Collaborazione Stato-Regioni nella gestione della pandemia

La gestione della pandemia presuppone una gestione congiunta tra Stato e Regioni,  che si inserisce in un contesto normativo costituzionale e ordinario.  A livello di fonti costituzionali, l’art.32 Cost. eleva il diritto alla salute come un interesse di rilievo individuale e collettivo rispetto al quale non deve sacrificarsi eccessivamente la dimensione individuale da quella collettiva e viceversa. Si segnala poi, l’articolo 117 della Costituzione, che al comma 3 annovera il diritto alla salute tra le materie devolute alla legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Norma di sintesi e chiusura è quanto dispone l’articolo 120, co. 2 della Costituzione che disciplina il potere sostitutivo del Governo tipizzandone i presupposti. Relativamente alle fonti della legislazione ordinaria, invece, occorre considerare l’articolo 32 della legge n. 833/1978 istitutiva del Servizio sanitario nazionale, e l’articolo 117 del decreto legislativo n. 117/1998, che ripartiscono tra il Ministero della Salute, i Sindaci e i Presidenti delle Giunte regionali la competenza ad emanare ordinanze contingibili e urgenti in materia di igiene e sanità pubblica rispettivamente sul territorio nazionale e su quello regionale (e comunale).
Infine, il decreto legislativo n. 1/2018 disciplina il codice della Protezione civile regolando il ruolo e i poteri del Presidente del Consiglio nell’adottare ordinanze di protezione in materia di salute pubblica, anche attraverso il coinvolgimento dei governi regionali.

Indice

1. Le fasi della collaborazione Stato-Regioni nella gestione pandemica


Nell’ambito della gestione dell’emergenza si possono individuare tre fasi che hanno visto una diversa possibilità di intervento, dello Stato e delle Regioni, e una differente configurazione dell’assetto dei loro rapporti. Quali sono le dinamiche del rapporto Stato-Regioni ai tempi del Covid? E quali correttivi occorre apportare per garantire una efficace collaborazione tra i diversi livelli territoriali di governo, a garanzia della certezza del diritto?

2. Fase 1: il decreto legge 23 febbraio, n. 6 e il decreto legge 25 marzo 2000, n. 19


Nella prima fase, l’emergenza è stata affrontata, a livello statale, attraverso l’adozione di due decreti-legge, volti a restringere le libertà, fino ad arrivare a introdurre il lockdown su tutto il territorio nazionale: il decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 e il decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19. Da questi due decreti emerge la volontà del Governo di svolgere un ruolo forte e unitario nella gestione dell’emergenza, attraverso lo strumento dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (DPCM), prevedendo misure volte a chiudere attività e limitare le libertà su tutto il territorio nazionale in maniera generalizzata. Il decreto-legge n. 6/2020 ha disciplinato il ruolo del Governo e delle Regioni nell’adottare i provvedimenti emergenziali e i reciproci rapporti. Per un verso, il decreto prevedeva che le misure di contenimento e gestione dell’emergenza fossero adottate dal Presidente del Consiglio dei ministri con uno o più decreti, a seguito di una semplice consultazione delle Regioni. Per altro verso, il decreto autorizzava i Presidenti delle Regioni e i Sindaci a emanare, anche nella fase emergenziale, ordinanze in materia sanitaria, sulla base della legislazione preesistente (sopra esaminata). Il decreto ha previsto, però, limiti piuttosto stringenti a tale potere di ordinanza: esso poteva essere esercitato solamente fino all’adozione di decreti del Presidente del Consiglio dei ministri e nei soli casi di “estrema necessità e urgenza”. Il decreto in esame lasciava alle Regioni e ai Comuni la discrezionalità di adottare, in maniera generica, “ulteriori misure”, a livello locale, senza alcuno previo controllo o obbligo di collaborazione con lo Stato. Di conseguenza, nel periodo successivo al decreto n. 6/2020 sono state adottate, da parte dei Presidenti delle Regioni e dei Sindaci, molte ordinanze contingibili e urgenti. In particolare, numerose ordinanze regionali hanno disposto misure più restrittive della libertà dei cittadini rispetto a quelle statali, perché ritenute, queste ultime, insufficienti a fronteggiare le specificità dei rispettivi territori. Questa situazione ha creato tensioni nei rapporti tra il Governo e alcuni Regioni (in particolare con la Lombardia e la Campania) già nei primi giorni della gestione dell’emergenza.
Il decreto-legge n. 19/2020 ha  meglio definito l’assetto dei rapporti tra Stato e Regioni. Quanto ai poteri governativi, è stata confermata la competenza del Presidente del Consiglio dei ministri ad adottare decreti contenenti misure di contenimento di diffusione del virus, sentiti i Presidenti delle Regioni o il Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, a seconda del territorio interessato. Quanto, invece, alla possibilità di interventi regionali, il decreto ne ha limitato la portata, individuando limiti più stringenti al potere di ordinanza delle Regioni. È stata infatti prevista la possibilità per le Regioni di introdurre misure ulteriormente restrittive, rispetto a quelle previste dal decreto, solamente nell’ambito delle attività di loro competenza (con l’esclusione delle attività produttive e di rilevanza strategica per l’economia nazionale) ed esclusivamente nell’ipotesi di un aggravamento del rischio sanitario sui loro territori (o in una parte di essi). È stato altresì confermato che le ordinanze regionali possono essere adottate soltanto nelle more dell’adozione di un Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri e che, successivamente, esse perdono la loro efficacia. Il decreto, infine, a differenza di quello precedente, ha previsto che, nelle more dell’adozione del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, la competenza ad adottare atti, con efficacia limitata fino a tale momento, in casi di “estrema necessità e urgenza”, per situazioni sopravvenute, è del Ministro della salute e non più del Presidente della Regione e del Sindaco. Nemmeno il decreto-legge n. 19/2020, tuttavia, similarmente a quello precedente, ha definito esattamente i presupposti e i limiti per l’adozione di provvedimenti regionali ed eventuali forme di collaborazione preventiva con lo Stato. Per questa ragione, le Regioni hanno continuato ad adottare ordinanze, introducendo, in molti casi, ulteriori limitazioni rispetto a quelle previste a livello statale, ritenendo, alcuni Presidenti di Regione, inadeguate e insufficienti le misure contenute nei provvedimenti governativi. Alcune di queste ordinanze, peraltro, non hanno rispettato i limiti individuati dal decreto-legge n. 19/2020, essendo state adottate anche nei casi in cui, in realtà, non vi erano situazioni di aggravamento della situazione sanitaria. Ciò ha ulteriormente inasprito i rapporti tra il Governo e le Regioni (in particolare con le Regioni Marche, Campania, Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia e Abruzzo).


Potrebbero interessarti anche

3. Fase 2: il decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33


Con l’avvio della c.d. “fase 2”, nell’ottica di un allentamento delle misure emergenziali, la normativa statale ha delineato un diverso assetto dei rapporti tra Stato e Regioni per far fronte alla pandemia, maggiormente improntati alla collaborazione.
Il decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, ha disposto che, dal 18 maggio al 31 luglio 2020, con decreti e ordinanze statali, regionali o comunali, potevano essere disciplinati gli spostamenti delle persone e le modalità di svolgimento delle attività economiche, produttive e sociali. In questo quadro, sono stati attribuiti maggiori poteri di monitoraggio dell’epidemia in capo alle Regioni e la possibilità di adottare, di conseguenza, adeguati provvedimenti. Da un lato, le Regioni sono state chiamate a monitorare giornalmente l’andamento della situazione epidemiologica dei propri territori e comunicare i relativi dati al Ministro della salute, all’Istituto Superiore di Sanità e al Comitato tecnico-scientifico istituito presso il Dipartimento della Protezione Civile. Dall’altro lato, il decreto n. 33 del 2020 attribuiva alle Regioni la possibilità, in relazione all’andamento della situazione epidemiologica sui propri territori, e nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, di introdurre misure derogatorie, ampliative o restrittive, rispetto a quelle disposte a livello statale. La normativa in esame, pertanto, ha previsto un maggiore decentramento decisionale rispetto ai mesi precedenti.

4. Fase 3: DPCM 3 novembre 2020. L’istituzione delle zone di colore.


La terza fase della gestione della pandemia è iniziata nel mese di novembre del 2020, in concomitanza all’aumento dei casi di Covid. Di fronte all’aggravarsi della situazione pandemica, sono stati adottati provvedimenti non più finalizzati, come nella prima fase dell’emergenza, a chiudere le attività e limitare le libertà in maniera generalizzata.
Si è, infatti, ritenuto che ciò non fosse più sostenibile dal punto di vista economico e che, peraltro, l’organizzazione sanitaria fosse maggiormente in grado, rispetto ai mesi precedenti, di gestire l’emergenza. Pertanto, si sono progressivamente previsti i cd. minilockdown territoriali con forti limitazioni delle libertà e delle attività economiche, produttive e sociali. Con l’adozione del DPCM 3 novembre 2020 è stato adottato un modello nazionale di gestione dell’emergenza: sono state dettate regole nazionali da applicare sull’intero territorio del Paese, modulabili in aree di diverso colore (giallo, arancione e rosso), corrispondenti a differenti livelli di criticità nelle Regioni e per le quali sono previste restrizioni crescenti in rapporto al rischio. Le zone di rischio sono determinate sulla scorta di dati forniti dalle Regioni sulla base del cd. indice Rt (cioè l’indice di contagiosità) e di altri fattori di pericolo (fattori, tra cui, ad esempio, il tasso di occupazione delle terapie intensive). Il coinvolgimento delle Regioni nell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri è garantito attraverso la partecipazione alle decisioni della Cabina di regia e dall’iter procedimentale che prevede di sentire il Presidente della Conferenza delle Regioni. Similarmente, le ordinanze del Ministro della salute sono adottate sentiti i Presidenti delle Regioni interessate, sulla base del Documento di “Prevenzione e risposta a COVID-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-invernale” e dei dati elaborati dalla Cabina di regia. Nel caso, invece, di ordinanze del Ministro della salute che esentano alcune parti del territorio regionale dal rispetto di alcune misure statali, in ragione dell’andamento di rischio epidemiologico, è prevista un’intesa con la Regione interessata. Nell’ambito di questo modello di gestione nazionale dell’emergenza, alle Regioni è stato, comunque, affidato un significativo ruolo di monitoraggio e la possibilità di adottare misure più restrittive rispetto a quelle statali. Il DPCM 14 gennaio 2021 ha introdotto anche la possibilità di prevedere una “zona bianca” – che si aggiunge a quelle già individuate (gialla, arancione e rossa) – in cui, a fronte di un forte calo dei contagi e di un basso rischio, possono riprendere quasi tutte le attività e non trovano più applicazione le misure restrittive adottate per combattere il coronavirus. Anche nella zona bianca possono, comunque, essere adottate, sempre con DPCM, misure restrittive ad hoc legate alle attività rilevanti dal punto di vista epidemiologico. Pertanto, è previsto che ogni Regione, inclusa, attraverso un’ordinanza del Ministro della salute, in una delle quattro zone (bianca, gialla, arancione e rossa), sia tenuta a rispettare regole nazionali diverse. Le Regioni hanno sempre la facoltà di emanare misure più restrittive rispetto a quelle decise dal Governo. Oltre alle misure emergenziali individuate per ogni zona, ci sono altresì limitazioni che si applicano su tutto il territorio nazionale. Queste misure sono previste dal decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44, contenente misure restrittive anti-Covid 19 applicabili fino al 30 aprile 2021. Tale decreto proroga, fino al 30 aprile 2021, l’applicazione delle disposizioni del DPCM del 2 marzo 2021 (salvo che le stesse siano in contrasto con quanto disposto dal decreto-legge stesso) e di alcune misure già previste dal decreto-legge 13 marzo 2021, n. 30 (in vigore fino al 6 aprile 2021) e introduce, tra l’altro, misure urgenti oltre che per il contenimento dell’epidemia, per la campagna vaccinale (dall’obbligo di vaccinazione per il personale medico e sanitario all’esclusione della loro responsabilità penale nei casi di somministrazione del vaccino). Anche in questa fase non sono mancati i contrasti tra le Regioni e lo Stato in merito alla gestione della pandemia. Alcune Regioni, soprattutto in un primo momento di applicazione del modello nazionale di gestione dell’emergenza, hanno contestato la corretta valutazione dei dati regionali, da parte del Governo, sulla base dei quali esso aveva deciso le diverse zone di rischio. In questo contesto, si inserisce, ad esempio, il contrasto del gennaio scorso tra il Governo e la Lombardia; quest’ultima per alcuni giorni era stata inserita in zona rossa anche quando, secondo la Regione, i dati forniti al Governo le avrebbero permesso di essere considerata arancione. La Regione Lombardia ha quindi presentato ricorso al giudice amministrativo, contro la decisione dello Stato, chiedendo la sospensiva del provvedimento statale, poi superata a seguito di un aggiornamento dei dati che ha portato il Governo a farla rientrare in zona arancione. Spesso, i Presidenti delle Regioni hanno aspramente criticato le decisioni del Governo che hanno previsto il loro inserimento in una determinata zona. La Sardegna, ad esempio, dopo la sua inclusione in zona arancione, dopo la metà di gennaio, ha presentato ricorso al giudice amministrativo contro il provvedimento statale – chiedendo una decisione immediata, prima della discussione della richiesta cautelare prevista il 17 febbraio – il quale, tuttavia, ha dato ragione allo Stato, confermando la validità dell’ordinanza del Ministro della salute di classificazione della Regione. Più in generale, poi, i Presidenti di alcune Regioni, peraltro di colore politico diverso rispetto a quello del governo allora in carica (Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Calabria, Umbria e Veneto), hanno chiesto allo Stato di rivedere le procedure per determinare il colore delle zone; essi hanno reclamato la necessità di prevedere procedure volte a garantire un maggior ruolo regionale, in merito alle scelte relative ai propri territori, e un’effettiva partecipazione all’adozione delle decisioni statali. Per altro verso, il Governo è ricorso contro la l.r. Valle d’Aosta 9 dicembre 2020, n. 11, che aveva previsto il riavvio di una serie di attività in deroga a quanto previsto dalla normativa statale. Contrasti tra il Governo e le Regioni si sono avuti anche in occasione dell’avvio della campagna vaccinale. In proposito, va premesso che le Regioni hanno un ruolo fondamentale, dal punto di vista gestionale, nella somministrazione effettiva dei vaccini, attraverso le loro strutture sanitarie, nel rispetto, comunque, delle linee guida contenute nel Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2  e nel Piano vaccinale del Commissario straordinario per l’esecuzione della campagna vaccinale nazionale, al fine di completare al più presto la campagna stessa. In questo contesto, a fronte di una differenza tra Regioni, nell’organizzare le somministrazioni delle dosi di vaccino, il Presidente del Consiglio ha mosso alcune critiche nei confronti di quelle Regioni, non identificate, che avrebbero privilegiato determinate categorie professionali rispetto a quelle degli over 80 e del personale sanitario, identificate come prioritarie a livello nazionale. Per tutta risposta, le Regioni hanno negato di aver avvantaggiato alcuni ordini professionali, dicendo di aver seguito le linee guida nazionali e che proprio queste ultime non facevano abbastanza chiarezza sulle categorie prioritarie da vaccinare. Inoltre, le Regioni hanno preteso un maggiore impegno, da parte del Governo, nel garantirsi gli approvvigionamenti di dosi di vaccino dall’Unione europea. Successivamente, il Presidente del Consiglio e il Presidente della Conferenza delle Regioni hanno avuto modo di sottolineare la necessità di una concreta collaborazione tra Stato e Regioni per velocizzare la campagna vaccinale. Ciò anche in ragione del fatto che vi sono differenze tra le diverse Regioni, nella somministrazione dei vaccini, rendendo necessario un supporto statale a quelle Regioni che sono maggiormente in ritardo e in difficoltà.

5. Prospettive di riforma nel rapporto Stato-Regioni


L’analisi finora condotta porta a ritenere che la normativa emergenziale si sia posta nell’ottica di un rapporto di tipo concorrenziale e conflittuale tra Stato e Regioni. Non vi è stata un’azione coordinata di cogestione dell’emergenza e nemmeno un effettivo coinvolgimento né delle Regioni, nell’adozione dei provvedimenti statali, né del Governo, per l’adozione di quelli regionali.
In questo contesto, appare imprescindibile una riforma del sistema bicamerale che renda effettivo il dialogo tra Stato e Regioni. Non serve una correzione del Titolo V della Costituzione ma una riforma più profonda della stessa, attraverso l’istituzione di un Senato delle autonomie o, ancor meglio, di un Senato delle Regioni (soluzione maggiormente in linea con gli esempi offerti dagli ordinamenti federali, in cui la seconda Camera permette agli enti territoriali dotati di potere legislativo di partecipare al procedimento legislativo statale, rappresentando anche gli enti locali), al fine di garantire la partecipazione di queste ultime all’approvazione delle leggi dello Stato. Ove si voglia rafforzare a livello costituzionale il sistema dei rapporti tra Stato e Regioni, obbiettivo da perseguire dovrebbe essere quello di dare attuazione ad una norma costituzionale da tempo in vigore, ma mai attuata. Si tratta dell’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 dove si prevede l’integrazione con rappresentanti regionali della Commissione bicamerale per le questioni regionali previsto dall’art. 126, 1° co., della costituzione.
Una seconda linea di intervento che l’esperienza recente viene a suggerire riguarda il rafforzamento del ruolo e della presenza degli organi “misti” esistenti quali le Conferenze Stato-Regioni e Stato-Città-Enti locali. Su questo piano va superata la prassi di affidare a meccanismi di relazione solo “politica” o di tipo informale il dialogo tra il Governo e le Regioni, mentre il sistema delle Conferenze potrebbe essere reso più efficiente sia sul piano strutturale che funzionale mediante una riorganizzazione che riunisca e semplifichi le molte sedi in cui è articolato e che, attraverso l’uso delle nuove tecnologie digitali, consenta anche forme di consultazione più tempestive. Su questo piano potrebbe essere rafforzato il ruolo delle Regioni nel concorso alla formulazione delle proposte di quei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il territorio nazionale” che la costituzione (all’art. 117, primo comma) affida alla competenza esclusiva dello Stato, ma che per il settore sanitario risultano ancora incompleti e insoddisfacenti.
Resta, infine, l’esigenza di rafforzare i poteri sostitutivi dello Stato ove la gestione regionale dell’emergenza sanitaria si presenti inadeguata. Ma anche su questo terreno esistono già gli strumenti fissati in costituzione sia nell’art. 118, primo co., cost. in base al principio di sussidiarietà che consente allo Stato di sostituirsi alle Regioni ed agli enti locali inadempimenti nell’esercizio delle funzioni amministrative; sia nell’art. 120, secondo comma, cost. che consente al Governo di sostituirsi agli organi regionali e degli altri enti locali nei casi di “pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica ovvero quando lo richiedono la tutela della unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali”.
Infine, sempre il richiamo all’art. 120 cost. – dove, al primo comma, si vieta alle Regioni di “adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose” tra i diversi territori regionali – consente di dare una sicura risposta negativa alle intenzioni che alcune Regioni hanno espresso nel corso della pandemia di voler vietare o limitare l’ingresso nei propri territori degli abitanti di altri territori esposti a maggior rischio sanitario.

FORMATO CARTACEO

Scenari e modelli di governo, organizzazione e management del sistema sanitario italiano

La storia del Servizio Sanitario Nazionale ha attraversato epoche e vicende dell’evoluzione istituzionale del nostro Paese, articolandosi lungo un percorso a tratti impervio che ha visto numerosi tentativi riformatori. La vicenda pandemica, con i suoi smottamenti sul piano sia sociale che economico, ha imposto un nuovo protagonismo alle tematiche di ambito sanitario, innescando momenti di consapevolezza mondiale, che, sul piano europeo, hanno dato la stura a politiche di riforme e di investimenti che, forse, per la prima volta, vedono l’Europa atteggiarsi ad autentica realtà comunitaria sovranazionale nell’interesse degli Stati membri. A livello di sistema Paese, le notevoli leve di impulso – di cui al Next Generation EU e al PNRR – stanno offrendo una imperdibile opzione di ripresa in termini sia di sviluppo socio-economico, sia di allineamento su ambiti fortemente valoriali, rivendicando una centralità di ruolo e risorse rispetto alle tematiche di sicurezza della collettività, di beni pubblici, di una tutela della salute accessibile, tempestiva, appropriata, omogenea ed efficace, nel solco del solidarismo forte che permea i diritti costituzionali degli artt. 3 e 32, nell’economia di un rapporto virtuoso Stato-Regioni. Il testo si pone quindi, per struttura e approccio, come utile contributo e supporto sia per studenti che per addetti ai lavori. La disamina dei maggiori istituti e protagonisti del sistema sanitario si coniuga con la lettura contingente delle esigenze di riassetto, di recupero di economicità ed efficienza; il tutto finalizzato alla centralità del paziente e delle sue esigenze.  Tutti gli elementi cardine del piano e della Missione 6 Salute del PNRR – Case e Ospedali di Comunità, COT, Telemedicina e FSE, nuovo ruolo del Distretto e riforma di cui al d.m. 77/2022 sulla sanità del territorio – vanno così a comporre una visione sistemica del più importante perno sociale e strategico dell’Italia e di tutta l’Europa: il suo sistema salute. Giuseppe Meloneè un economista e manager sanitario, professore a contratto di Organizzazione delle Aziende Sanitarie presso l’Università degli Studi Unitelma Sapienza di Roma, dottore commercialista. Esperto di governo, organizzazione e management aziendale, da oltre 25 anni impegnato nella direzione di importanti enti, istituzioni e aziende pubbliche e private del Sistema Sanitario Italiano. Relatore in numerosi congressi scientifici, accademici, dibattiti ed eventi tematici, ha pubblicato su importanti riviste articoli e studi in materia giuridica, economica e organizzativa, in particolare riferiti all’ambito sanitario e da, ultimo, alle tematiche inerenti alla pandemia da Covid-19 ed al PNRR.

Giuseppe Melone | Maggioli Editore 2023

Valerio Carlesimo

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento