente col ciclo; […] (un) livello di indebitamento, che esprime l’operatività degli stabilizzatori automatici. Stabilizzatori che operano anche in funzione delle caratteristiche della legislazione positiva di entrata e di spesa (si pensi al grado e all’estensione dei meccanismi di protezione sociale e sanitaria)»[48].
Non è detto, però, che la legislazione positiva che disciplina gli stabilizzatori automatici risulti effettivamente rispondente agli scopi. Anzi, bisogna tener presente che le politiche di austerità spesso tendono a restringere il finanziamento dei meccanismi di tutela sociale che si attivano nelle fasi recessive, e ciò significa che ad un’operatività ridotta degli stabilizzatori automatici di spesa corrisponda un livello d’indebitamento già limitato in partenza nella propria efficacia anticiclica[49].
In realtà, a ben vedere, siamo di fronte a un modello di politica fiscale di stampo monetarista, che ha prevalso sull’approccio keynesiano, e ha dato il fondamento teorico al PSC: il principio guida è che i Paesi membri devono puntare a ridurre l’effetto distorsivo del prelievo fiscale, mantenendo costanti nel lungo periodo le aliquote delle imposte, indipendentemente dalla fase del ciclo (smoothing tax); pertanto, la politica fiscale anticiclica, in caso di recessioni moderate, deve affidarsi soltanto agli stabilizzatori automatici e non basarsi sulle azioni discrezionali dei governi[50]. È dunque il presupposto macroeconomico neoclassico-monetarista che ha esercitato un condizionamento determinate, sottraendo alla discrezionalità politica gli interventi anticiclici di contrasto alle fluttuazioni negative “ordinarie” e ammettendoli solo in caso di fluttuazioni cicliche gravi ed eccezionali[51].
Di la da ciò, a me sembra che il nodo vero sia quello dell’indebitamento coerente con il ciclo, che ci riporta al problema cruciale della depurazione del saldo nominale dagli effetti ciclici e all’equilibrio di bilancio come prescritto dal novellato comma primo dell’art. 81 Cost. La legge attuativa, attraverso una concatenazione di rimandi, esplicita che tale equilibrio di bilancio corrisponde all’Omt, secondo i criteri fissati in sede europea: infatti, «l’equilibrio dei bilanci corrisponde all’obiettivo di medio termine» (art. 3, comma secondo), il quale Omt è «il valore del saldo strutturale individuato sulla base dei criteri stabiliti dall’ordinamento dell’Unione europea» (art. 2, comma primo, lett. e)), saldo che, a sua volta, è «il saldo del conto consolidato corretto per gli effetti del ciclo economico al netto delle misure una tantum e temporanee e, comunque, definito in conformità all’ordinamento dell’Unione europea» (lett. d)).
Naturalmente, anche le fasi avverse e favorevoli del ciclo economico sono «individuate come tali sulla base dei criteri stabiliti dall’ordinamento dell’Unione europea» (lett. f)).
Il punto è proprio qui. Qualora risultino non affidabili ― come ormai da più parti autorevolmente dimostrato ― i criteri adottati dall’UE per individuare le fasi cicliche, allora le politiche fiscali dei Paesi membri, difettando nelle premesse macroeconomiche, possono rischiare seriamente un’“eterogenesi dei fini”; e saremmo, però, ancora sostanzialmente sul piano della dialettica scientifica: bisognerebbe migliorare la metodologia di calcolo condivisa al livello UE, per programmare obiettivi di finanza pubblica corretti e sostenibili, e realizzare politiche fiscali adeguate e coerenti con essi, limitando il più possibile effetti distorti o addirittura nocivi. Ma se poi tali criteri acquisiscono rango costituzionale nel diritto interno, come avvenuto con il riformato art. 81 Cost., che li ha recepiti per via indiretta dal diritto europeo attraverso la legge rinforzata, qualche interrogativo in più s’impone al commentatore.
In linea teorica, la regola del pareggio di bilancio di cui al primo comma si basa sulla nozione di saldo di bilancio nominale quale composizione del saldo strutturale e (±) della componente ciclica. Quando la fase ciclica è avversa, operano gli stabilizzatori automatici e, di conseguenza, il saldo nominale tende ad essere più basso di quello strutturale: la regola del pareggio strutturale è rispettata anche con disavanzi nominali; viceversa, quando la fase ciclica è positiva, il saldo nominale è migliore di quello strutturale: l’obiettivo del saldo strutturale in pareggio implica pertanto la realizzazione di avanzi di bilancio nominali[52].
Come si è detto in precedenza[53], per ottenere un saldo aggiustato per il ciclo (CAB: Cyclical Adjusted Budget), bisogna determinare la componente ciclica, e cioè: 1) stimare il Pil potenziale; 2) calcolare la differenza fra il tasso di crescita reale effettivo e il tasso di crescita potenziale (output gap); 3) moltiplicare l’output gap per il parametro ε di elasticità del saldo di bilancio, anch’esso stimato (per Italia, Francia e Germania è pari a 0,55).
La ratio sottostante al primo comma, che collega l’equilibrio di bilancio alla valutazione delle fasi avverse o favorevoli del ciclo economico, sta dunque nel principio, sancito a partire dal PSC riformato del 2005, secondo cui nelle fasi declinanti possono ammettersi saldi di bilancio negativi, mentre in quelle di crescita vanno realizzati saldi positivi, che devono riassorbire gli effetti dei disavanzi precedenti ed essere utili a fronteggiare le eventuali fluttuazioni successive. In altre parole, quantificato lo scostamento fra Pil effettivo e Pil potenziale, quando l’output gap è negativo (il Pil è più basso del potenziale), lo Stato ha facoltà di avere disavanzi nominali e quindi di ricorrere all’indebitamento, quando invece l’output gap è positivo, ha l’obbligo di avere surplus e quindi di ripagare il debito.
Ne deriva che, in coerenza con le disposizioni del primo comma, il secondo comma richiama, con la prima fattispecie, la facoltà di ricorrere all’indebitamento nelle fasi avverse del ciclo economico. L’entità di tale indebitamento «viene decisa nella fase di programmazione di medio periodo della politica fiscale, ambito nel quale ― sulla base della posizione ciclica dell’economia ― vengono fissati i saldi obiettivo per il periodo di riferimento»[54].
In estrema sintesi, tutto ruota attorno all’apprezzamento della fase ciclica: facoltà di deficit e obbligo di surplus sono posti in connessione con l’andamento dell’output gap. Soltanto quando l’output gap è pari a zero, il pareggio di bilancio strutturale implica anche quello nominale; altrimenti, «Over the cycle, disavanzi e avanzi di bilancio tendono a compensarsi a vicenda, consentendo in ciascun esercizio la realizzazione di politiche fiscali corrette, cioè anti-cicliche»[55].
Ebbene, già si è detto abbastanza riguardo alla forte variabilità cui è soggetta la quantificazione dell’output gap. Richiamando solo quanto sopra illustrato, ricordiamo che il Pil potenziale, diversamente dal Pil effettivo, non è un indicatore osservabile, non viene cioè misurato o calcolato in base a misure, bensì viene stimato con metodi statistici, sulla base di modelli che inglobano valutazioni discrezionali e che quindi possono dare anche risultati molto differenti. Ad esempio, l’OCSE usa un modello che dà un output gap migliore rispetto a quello del modello UE, il che comporta che, per molti Paesi europei, le stime del saldo strutturale di bilancio siano migliori rispetto a quelle della Commissione europea. Addirittura, nel 2015, l’OCSE stimava per l’Italia un surplus del saldo strutturale (0,5), mentre la Commissione un saldo negativo (-0,8)[56]. Ma c’è di più.
Può accadere ― ed è accaduto― che il medesimo modello statistico dia un valore dell’output gap calcolato in tempo reale diverso da quello calcolato ex post. Questo perché le previsioni sul ciclo sono incerte e, a mano a mano che vengono aggiornate, cambia anche la valutazione della posizione corrente nel ciclo.
Le conseguenze che questi due difetti econometrici possono avere sull’adeguatezza ed efficacia delle manovre di bilancio sono non di poco conto, e ampiamente menzionate: con un Pil potenziale negativo, uno Stato membro è tenuto dalle regole europee a correggere i saldi strutturali di bilancio con manovre di aggiustamento o restrittive; al contrario, un Pil potenziale positivo potrebbe indicare che una fluttuazione negativa sia imputabile a fattori ciclici, come una caduta della domanda, tale da richiedere misure espansive anti-cicliche a sostegno di essa. Insomma, «una stima piuttosto che un’altra possono portare a politiche di segno diametralmente opposto. Una politica restrittiva assunta in presenza di un ciclo sfavorevole risulterebbe molto probabilmente pro-ciclica con gravi effetti sulle prospettive dell’economia»[57].
Ma trasliamo le medesime implicazioni alle prescrizioni del novellato art. 81 Cost. Viene da chiedersi se tutto ciò non produca una sorta di “fluttuazione” costituzionale. Se infatti l’equilibrio di bilancio costituzionalizzato corrisponde all’Omt, e l’Italia si è data come obiettivo un determinato saldo strutturale, può giungersi al paradosso che l’obbligo costituzionale di bilancio risulti già ottemperato, rispettato prospetticamente, oppure violato, secondo che si assuma un metodo di calcolo piuttosto che un altro. Come pure, potrebbe aversi analoga variabilità nella forma e tempi dell’osservanza del vincolo, al variare, in costanza di esercizio finanziario, delle previsioni macroeconomiche fornite dal medesimo modello prescelto.
Altro paradosso sarebbe poi che, aggiornata la posizione ciclica con stime di segno opposto, anche la procedura parlamentare aggravata prevista per gli eventi eccezionali, ad una valutazione retrospettiva, possa rivelarsi non necessaria e inutilmente attivata, oppure, al contrario, richiesta e non esperita. Un’eventualità certo meno probabile, nel caso in cui lo scostamento dall’Omt programmato e il relativo piano di rientro finanziario discendano in via derogatoria da evidenze con un buon grado di oggettività ― «grave recessione economica», «gravi crisi finanziarie», «gravi calamità naturali» ― ex. art. 6 comma terzo della legge 243/2012, ma abbastanza realistica allorché, in conformità del comma quinto, la deroga sia posta «in relazione all’andamento [particolare] del ciclo economico».
Da ultimo, non vi è chi non si avveda dei potenziali riflessi anche sul sindacato della Corte costituzionale. Oltre all’indubbia difficoltà che pone alle competenze del giudice delle leggi uno scrutinio di legittimità in una materia così intrisa di tecnicismo economico che travalica la specialità giuridica, c’è il rischio che, in un breve lasso di tempo, una pronuncia della Corte si riveli superata da nuove risultanze econometriche, le quali, modificando sostanzialmente, o persino ribaltando, il precedente quadro di stime macroeconomiche, finiscono per inficiare i presupposti in fatto della declaratoria.
La dottrina non ha mancato d’indagare il problema, preferendo però spostare l’asse del ragionamento sul rapporto fra diritto interno e ordinamento eurounitario. C’è chi, infatti, giudica di per sé utile il rimando ai criteri stabiliti in sede europea, in quanto presidio a che l’indebitamento sia praticabile ma non sia più senza regole; sarebbe perciò positivo che, nel caso dell’indebitamento per gli effetti del ciclo, «l’incidenza della componente ciclica è determinata in sede europea (art. 2, lett. f), mediante l’indicazione di un apposito parametro [scil. output gap] che commisura l’incidenza delle fluttuazioni congiunturali sul bilancio dello stato»[58].
C’è chi, invece, pur da posizione critica verso la rigidità dei vincoli europei, nega tuttavia che il nuovo disposto costituzionale implichi un’esigibilità degli obiettivi di bilancio fissata in termini numerico-quantitativi: «Il Mto comunitario è dunque una tecnica convenzionale, specifica per cercare di rendere definibile e cogente la sostenibilità; è una tecnica modificabile nei presupposti e nei metodi. È una tecnica sostituibile integralmente con altre. La Costituzione opera, attraverso la legge rinforzata, un rinvio mobile recettizio ai meccanismi comunitari. La quota d’indebitamento netto dipende dalla ricostruzione del ciclo normale; ora il ciclo è rimesso alla Commissione (Mto). Ma se non fossimo nell’eurozona dovremmo comunque costruire un nostro Mto partendo da un ciclo normale; la quota di indebitamento coerente con questo Mto potrebbe essere ben diversa da quella posta ora in sede comunitaria»[59].
Ma oggi siamo nell’Unione europea e siamo nell’Eurozona; e il problema è che dobbiamo fare i conti con quel preciso principio di equilibrio di bilancio, commisurato al ciclo economico, che è stato costituzionalizzato su impulso eurounitario, e siamo tenuti a conformarci, dal 2014 anche per obbligo costituzionale, a quell’Omt che, per quanto convenzionale e sostituibile si voglia in via teorica, in concreto discende dalla tecnica attualmente adottata dalla Commissione fra le diverse altre tecniche disponibili[60].
Ha dunque senz’altro ragione chi ha parlato di scelte di bilancio che ormai si proiettano in una sede sovranazionale, dove contano la forza e la capacità contrattuali dei politici nazionali[61]. Ma, a nostro avviso, con conseguenze non irrilevanti.
Si è scelto di riformare la norma costituzionale di bilancio allo scopo d’introdurre le regole certe dell’ordinamento europeo e limitare così la troppo larga discrezionalità politica nazionale consentita dall’art. 81 non riformato. Ma una volta compressi i margini di discrezionalità (e responsabilità) che le precedenti disposizioni riservavano al nostro decisore politico, che genere di azione politica residua al livello sovranazionale? Quella appunto che si esplica in un mero rapporto di forza contrattuale fra gli Stati membri, da far valere con le istituzioni europee in una dialettica unicamente tecnocratica, che può misurarsi con la revisione degli obiettivi di stabilità o con la modifica dei metodi di calcolo dei saldi strutturali.
È agevole constatare, dunque, che non si è trattato di un semplice cambiamento nell’estensione della sovranità, ossia la cessione di rilevanti competenze nazionali in materia di bilancio in favore di un ambito istituzionale sovranazionale più ampio. È stato anche e soprattutto un trasferimento di sovranità con annesso un profondo mutamento qualitativo: un trasferimento cioè fra ambiti ordinamentali disomogenei che ha toccato la forma stessa dell’esercizio di tale sovranità, perché ispirata da principi politici difformi.
Prima della modifica del 2012, la politica di bilancio era declinata come scelta del Governo e controllo del Parlamento che trovavano limite nella sola cornice costituzionale interna, ferme restando le prescrizioni, in materia di conformità al diritto internazionale e di vincoli comunitari ed obblighi internazionali, imposte rispettivamente dagli artt. 10 e 117, comma primo, Cost..
Con la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio di matrice comunitaria, da un lato, attraverso la legge attuativa si è data rilevanza nel diritto interno alla conformità diretta con le norme eurounitarie pattizie, o di rango inferiore, norme che si fondano su regole numeriche d’ispirazione tecnocratica volte a disciplinare la discrezionalità politica nazionale; dall’altro, il processo decisionale di bilancio vede attivarsi il confronto interno fra Governo e Parlamento ― con procedura ordinaria o aggravata ― su provvedimenti e misure già vincolati ai parametri quantitativi imposti dalla normativa UE, all’esito del quale si apre con la Commissione l’interlocuzione (e sempre più spesso la contrattazione) circa la corretta interpretazione e applicazione dei criteri stessi.
Sennonché, la Commissione, organo tecnico deputato a promuovere l’interesse comune e “custode dei Trattati”, non può esercitare la propria funzione di controllo se non facendo valere i metodi di calcolo che al momento meglio riscontrano i parametri condivisi di bilancio, ma che, però, ― giova rimarcarlo ― presentano al livello tecnico un alto grado di discrezionalità.
Il risultato è aver dunque resecato la discrezionalità politica a beneficio di un’altra forma di discrezionalità, quella tecnica, anteposta ideologicamente alla prima in virtù di una presunta neutralità e oggettività. Forse se non si fosse arenato il progetto di una Costituzione dell’Unione europea, oggi il coordinamento delle politiche di bilancio degli Stati membri ospiterebbe, accanto ai vincoli quantitativi, molti più obblighi derivanti da principi e valori di quanto non ne legittimi la normativa vigente. Ma questo aprirebbe un altro spazio di riflessione.
La situazione di fatto è che, dalla crisi del 2008, le dinamiche che connotano le politiche dell’UE ci dimostrano che l’inflessibile difesa di parametri numerici prefissati continua a rappresentare il terreno dei rapporti di forza contrattuale, dove Stati membri, come la Germania e altri del nord Europa, giocano la propria partita per affermare la supremazia dell’austerità neoliberista.
In tal senso, la revisione costituzionale dell’art. 81 può considerarsi un cedimento a questa egemonia culturale, e il portato tecnicistico la leva per snaturare e svuotare dall’interno l’impostazione delle disposizioni originarie, frutto della tradizione culturale del costituzionalismo democratico novecentesco. I numeri sono entrati di fatto nella nostra Costituzione: ricettizi, mobili, modificabili quanto si voglia, ma ci sono. Perché il problema non è la presenza o meno di espliciti valori numerici, bensì la prescrittività numerico-quantitativa.
Sullo sfondo di tutto ciò, credo agisca una sempre più pressante concezione di democrazia “maggioritaria”, che la vicenda del pareggio di bilancio ben esemplifica. In specie, vanno colti i risvolti giuspolitici che presenta la procedura di approvazione a maggioranza assoluta, richiesta per gli extra-deficit straordinari di bilancio. È l’ultima delle quattro questioni sopra elencate che resta da trattare, e da cui muovere per tentare di tirare le fila dell’analisi sin qui condotta.
[1]Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale; Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione.
[2] Si veda, ancora, M. Luciani, L’equilibrio di bilancio, cit., pp. 12-14.
[3] Per una chiara ricognizione delle principali fonti relative alla normativa europea di bilancio, nonché del ruolo e peso gerarchici assunti dal Patto di Stabilità e Crescita e dal Fiscal Compact, vedi G. L. Tosato, La riforma costituzionale del 2012, cit., pp. 3-5.
[4] «Un simile condizionamento impatta negativamente sulla stessa esigibilità dei diritti fondamentali, trasformandoli in ‘diritti finanziariamente condizionati’ e scaricando sui giudici di ultima istanza (Corte costituzionale, Corte di cassazione, Corte di Giustizia dell’Unione Europa ma anche Corte europea dei diritti dell’uomo) la decisione sul bilanciamento fra sostenibilità finanziaria ed effettività del godimento del diritto sociale». (S. Gambino, Crisi economica e costituzionalismo contemporaneo. Quale futuro europeo per i diritti fondamentali e per lo Stato sociale? in Astrid Rassegna, 4 (2015), p. 18).
[5] L. Carlassare, Diritti di prestazione e vincoli di bilancio, in Costituzionalismo.it, 3 (2015), p. 138; sul punto si veda anche più oltre, pp. 147-149.
[6] «La particolare struttura della nostra Costituzione, che prevede un catalogo lungo e dettagliato dei diritti senza distinguere tra diritti di libertà e diritti sociali, incide profondamente sul modo di leggere le disposizioni economiche. Queste non sono separate nettamente dalle altre norme perché in esse vi è sempre un riferimento alla protezione sociale, all’utilità sociale che costituisce il fine ultimo anche delle norme sui rapporti economici. Non vi è una vera e propria separazione tra Stato sociale e mercato e le stesse norme economiche trovano un limite proprio nei valori sociali. In altre parole, se la Costituzione è una, al modificarsi della parte cosiddetta economica, pur volendo ipotizzare che esista, davvero si modificherebbero in modo incisivo anche le finalità della Costituzione». (I. Ciolli, I paesi dell’Eurozona e vincoli di bilancio. Quando l’emergenza economica fa saltare gli strumenti normativi ordinari, in Rivista AIC, 1 (2012), p. 17).
[7] La giurisprudenza costituzionale sul punto non è tuttavia priva di oscillazioni. Nella recente sentenza n. 275/2016, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione contenuta nella legge della Regione Abruzzo (26 aprile 2004, n. 15), secondo cui la Giunta regionale garantisce un contributo del 50% della spesa necessaria al traporto degli studenti disabili o in situazione di svantaggio, «nei limiti della disponibilità finanziaria determinata dalle annuali leggi di bilancio e iscritta sul pertinente capitolo di spesa». In specie, il giudice costituzionale non aderisce alla ricostruzione secondo la quale la disposizione impugnata non poteva non contenere tale limite, pena la violazione dell’art. 81 Cost. per carenza di copertura finanziaria, ritenendo che essa si fondi su una visione non corretta della nozione di equilibrio di bilancio, giacché «è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione».
[8] D. Morana, I rapporti tra Parlamento e Corte costituzionale nella garanzia dei diritti sociali, in Amministrazione In Cammino, (2015), p. 8. F. Bilancia, Crisi economica e asimmetrie territoriali nella garanzia dei diritti sociali tra mercato unico e unione monetaria, in Rivista AIC, 2 (2014), p. 6, ammette che nella recente fase di crisi la Corte costituzionale tende a difendere la posizione rigorista del governo centrale, ma lo considera un più di precauzione nei confronti di un sistema politico dimostratosi incapace d’inverare legislativamente interventi sottili o raffinati della Consulta, senza compromettere la complessiva stabilità legislativa in materia e i saldi finanziari.
[9] Al riguardo cfr., in particolare, D. Morana, I diritti a prestazione in tempo di crisi: istruzione e salute al vaglio dell’effettività, in Rivista AIC, 4 (2013), pp. 2-3. Del resto, sul piano generale, come ha magistralmente chiarito L. Carlassare, Priorità costituzionali e controllo sulla destinazione delle risorse, in Costituzionalismo.it, 1 (2013), p. 12, «L’idea che le norme che regolano in modo contrastante e illogico una materia debbano essere necessariamente leggi ordinarie è una convinzione erronea sia logicamente sia alla luce della giurisprudenza costituzionale. […] I principi costituzionali sono diritto positivo, e proprio la coerenza interna al sistema impone di inserirli nel giudizio; nessuna norma (senza violare la ragionevolezza) può essere in contraddizione con ciò che sta a fondamento del sistema».
[10] M. Luciani, Costituzione, bilancio, diritti e doveri dei cittadini, in Astrid Rassegna, 3 (2013).
[11] Cfr. ivi, pp. 5-6.
[12] Per un lucida lettura critica del principio di equità intergenerazionale alla luce dei diritti sociali costituzionalmente protetti, si veda M. Villone, L’Europa: terra di diritti, crisi, diseguaglianze, in Diritto Pubblico Europeo Rassegna on-line, giugno 2015, pp. 10-13.
[13] Cfr. ivi, pp. 10-11.
[14] M. Luciani, Costituzione, bilancio, cit., p. 11.
[15] Cfr. ivi, p. 20.
[16] Ivi, p. 18.
[17] Cfr. ivi, p. 21.
[18] La Nota di Aggiornamento del DEF 2016 (27 settembre 2016) confermerà sostanzialmente il quadro programmatico di finanza pubblica: (2016) -1,2% del Pil; (2017) -1,2% del Pil; (2018) -0,7% del Pil; (2019) –0,2% del Pil.
[19] Relazione al Parlamento 2016 (ai sensi della legge n. 243/2012 art. 6, comma 5), CDM 8 aprile 2016, p. 5.
[20] Relazione al Parlamento 2017 (ai sensi della legge n. 243/2012 art. 6, comma 5), CDM 23 settembre 2017, p. 6.
[21] P. Leon, Il Capitalismo e lo Stato. Crisi e trasformazione delle strutture economiche, Castelvecchi, 2014, p. 167.
[22] S. Sileoni, Pareggio di bilancio. Prospettive per una maggiore credibilità della finanza pubblica, in IBL Focus, 193 (2011), p. 6.
[23] Cfr. ivi, pp. 7-8.
[24] Cfr. N. D’Amico, Oplà: il pareggio di bilancio non c’è più, in IBL Briefing Paper, 107 (2011), p. 5.
[25] Si veda la sentenza della Corte Costituzionale n. 1/1966 che riguarda per la prima volta l’art. 81, dove vengono distinte le nozioni di “pareggio” ed “equilibrio” di bilancio.
[26] S. Sileoni, cit., p. 7.
[27] In realtà, la retorica su spesa pubblica essenziale, sprechi, assistenzialismo etc. nasce in larga misura dall’impostazione ideologica neoliberista: «Tutte le funzioni pubbliche sono giustificate se danno luogo o a una redditività sul mercato o a una redditività implicita nel senso che le imposte sono in realtà tasse, che rappresentano il prezzo di un servizio, perché (quasi) tutte queste funzioni pubbliche sono sostituibili da funzioni private» (P. Leon, cit., p. 166); «Lo Stato nel nuovo capitalismo non dovrebbe presentare un deficit di bilancio né l’accumulazione di debito, perché se può essere sostituito dall’impresa in tante funzioni e se la sua spesa «minima» è finanziata con le imposte pagate dai cittadini e con le tasse per servizi resi, non dovrebbe prodursi un disavanzo tra entrate e spese correnti. Questa è la tesi di tanti economisti e sociologi liberisti, che la giustificano anche perché l’economia privata, in ipotesi più efficiente di quella pubblica, eviterebbe corruzioni e concussioni (!)» (Ivi, p. 167).
[28] P. Leon, cit., p. 168.
[29] P. Leon, cit., p. 169.
[30] Cfr., ancora, P. Leon, cit., pp. 170-171.
[31] S. Sileoni, cit., p. 8.
[32] «Non dunque che non vi fossero interventi statali aventi incidenze dirette o indirette sul mercato, ma l’essenziale era che tali interventi non si indirizzavano a imporre sulla dinamica delle forze economiche una visione superiore, in nome di principî d’insieme di cui fosse portatrice un’istanza propriamente politica. La dipendenza del politico dall’economico ― di cui gli aspetti elitari-censitari delle forme politiche erano una manifestazione esteriore sul piano dell’ordine costituzionale ― faceva sì che tali interventi fossero in sostanza decisi presso le forze economiche dominanti e in vista dei loro interessi» (G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, Einaudi, 1992, pp. 134-135).
[33] N. D’Amico, cit., pp. 4-5.
[34] N. Lupo, La revisione costituzionale della disciplina di bilancio e il sistema delle fonti, in «Costituzione e pareggio di bilancio», il Filangieri – Quaderno 2011, Jovene, 2012, p. 104. Del resto, già nella fase preliminare all’approvazione della legge di revisione costituzionale, lo stesso autore esprimeva la netta convinzione che il mutato scenario economico-finanziario esigesse una “manutenzione” normativa: «Il fatto è che gli equilibri mondiali sono profondamente cambiati, l’economia europea cresce ad una velocità molto inferiore rispetto al passato e, in Italia, dobbiamo pagare il costo di benefici e inefficienze che nel passato si sono succeduti, e di cui il nostro debito pubblico reca tracce evidenti. L’esigenza di costituzionalizzare il pareggio di bilancio è solo la traduzione, nel mondo del diritto costituzionale, di questi processi che, in ogni caso, sono destinati ad interessare […] i nostri standard di vita. Ed è, al tempo stesso, un modo per rispondere alle richieste dei finanziatori del nostro debito pubblico e per cercare di impiegare con attenzione le risorse che ancora ci sono, evidenziando le responsabilità per il loro cattivo uso». (N. Lupo, Costituzione europea, pareggio di bilancio ed equità tra le generazioni. Notazioni sparse, in amministrazioneincammino.it, 25/5/2011, pp. 5-6).
[35] A. Morrone, Pareggio di bilancio e stato costituzionale, in Rivista AIC, 1 (2014), p. 12.
[36] A. Morrone, cit., p. 12. Da ultimo, ritornando sull’argomento, A. Morrone, La “Costituzione finanziaria”. Un’introduzione, in AA.VV., La Costituzione finanziaria. La decisione di bilancio dello Stato costituzionale europeo, (a cura di) A. Morrone, Giappichelli, 2015, pp. IX-X, ha infatti ribadito: «L’autonomia del politico dall’economico e, viceversa, l’autonomia dell’economico dal politico, ha determinato pericolose separazioni: […] la pretesa di stabilire una gerarchia assiologica tra valori costituzionali considerando solo alcuni acriticamente come necessariamente primari (la persona umana e i diritti della persona), relegando le questioni economiche ai margini e le decisioni di politica economico-finanziaria (come la decisione di bilancio) a meri strumenti tecnici funzionali alla realizzazione dei primi».
[37] M. Luciani, L’equilibrio di bilancio, cit., passim, pp. 16-18 e pp. 21-25.
[38] Cfr., ivi, pp. 15-16.
[39] Come infatti ha efficacemente arguito A. Brancasi, Il principio del pareggio di bilancio in Costituzione, in Osservatoriosullefonti.it, 2 (2012), pp. 5-6, la lettura più aderente alla formulazione letterale implicherebbe che con l’uso della congiunzione copulativa «e», anziché di quella disgiuntiva «o», il legislatore costituzionale intendesse limitare la deroga al divieto d’indebitamento al caso in cui ricorrano simultaneamente entrambe le condizioni: il ciclo economico negativo e gli eventi eccezionali. Il che, però, sarebbe in contraddizione con i vincoli europei di bilancio concepiti in termini strutturali e con il comma primo dell’art. 81 riformato (equilibrio in funzione delle fasi del ciclo). Dunque, «per recuperare coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, ma anche con le altre disposizioni della medesima riforma, diventa necessario forzare la formulazione letterale della norma ed ammettere che le due condizioni, gli eventi eccezionali ed il ciclo economico negativo, operino disgiuntamente».
[40] P. De Ioanna, Forma di governo, cit., p. 401.
[41] In realtà, del tutto condivisibili sono le perplessità di G. Rivosecchi, Il c.d. pareggio di bilancio tra corte e legislatore, anche nei suoi riflessi sulle regioni: quando la paura prevale sulla ragione, in Rivista AIC, 3 (2012), p. 5: « Anche a prescindere dalla configurazione delle deroghe, l’introduzione del divieto del ricorso all’indebitamento ha poco senso in sé, se non si considera il contesto e l’uso che si intende fare delle relative risorse. […]. In altre parole, è difficile sfuggire all’impressione che, partendo dall’assunto che la crisi economico-finanziaria sia ascrivibile ai presunti eccessi dello Stato sociale, il legislatore costituzionale confonda le regole di coordinamento della finanza pubblica in senso statico con quelle di coordinamento in senso dinamico, […]. Le misure relative al debito riguardano a mio parere queste ultime e non le prime, con il rischio, costituzionalizzando invece vincoli di contenuto, di irrigidire e restringere eccessivamente l’ambito riservato alla discrezionalità di Governo e Parlamento, specie nei periodi di recessione».
[42] A. Brancasi, Il principio del pareggio, cit., pp. 6-7: «siccome […] tra questi eventi eccezionali vi sono anche le “gravi recessioni economiche”, l’ipotesi derogatoria in questione è in grado di consentire politiche di tipo keynesiano che, come è noto, non consistono semplicemente nel compensare gli effetti della recessione, cioè nell’evitare che ad essi si aggiunga anche la contrazione dell’intervento pubblico, bensì nel sostenere la domanda mediante una espansione di tale intervento, aggiuntiva rispetto al livello preesistente».
[43] M. Luciani, L’equilibrio di bilancio, cit., p. 18: «[…] le politiche anticicliche sono implicitamente ammesse. E se sono ammesse possono essere alimentate dalla spesa pubblica e possono essere finanziate da ulteriore indebitamento. Questo, ovviamente, in astratto, perché è chiaro che questa strada, benché sia giuridicamente percorribile, potrebbe non esserlo fattualmente, sia a causa dei vincoli europei […], sia a causa dei condizionamenti imposti dalla mobilità internazionale dei capitali, che limita fortemente il ricorso a politiche keynesiane finanziate dal debito, ove il costo del relativo servizio divenisse eccessivo».
[44] G. Scaccia, L’equilibrio di bilancio fra Costituzione e vincoli europei, in Osservatoriosullefonti.it, 2 (2013), p. 19: «Se […] si rimuove lo specchio deformante dell’ideologia e ci si limita ad analizzare freddamente le norme europee, internazionali e costituzionali che pongono vincoli alle decisioni di bilancio, ci si avvede facilmente che esse sono norme debolmente prescrittive, porose a valutazioni e apprezzamenti di ordine politico, se non appositamente costruite per ammettere continue eccezioni alla regola che hanno appena posto».
[45] O. Chessa, Fondamenti e implicazioni della norma costituzionale sul pareggio di bilancio, in A. Ruggeri (a cura di), Scritti in onore di Gaetano Silvestri, Giappichelli, 2016.
[46] Per citare solo uno fra i primissimi interventi critici, si veda anche F. Bilancia, Note critiche sul c.d. “pareggio di bilancio”, in Rivista AIC, 2 (2012), p. 3, secondo cui «a fronte di una disciplina di bilancio che, nel testo originario della Costituzione […], non comprometteva la scelta per un determinato modello sociale, l’attuale proposta di revisione determinerà radicali mutamenti nella forma di Stato, per i significativi riflessi che la scelta di costituzionalizzazione della opzione di politica economica implicata dalle formule normative richiamate determinerà sul sistema delle autonomie regionali e locali e sulla garanzia dei diritti fondamentali in effettiva condizione di eguaglianza. La gestione della crisi finanziaria mondiale e di sostenibilità del debito pubblico italiano […] viene pertanto assunta quale strumentale occasione per modificare a regime la forma di Stato ponendo le premesse giuridiche per il superamento, di fatto, dell’impianto sociale dell’economia di mercato».
[47] Cfr. ivi, pp. 569-570. Sull’ultimo punto, l’assenza di disciplina relativa alla c.d. golden rule, mostra perplessità critica anche M. Luciani, L’equilibrio di bilancio, cit., pp. 24-25.
[48] M. Degni, P. De Ioanna, cit., p. 121.
[49] Cfr. G. Pisauro, La regola del pareggio di bilancio tra fondamenti economici e urgenze della crisi, in AA.VV., Crisi economica e trasformazioni della dimensione giuridica, (a cura di) R. Bifulco e O. Roselli, Quaderni CESIFIN (ns), Giappichelli, 2013, p. 128.
[50] Cfr. A. Petretto, Costituzionalizzazione dell’equilibrio di bilancio, stabilità e crescita economica, in AA.VV., Crisi economica e trasformazioni della dimensione giuridica, cit., pp. 215-216.
[51] D’altronde, che l’impostazione generale del PSC sacrifichi la flessibilità-discrezionalità sull’altare della rigidità delle regole è un dato irrefutabile; infatti, anche chi come P. De Grauwe, Economia dell’unione monetaria, cit. p. 274, giudica buono l’obiettivo fondamentale del PSC ― la sostenibilità nel lungo periodo dei disavanzi di bilancio e dei livelli di debito ―, non manca tuttavia di osservare: «È chiaro che il PSC risente più dei timori circa dinamiche non sostenibili dei conti pubblici che del bisogno di flessibilità. Di conseguenza, è giusto dire che il PSC è sostanzialmente sbilanciato nel senso del perseguimento di regole rigide a scapito della flessibilità. Ciò crea un rischio potenziale di annullamento degli attributi di stabilizzatori automatici tipici delle manovre di bilancio, aggravando così le recessioni».
[52] Cfr. Senato della Repubblica, servizio del bilancio, Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale, Elementi di documentazione, 55 (2011), pp. 20-21.
[53] Vedi supra, par. 2.2..
[54] Senato della Repubblica, servizio del bilancio, Introduzione del principio, cit., p. 2.
[55] Ivi, p. 21.
[56] Cfr. MEF, Output gap e politiche economiche, 20 marzo 2015, in www.mef.gov.it.
[57] MEF, Output gap, cit..
[58]A. Morrone, Pareggio di bilancio, cit., p. 9.
[59] M. Degni, P. De Ioanna, cit., p. 122. Sullo stesso punto, si veda anche P. De Ioanna, Forma di governo, cit., pp. 401-402.
[60] Come ha giustamente osservato A. Brancasi, La disciplina costituzionale del bilancio: genesi, attuazione, evoluzione, elusione, in «Costituzione e pareggio di bilancio», il Filangieri – Quaderno 2011, Jovene, 2012, p. 18, il recepimento in Costituzione delle regole europee di bilancio sconta il fatto che «serve a cristallizzare ed a sottoporre ad un controllo giurisdizionale regole che a livello europeo hanno soltanto una valenza politica, per cui sono suscettibili di correzioni ed aggiustamenti e la loro violazione non è né controllata né sanzionata dalla Corte di giustizia».
[61] In tal senso, M. Nardini, La legge n. 243/2012 e l’adeguamento dell’ordinamento nazionale alle regole europee di bilancio, in Osservatoriosullefonti.it, 1 (2013), p. 9, secondo cui, il rimando all’ordinamento europeo da parte della legge attuativa, «[…], se da un lato potrebbe essere visto come un’ulteriore sottrazione di sovranità in una materia che i trattati ancora non assegnano alle istituzioni europee, dall’altro proietta le scelte di bilancio in una differente sede sovranazionale, dove saranno la forza e le capacità contrattuali degli interlocutori politici nazionali a determinare, in concreto, gli obiettivi che l’Italia sarà chiamata a perseguire».
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