Illegalità della pena: il potere di rilevarla è della Cassazione

Pur in presenza di un ricorso inammissibile, spetta alla Cassazione il potere di rilevare l’illegalità della pena

     Indice

  1. Il fatto
  2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione
  3. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite
  4. Conclusioni

1. Il fatto

La Corte di Appello di Caltanissetta confermava una decisione di primo grado che, nell’assolvere l’imputato dai reati di minaccia e di incendio per insussistenza del fatto, l’aveva condannato alla pena di tre mesi di reclusione, avendolo ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 582 cod. pen..

Ciò posto, avverso tale sentenza, nell’interesse dell’imputato, era stato proposto ricorso affidato ai seguenti motivi: 1) manifesta illogicità, carenza e contraddittorietà della motivazione, con riguardo alla ritenuta sussistenza dell’elemento oggettivo del reato; 2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla richiesta di mitigazione del trattamento sanzionatorio, con particolare riferimento al diniego delle circostanze attenuanti generiche.

2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione 

La Settima Sezione, in esito alla camera di consiglio tenutasi nel mese di dicembre del 2021, aveva disposto la restituzione degli atti alla Quinta Sezione penale, rilevando l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine al rapporto tra cause di inammissibilità del ricorso per ragioni diverse dalla tardività e rilevabilità d’ufficio della pena illegale.

Detto questo, dal canto suo, il Coordinatore dell’Ufficio spoglio della Quinta Sezione segnalava al Presidente aggiunto, per l’eventuale esercizio dei poteri di cui all’art. 610 comma 2, cod. proc. pen., la trattazione del ricorso, in ragione del contrasto insorto in presenza di ricorso per Cassazione inammissibile per ragioni diverse dalla tardività dello stesso, l’illegalità della pena, in quanto di specie diversa rispetto a quella di legge o inflitta in misura superiore al massimo edittale, al di fuori delle ipotesi in cui ciò derivi da sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della relativa norma e/o da mutamento normativo in melius della stessa.

3. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite 

Le Sezioni Unite rinvenivano un contrasto, nei termini prospettati dalla sezione rimettente, nei seguenti termini: “Se, in presenza di ricorso per cassazione inammissibile per ragioni diverse dalla tardività dello stesso, la Corte di cassazione possa rilevare ex officio la illegalità della pena in quanto di specie diversa rispetto a quella di legge o inflitta in misura superiore al massimo edittale, al di fuori delle ipotesi in cui ciò derivi da sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della relativa norma e/o da mutamento normativo in melius della stessa”.

Invero, si registravano due diversi orientamenti nomofilattici.

Secondo un primo approdo ermeneutico, che ha origini risalenti, la rilevabilità d’ufficio, indipendentemente dalla deduzione di specifiche doglianze in sede di impugnazione, dell’illegittimità della pena incontra il limite della preclusione processuale derivante dall’inammissibilità del gravame, che impedisce il passaggio del procedimento all’ulteriore grado di giudizio ed inibisce la cognizione della questione.

Secondo un diverso indirizzo interpretativo, invece, deve ritenersi prevalente l’esigenza di porre rimedio all’illegalità della pena, pur a fronte della carenza dei requisiti di ammissibilità del ricorso.

Orbene, le Sezioni Unite, nella decisione qui in esame, ritenevano preferibile il secondo orientamento nomofilattico sulla scorta di plurime e ben argomentate considerazioni giuridiche e, tra queste, quelle, da cui maggiormente si evince l’adesione a tale filone interpretativo, sono rinvenibili nei seguenti passaggi motivazionali.

In particolare, una volta preso atto che le Sez. U., nella decisione n. 6240 del 27/11/2014, hanno sottolineato l’esistenza del potere del giudice dell’esecuzione di rimuovere gli effetti dell’applicazione di una pena accessoria illegale, sempre che quest’ultima non derivi da un errore valutativo del giudice della cognizione, si evidenziava come da ciò tali Sezioni avessero tratto quello che, nel caso di specie, appariva essere di decisivo rilievo ovvero, che nell’attuale fase di sviluppo dell’ordinamento giuridico, la questione centrale non è se la regola della intangibilità del giudicato trovi deroghe, perché ciò è ormai un dato acquisito, bensì «quello di verificare se si sia verificata una lesione di un diritto o di una garanzia fondamentale della persona che giustifichi una limitazione della sua intangibilità pur formalmente prevista».

Soprattutto un profilo, che le Sezioni Unite ritenevano particolarmente importante nella fattispecie in esame, a loro avviso, assume significato sistematico in un’altra sentenza adottata sempre dalle Sezioni Unite, nella sentenza n. 46653/2015, vale a dire la considerazione secondo cui la rilevanza della modifica normativa in mitius sopravvenuta, ai fini della giustificazione dell’intervento officioso del giudice, prescinde dalla possibilità o non dell’imputato di denunciare il vizio, sia pure con motivi aggiunti posto che, nel punto 15.2 della sentenza appena citata, si legge testualmente quanto segue: «Ritengono peraltro le Sezioni Unite che questa violazione della disciplina sostanziale applicabile possa essere rilevata d’ufficio dal giudice di legittimità anche se l’imputato con il ricorso originario (o con motivi nuovi o memorie) non abbia proposto alcun motivo riguardante la pena né alcuna ragione di critica alla sua determinazione da parte del giudice del rinvio pur dopo le rilevanti modifiche normative intervenute successivamente alla sentenza di conferma della condanna».

Accanto agli argomenti tratti dall’art. 2, quarto comma, cod. pen., si coglie, pertanto, per la Corte di legittimità, nella sentenza in esame, una puntualizzazione determinante ricavata dall’inquadramento della violazione sopravvenuta in esame tra le violazioni dei diritti fondamentali della persona che impongono anche al giudice, in base alla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, di eliminarne le conseguenze; e tra queste violazioni deve essere inclusa, per le ragioni già indicate, l’applicazione di un trattamento sanzionatorio sfavorevole in presenza di innovazioni normative che l’hanno mitigato, fermo restando che si ispirano a principi analoghi quelli espressi dalle Sez. U, nella pronuncia n. 33040 del 28/07/2015, secondo la quale l’illegalità della pena conseguente a dichiarazione d’incostituzionalità di norme riguardante il trattamento sanzionatorio è rilevabile d’ufficio nel giudizio di cassazione anche in caso di inammissibilità del ricorso, salva l’ipotesi di tardività.

Ciò posto, gli Ermellini, a questo punto della disamina, stimavano altresì necessario delimitare il concetto di illegalità della pena, che richiede particolare rigore esegetico, correlato alla esatta delimitazione dei problemi da risolvere, fermo restando che, nel caso di rilievo officioso, la nozione generale è operativamente destinata a misurarsi con il divieto di reformatio in pejus che impedisce, in assenza di impugnativa del P.M., un intervento sulla pena inferiore al minimo previsto dalla legge atteso che in giurisprudenza è emersa anche un’accezione estesa di ‘pena illegale’, destinata a far riferimento al trattamento sanzionatorio concretamente modulato all’esito del processo.

Chiarito ciò, gli Ermellini osservavano altresì come il principio di legalità della pena sia fondato, nel nostro ordinamento, su una pluralità di fonti normative, il che veniva rappresentato nei seguenti termini: “A livello interno, gli artt. 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost. costituiscono i due pilastri sui quali poggia il principio di legalità della pena: quest’ultima può essere irrogata solo in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso e deve tendere alla rieducazione del reo, non potendo consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Nel confrontarsi con il significato di tali previsioni, la Corte costituzionale ha chiarito che «l’art. 25, secondo comma, della Costituzione […] affermando che nessuno può essere punito se non in forza di legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, non soltanto proclama il principio della irretroattività della norma penale, ma dà fondamento legale alla potestà punitiva del giudice. E poiché questa potestà si esplica mediante l’applicazione di una pena adeguata al fatto ritenuto antigiuridico, non si può contestare che pure la individuazione della sanzione da comminare risulta legata al comando della legge», senza che rilevi la soppressione, in sede di formulazione definitiva della norma, della frase «e con le pene da essa stabilite» compiuta, per altri fini, dal Costituente (Corte cost., sent. n. 15 del 1962). Appare centrale, ai fini che qui rilevano, la considerazione che è la previsione legale della pena, secondo la Costituzione, a fondare la stessa potestà punitiva del giudice. Si tratta di una valorizzazione centrale, perché dimostra l’esistenza di limiti all’esercizio del potere pubblico il cui superamento non può essere tollerato dall’ordinamento per la centralità che la Carta costituzionale assicura ai diritti fondamentali della persona, tra i quali si colloca, il fondamentale diritto di libertà personale garantito dall’art. 13 Cost., in condizioni di uguaglianza per tutti i consociati (art. 3 Cost.). (…) A livello sovranazionale, sul fondamento dell’art. 7, § 1, secondo periodo, della CEDU («Non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato»), la Corte di Strasburgo ha sottolineato la necessità di garantire una «protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie», chiarendo altresì che la norma in questione «non si limita a proibire l’applicazione retroattiva del diritto penale a detrimento dell’imputato», ma consacra in via generale «il principio di legalità in ordine ai diritti e alle pene, e quello che impone la non applicazione estensiva o analogica della legge penale a detrimento dell’imputato (Corte EDU, GC, 21/10/2013, Del Rio Prada c. Spagna, § 78). Il principio di legalità della pena si rinviene, peraltro, anche nell’art. 49, § 1, della Carta di Nizza (il § 3 opera un significativo riferimento al principio della proporzionalità della pena rispetto al reato) e nell’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881, il quale, oltre a prevedere espressamente il canone del nullum crimen, nulla poena sine lege, impone anche l’obbligatoria applicazione al colpevole della pena sopravvenuta più favorevole”.


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Ebbene, concluso questo excursus normativo, i giudici di piazza Cavour notavano come, in siffatta cornice, si collochi la giurisprudenza della Cassazione che ha tradizionalmente elaborato il principio in forza del quale, nell’ipotesi in cui il giudice abbia irrogato una sanzione superiore ai limiti edittali, ovvero più grave per genere o specie di quella prevista in astratto dalla fattispecie incriminatrice, la Corte di Cassazione deve – anche di ufficio – annullare la sentenza impugnata, qualora non possa direttamente provvedere a rideterminare la pena (Sez. 2, n. 22494 del 25/05/2021, la quale ha sottolineato come si tratti di un potere officioso esercitabile solo in bonam partem, ossia nei casi nei quali l’errore sia avvenuto in danno dell’imputato, posto che la pena favorevole al reo può essere corretta dalla Corte di Cassazione solo in presenza di impugnazione del pubblico ministero) e, operandosi in tal guisa, è stata delineata una nozione circoscritta di pena illegale che, senza investire i modi del concreto esercizio del potere discrezionale assegnato al giudice di merito (e, pertanto, senza coinvolgere i profili di erronea applicazione dei criteri commisurativi), ha riguardo ai confini che segnano, nel quadro della legalità costituzionale, il fondamento della potestà punitiva imponendo, rispetto al risultato di tutela dei diritti fondamentali, una coerente lettura del sistema processuale.

Da ciò se ne faceva discendere come rientri in tale nozione la sanzione non prevista dall’ordinamento giuridico ovvero superiore ai limiti previsti dalla legge o ancora più grave per genere o specie di quella individuata in astratto dal legislatore.

Pertanto, proprio l’immanenza, rispetto alla disciplina processuale, dei valori espressi dalla Carta fondamentale in tema di protezione della libertà personale e di individuazione delle funzioni della pena, ad avviso della Suprema Corte, rende costituzionalmente imposto l’intervento officioso del giudice, anche in caso di inammissibilità dell’impugnazione, al fine di rimuovere l’applicazione di pene illegali, nel senso sopra circoscritto, fermo restando che le Sezioni Unite ritenevano come la nozione di pena illegale non possa estendersi sino al punto da includere profili incidenti sul regime applicativo della sanzione, a meno che ciò non comporti la determinazione di una pena estranea all’ordinamento per specie, genere o quantità; in altri termini, per la Corte di legittimità, la pena è illegale, ai fini qui rilevanti del rilievo officioso anche in caso di inammissibilità del ricorso, non quando consegua ad una mera erronea applicazione dei criteri di determinazione del trattamento sanzionatorio, alla quale l’ordinamento reagisce approntando i rimedi processuali delle impugnazioni, ma solo quando non sia prevista dall’ordinamento giuridico ovvero sia superiore ai limiti previsti dalla legge o sia più grave per genere e specie di quella individuata dal legislatore.

In definitiva, è necessario che la nozione di pena illegale venga calibrata sulla sua funzione di rappresentare l’altro polo del giudizio di bilanciamento da operare in relazione alle garanzie sottese al giudicato, ossia quale limite estremo di tutela della libertà personale esposta al rischio di un arbitrio che travalichi i limiti del potere sanzionatorio riconosciuto al giudice, rilevandosi al contempo come tale conclusione si imponga in quanto «irrogare una sanzione diversa per specie e/o quantità rispetto ai confini edittali impegna il valore costituzionale della legalità della pena di cui all’art. 25 Cost., che resterebbe vulnerato se non si potesse porre rimedio, anche d’ufficio, all’errore del giudice del grado precedente» (Sez. 2, n. 12991 del 19/02/2013; così anche Sez. 5, n. 44897 del 30/09/2015; Sez. 1, n. 33326 del 14/02/2017; Sez. 1, n. 40896 del 28/03/2017).

Il Supremo Consesso, di conseguenza, alla stregua di ciò, concludeva nel senso che la pena che non sia prevista, nel genere, nella specie o nella quantità, dall’ordinamento, è una pena che attesta un abuso del potere discrezionale attribuito al giudice, con l’usurpazione dei poteri esclusivi del legislatore e, pertanto, il rilievo dell’illegalità della pena, anche ab origine, deve prevalere sul giudicato sostanziale, in tal modo venendosi ad ampliare la casistica, già elaborata dalla giurisprudenza sopra ricordata, delle eccezioni alla regola dell’intangibilità del giudicato.

Chiarito ciò, le considerazioni sin qui esposto rendevano necessario, per le Sezioni Unite, confrontarsi, a questo punto della disamina, con le conclusioni di Sez. U, n. 47766 del 26/05/2015, che, nel solco dei principi affermati dalle Sez. U., nella decisione n. 6240 del 27/11/2014, che, in relazione alle pene accessorie, hanno ribadito che l’illegalità della pena non può essere rilevata ex officio se il ricorso è tardivo, pur essendo deducibile davanti al giudice dell’esecuzione, adito ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen..

In particolare, per i casi di inammissibilità del ricorso proposto avverso sentenze applicative di pena illegale, le Sez. U., nella pronuncia n. 47766/2015, hanno ritenuto consentito l’intervento del giudice dell’esecuzione – nell’esercizio dei poteri suppletivi riconosciuti dall’art. 183 disp. att. cod. proc. pen. – solo nel caso in cui l’omissione non sia derivata da un errore valutativo del giudice della cognizione, e solo ove la sanzione da applicare sia determinata per legge, ovvero sia determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata mentre, al contrario, siffatto intervento sarebbe precluso ove fosse necessario – come quando si tratti di ricalibrare la sanzione nei termini flessibili emergenti dall’art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000 – esprimere apprezzamenti discrezionali in ordine alla scelta della specie e della durata della pena che, a loro volta, finirebbero per rendere il giudice della esecuzione tributario di una cognizione non dissimile da quella che caratterizzerebbe il munus del giudice del rinvio a seguito di annullamento, da parte del giudice della legittimità, della pena illegalmente applicata nei gradi di merito.

Le Sezioni Unite, sempre nella pronuncia n. 47766/2015, hanno, pertanto, concluso nel senso che «una simile rimodulazione della pena, lungi dal porsi come mera opera di nuova commisurazione o sostituzione matematicamente scontata, rispetto a quello che costituisce oggetto del trattamento illegale applicato dal giudice della cognizione, si pone quale complessivo nuovo giudizio, del tutto eccentrico rispetto al pur accresciuto ambito entro il quale può trovare spazio l’intervento del giudice della esecuzione».

Orbene, le Sezioni Unite, nella sentenza qui in commento, consideravano che quest’ultima puntualizzazione sia da ritenersi ormai superata in ragione degli ampi poteri di intervento attribuiti al giudice dell’esecuzione, come riconosciuto dalla citata sentenza n. 42858/2014 – le cui conclusioni sono pur ampiamente richiamate nella decisione n. 47766/2015 – e come confermato dalla giurisprudenza successiva della stessa Cassazione, come si vedrà da qui a poco.

In sostanza, da un lato, veniva ribadito che il sindacato del giudice dell’esecuzione non investe questioni che riguardino la fase di cognizione, compresi i vizi procedurali denunciabili unicamente con i mezzi d’impugnazione: quelli ordinari, esperibili sino alla conclusione del processo di cognizione; quelli straordinari attivabili dopo l’irrevocabilità del provvedimento conclusivo del giudizio nei casi previsti dalla legge con l’effetto, se fondati ed accolti, di determinare la riapertura del processo nella fase cognitiva (Sez. U, n. 15498 del 26/11/2020).

Per altro verso, per la Corte di legittimità, si deve prendere atto che, ferma la distinzione dei presupposti di operatività dei rimedi, il procedimento esecutivo conosce, come ricordato dalle Sez. U., nella decisione n. 42858/2014, «un’articolata serie di funzioni finalizzate all’attuazione del principio costituzionale dell’adeguatezza della pena nella prospettiva della sua umanizzazione e della rieducazione del condannato», secondo la nitida affermazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., che si accompagna all’attribuzione al giudice di «penetranti strumenti d’intervento, che consentono sostanziali modificazioni del debito punitivo nella sua struttura e nelle concrete modalità del relativo adempimento» (Sez. 3, n. 13651 del 20/02/2002, richiamata dalla sentenza n. 42858/2014).

Rispetto a siffatta cornice, saldamente ancorata all’esigenza costituzionalmente imposta di legalità della pena, per i giudici di piazza Cavour, non risulta convincente, nella sua assolutezza, l’affermazione di cui alla sentenza n. 47766/2015, sulla scia, sullo specifico punto, di un’argomentazione sempre contenuta in questa pronuncia per la quale al giudice dell’esecuzione sarebbe preclusa la rimodulazione del trattamento sanzionatorio illegalmente applicato ai reati di competenza del giudice di pace posto che il modello sanzionatorio, previsto dal legislatore per siffatti reati dal d.lgs. n. 274 del 2000, e gli istituti processuali correlati, impongono una valutazione contenutistica di tutti i parametri di commisurazione del trattamento sanzionatorio alla luce delle risultanze processuali destinate ad incidere non soltanto sulla quantità del trattamento, ma anche sulla specie della sanzione da applicare, tenendo anche conto delle richieste dello stesso imputato, dal momento che il lavoro di pubblica utilità può essere applicato solo su richiesta dell’imputato, a norma dell’art. 54, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000.

Tal che se ne faceva conseguire che una simile rimodulazione della pena, lungi dal porsi come mera opera di nuova commisurazione o sostituzione matematicamente scontata, rispetto a quello che costituisce oggetto del trattamento illegale applicato dal giudice della cognizione, si pone quale complessivo nuovo giudizio del tutto eccentrico rispetto al pur accresciuto ambito entro il quale può trovare spazio l’intervento del giudice della esecuzione.

In effetti, il tema dei limiti dei poteri di intervento del giudice dell’esecuzione, rispetto a decisioni ormai irrevocabili, per la Corte di legittimità, va ricostruito, alla luce degli sviluppi giurisprudenziali, in termini più articolati.

Così, ad es., si è ritenuto – sia pure con riguardo ad una ipotesi di illegalità sopravvenuta, ma con considerazioni suscettibili di essere estese anche all’ipotesi in esame – che, in tema di rideterminazione della pena inflitta con sentenza irrevocabile di condanna per il reato di cui all’art. 73, comma 1, c 1. DPR. 9 ottobre 1990, n. 309, il giudice dell’esecuzione, in applicazione della disciplina più favorevole determinatasi per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, è vincolato alle statuizioni del giudice della cognizione relative al riconoscimento delle circostanze, al giudizio di comparazione e alla riduzione della pena per il rito, ma non rispetto a quelle concernenti la determinazione della pena base e l’entità della diminuzione per le attenuanti generiche, trattandosi di aspetti che attengono alla commisurazione in concreto della pena rispetto al mutato parametro legale (v., di recente, Sez. 1, n. 22215 del 10/01/2022), così pure si è ritenuto precluso al giudice dell’esecuzione, chiamato a rideterminare per le stesse ragioni imposte da Corte cost. n. 40 del 2019, la pena inflitta con sentenza irrevocabile di patteggiamento, di applicare, in assenza di accordo tra le parti, una riduzione per la scelta del rito diversa da quella concordata ed applicata in fase di cognizione (Sez. 1, n. 21815 del 07/07/2020).

Tuttavia, impregiudicate le irretrattabili conclusioni del giudice della cognizione nell’individuazione dei parametri astratti di riferimento attorno ai quali determinare la pena da applicare, per le Sezioni Unite, il giudice dell’esecuzione provvede ad una rimodulazione autonoma del trattamento sanzionatorio potendo persino giungere a quantificare la diminuzione di pena per le concesse circostanze attenuanti generiche in misura proporzionalmente inferiore a quella stabilita in sede di cognizione atteso che tale giudice è chiamato a rinnovare l’intera valutazione in ordine alla commisurazione della pena attraverso la discrezionale rideterminazione sia della pena-base che della diminuzione per le menzionate attenuanti, quantificando in concreto siffatta diminuzione alla luce del sopravvenuto mutamento della cornice edittale quale nuovo indicatore astratto del disvalore del fatto (Sez. 1, n. 4085 del 26/11/2019).

Da ciò se ne faceva discendere che, nel rispetto delle regole processuali delineate dal legislatore (ad es., il lavoro di pubblica utilità potrà essere applicato solo su richiesta del destinatario, ai sensi dell’art. 54, comma 1, d.lgs. n. 274 del 2000), non è ravvisabile alcuna ragione che impedisca al giudice dell’esecuzione di provvedere alla rimodulazione del trattamento sanzionatorio illegale, anche se all’esito di valutazioni che investono, prima ancora che la quantificazione, la stessa individuazione di una pena all’interno del catalogo individuato dal citato d.lgs. n. 274 del 2000.

Se, pertanto, deve riconoscersi al giudice dell’esecuzione il potere di intervenire a porre rimedio ai casi di illegalità della pena quali sopra individuati, per gli Ermellini, deve coerentemente essere conferito tale potere al giudice della cognizione al fine di anticipare gli esiti obbligati della fase esecutiva.

In altri termini, a giudizio delle Sezioni Unite, occorre prendere atto che l’elaborazione giurisprudenziale sin qua maturata a proposito del rilievo officioso dell’illegalità della pena, sia pure per cause sopravvenute, trova il suo fondamento nell’incompatibilità con il quadro costituzionale di un sistema processuale che consenta il mantenimento di una penale illegale, nel senso sopra indicato, intesa come sanzione non prevista dall’ordinamento giuridico ovvero eccedente, per specie e quantità, il limite legale.

Alla luce delle argomentazioni fin qui esposte, la questione oggetto di rimessione veniva pertanto risolta enunciando il seguente principio di diritto: «Pur in presenza di un ricorso inammissibile, spetta alla Corte di cassazione, in attuazione degli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost., il potere di rilevare l’illegalità della pena determinata dall’applicazione di sanzione ab origine contraria all’assetto normativo vigente».

4. Conclusioni

La decisione in esame risolve il seguente contrasto giurisprudenziale: “Se, in presenza di ricorso per cassazione inammissibile per ragioni diverse dalla tardività dello stesso, la Corte di cassazione possa rilevare ex officio la illegalità della pena in quanto di specie diversa rispetto a quella di legge o inflitta in misura superiore al massimo edittale, al di fuori delle ipotesi in cui ciò derivi da sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della relativa norma e/o da mutamento normativo in melius della stessa”.

Difatti, in tale pronuncia, come già detto, sulla scorta di un lungo e articolato ragionamento giuridico, le Sezioni Unite hanno postulato il seguente principio di diritto: “Pur in presenza di un ricorso inammissibile, spetta alla Corte di cassazione, in attuazione degli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost., il potere di rilevare l’illegalità della pena determinata dall’applicazione di sanzione ab origine contraria all’assetto normativo vigente”.

Pertanto, alla luce di questo arresto giurisprudenziale, la Cassazione può rilevare l’illegalità della pena, determinata dall’applicazione di sanzione ab origine contraria all’assetto normativo vigente, anche nel caso in cui sia proposto un ricorso dichiarato inammissibile.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché fa chiarezza su tale tematica procedurale sotto il profilo giurisprudenziale, dunque, non può che essere positivo.

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