Come può essere intesa la convivenza in relazione al combinato disposto artt. 384-bis, co. 1, e art. 282-bis, co. 6, c.p.p.
(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., artt. 282-bs, co. 6, 384-bis, co. 1)
1. La questione
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Perugia rigettava la convalida di un provvedimento disposto di urgenza dai Carabinieri della medesima città, previa autorizzazione del Pubblico ministero, del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa ai sensi dell’art. 384 bis c.p.p., applicando successivamente la misura cautelare corrispondente per il reato di cui all’art. 612-bis c.p..
Ciò posto, avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione la pubblica accusa che, tra i motivi ivi addotti, deduceva violazione di legge avuto riguardo all’art. 384- bis c.p.p..
In particolare, l’autorità requirente osservava come, a suo avviso, erroneamente il Giudice delle indagini preliminari non avesse convalidato il provvedimento precautelare sul presupposto dell’assenza della convivenza tra l’indagato e la persona offesa, ritenendo che il provvedimento di urgenza possa essere adottato solo nel caso in cui il destinatario dello stesso coabiti con la persona offesa giustificandosi così l’espressa dizione “obbligo di allontanamento” e solo conseguentemente “divieto di avvicinamento“, rilevandosi al contempo come la motivazione adottata dal giudice, seppure formalmente aderente alla normativa, nella sostanza ne violasse la compiuta attuazione poiché nonostante sussistevano i presupposti per l’intervento di urgenza, si impediva il raggiungimento del fine per il quale la misura pre-cautelare era stata prevista.
Oltre a ciò, era altresì fatto presente che – fermo restando che l’obbligo di allontanamento è strettamente correlato al divieto di avvicinamento e la persona non convivente sarebbe discriminata, rispetto a quella già convivente, in maniera irrazionale e solo in conseguenza di un presupposto che, venuto meno al momento, pone i soggetti su piani identici – se è vero che la norma è insuscettibile di interpretazione analogica o estensiva, tuttavia, deve potersi applicare a quei casi perfettamente sovrapponibili in parte alla fattispecie disciplinata in un momento conseguente al venire meno della coabitazione, con persistenza del divieto di avvicinamento.
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2. La soluzione adottata dalla Cassazione
La Suprema Corte riteneva il motivo summenzionato fondato per le seguenti ragioni.
Si rilevava prima di tutto che l’art. 384-bis c.p.p. recita quanto segue: “Gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria hanno facoltà di disporre, previa autorizzazione del pubblico ministero, scritta, oppure resa oralmente e confermata per iscritto, o per via telematica, l’allontanamento di urgenza dalla casa familiare con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa nei confronti di chi è colto in flagranza dei delitti di cui all’art. 282-bis, comma 6, ove sussistano fondati motivi per ritenere che le condotte criminose possano essere reiterate ponendo in grave ed attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa (…)”.
Premesso ciò, gli Ermellini prendevano inoltre atto come il contrasto interpretativo tra il Pubblico ministero ricorrente ed il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Perugia fosse relativo alla condizione di “convivenza” presso la “casa familiare“: secondo il giudice il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, adottato quale misura precautelare di urgenza, si lega indissolubilmente allo stato di convivenza in atto nella casa familiare tra agente e soggetto passivo, che ne costituisce indefettibile presupposto.
Orbene, stante tale contrasto, i giudici di piazza Cavour faceva presente in primo luogo che, con specifico riferimento alla misura precautelare in esame, la Cassazione ha chiarito che, in tema di convalida dell’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare, il giudice deve controllare la sussistenza dei presupposti legittimanti l’eseguito allontanamento, valutando la legittimità dell’operato della polizia in relazione allo stato di flagranza e all’ipotizzabilità di uno dei reati richiamati dall’art. 282-bis c.p.p., comma 6, (Sez. 6, n. 17680 del 27/05/2020).
In particolare, il giudice della convalida deve valutare la sussistenza del “fumus commissi delicti” secondo una verifica “ex ante“, valutando la situazione conosciuta dalla polizia giudiziaria al momento dell’esecuzione del provvedimento, tenuto conto altresì del fatto che, analogamente a quanto avviene per le altre misure precautelari e in particolare in sede di convalida dell’arresto, il giudice, oltre all’osservanza dei termini, deve controllare la sussistenza dei presupposti legittimanti l’eseguito allontanamento, ossia valutare la legittimità dell’operato della polizia sulla base di un controllo di ragionevolezza, in relazione allo stato di flagranza ed all’ipotizzabilità di uno dei delitti di cui all’art. 282-bis c.p.p., comma 6, in una chiave di lettura che non deve riguardare né la gravità indiziaria e le esigenze cautelari (valutazione questa riservata all’applicabilità delle misure cautelari coercitive), né l’apprezzamento sulla responsabilità, riservato alla fase di cognizione del giudizio di merito.
Ebbene, in relazione a tali principi di diritto, il Supremo Consesso riteneva come, nel caso in esame, non fosse emersa alcuna criticità nella valutazione effettuata dal giudice della convalida quanto al rispetto dei termini, né all’astratta configurabilità di una delle ipotesi di reato di cui all’art. 282-bis c.p.p., comma 6.
Invece, ad avviso della Suprema Corte, la criticità era ravvisabile nell’ulteriore presupposto legittimante l’eseguito allontanamento, ossia, secondo il provvedimento impugnato, la condizione di convivenza nella casa familiare.
Nel dettaglio, una volta evidenziato che la norma, che scaturisce dalla necessaria correlazione tra l’art. 384-bis cod. proc. pen., e la portata dell’art. 282-bis, comma 6, cod. proc. pen., espressamente richiamato dalla prima previsione, non richiede, già per ragioni letterali, che l’autore del delitto abiti attualmente presso l’immobile dal quale deve essere allontanato per ragioni di tutela della persona offesa, si notava che quanto precede non pone in discussione la premessa che, per effetto dell’indicato richiamo normativo, le fattispecie delittuose ivi indicate – tra le quali la fattispecie di cui all’art. 612-bis c.p. (ivi inserita dal D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, art. 16, comma 1 convertito con modificazioni nella L. 1 dicembre 2018, n. 132) – sono quelle commesse in danno dei prossimi congiunti o del convivente, ma pone piuttosto il problema di delineare la nozione di convivenza rilevante, che va calibrata in termini attenti e rispettosi della lettera della legge, ma tenendo conto anche delle finalità di protezione, perseguite attraverso la misura pre-cautelare, di scongiurare il grave e attuale pericolo per la vita e l’integrità fisica della persona offesa.
Di conseguenza, alla stregua di ciò, la Corte di legittimità osservava come si dovesse appurare, in relazione allo specifico caso in questione, e nel pieno rispetto del divieto di applicazioni analogiche della norma in ragione del contenuto della stessa relativo alla limitazione della libertà personale, il contenuto della nozione di convivenza e di casa familiare.
Delineata la questione di diritto da doversi affrontare, gli Ermellini rilevavano come, attraverso l’esame della giurisprudenza civile della stessa Cassazione, emerga una nozione di convivenza non coincidente con la semplice coabitazione (Sez. 3 civ., ord. n. 9178 del 13/04/2018; Sez. 3 civ., n. 7128 del 21/03/2013).
In particolare, si metteva in evidenza il fatto che il rapporto di convivenza, da intendere quale stabile legame tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti, è ravvisabile anche quando non sia contraddistinto da coabitazione posto che la giurisprudenza richiamata, nell’interpretazione adeguatrice delle norme, evidenzia che è necessario prendere atto del mutato assetto della società, collegato alle conseguenze di una prolungata crisi economica, ma non originato soltanto da queste, dal quale emerge che ai fini della configurabilità di una convivenza di fatto, il fattore coabitazione è destinato ad assumere ormai un rilievo recessivo rispetto al passato.
Pertanto, il cambiamento sociale che è ormai verificato nella società comporta che si instaurino e si mantengano rapporti affettivi stabili a distanza con frequenza molto maggiore che in passato e devono indurre a ripensare al concetto stesso di convivenza, la cui essenza non può risolversi nella coabitazione, in guisa tale che il dato della coabitazione, all’interno dell’elemento oggettivo della convivenza, può considerarsi attualmente un dato recessivo.
Detto questo, veniva oltre tutto notato che la nozione di convivenza di fatto peraltro trova ora il suo supporto normativo nella L. n. 76 del 2016, che all’art. 1, definisce i conviventi di fatto come “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”, individuando sempre l’elemento spirituale, il legame affettivo, e quello materiale o di stabilità, la reciproca assistenza morale e materiale, fondata in questo caso non sul vincolo coniugale e sugli obblighi giuridici che ne scaturiscono, ma sull’assunzione volontaria di un impegno reciproco, così come lo stesso dicasi avuto riguardo alla nozione di vita familiare rilevante a norma dell’art. 8 CEDU, per la quale è necessario un legame affettivo qualificato da un progetto di vita in comune (Sez. 1, Ordinanza n. 7427 del 18/03/2020).
Tali premesse, di conseguenza, dimostrano, per la Corte, che, all’interno del nostro ordinamento, la nozione di convivenza non coincide con quella di coabitazione, nel senso che le specifiche esigenze di protezione delle previsioni penalistiche – oltre che di raccordo tra le varie fattispecie incriminatrici (citandosi, al riguardo, Sez. 6, n. 15883 del 16/03/2022, e Corte Cost., sent. n. 98 del 2021) – impongono, in armonia con le superiori indicazioni, di ritenere che la convivenza, pur quando non si accompagni alla coabitazione continuativa, permanga anche nelle fasi di crisi del rapporto quando quest’ultima non sia divenuta ormai irreversibile.
Alla luce delle considerazioni sin qui espresse, quindi, la Cassazione giungeva alla conclusione secondo la quale, allorquando la convivenza, intesa come coabitazione già esistita, non sia più in atto, ma sussistono degli elementi in concreto che depongono per una perdurante frequentazione del soggetto di quel domicilio domestico anche in maniera occasionale, o che consistono nel violento ripristino da parte dell’agente della situazione di condivisione del domicilio, appare corretto ravvisare anche l’ulteriore presupposto che legittima l’allontanamento da una casa che l’indagato continua a frequentare, anche contro la volontà della donna con cui ha intrattenuto la relazione, tenuto conto altresì del fatto che l’allontanamento dalla casa familiare e il divieto di avvicinarsi alla stessa hanno un identico contenuto prescrittivo: l’art. 282-bis c.p.p. quando descrive la condotta che deve osservare il destinatario della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare utilizza due espressioni: “lasciare immediatamente la casa” ovvero “non farvi rientro” e, dunque, non avvicinarsi.
Oltre a ciò, veniva infine fatto presente che, tra l’altro, una lettura di segno contrario, per la Suprema Corte, susciterebbe più di un dubbio di frizione costituzionale della norma e dell’intero assetto sistematico della tutela, risultando manifestamente irragionevole che, proprio laddove l’esigenza di tutela si connota per intensità massima (come nei confronti di chi, nelle fasi di cessazione della relazione affettiva, intenda riaffermare autoritativamente e prepotentemente, nonostante la contraria volontà della persona offesa, la coabitazione intesa come condivisione fisica del domicilio, assieme alla vittima che abbia continuato a dimorarvi), essa risulti irrealizzabile.
Il Supremo Consesso, pertanto, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, riteneva come l’operato della polizia giudiziaria fosse stato legittimo e coerente con i presupposti applicativi dell’art. 384 bis c.p.p. e, quindi, annullava senza rinvio l’ordinanza impugnata per essere stata legittimamente applicata la misura cautelare dell’allontanamento dall’abitazione, disponendo al contempo la trasmissione degli atti al Tribunale di Perugia, Ufficio del Giudice per le indagini preliminari.
3. Conclusioni
Fermo restando che, da un lato, l’art. 384-bis, co. 1, cod. proc. pen. dispone che gli “ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria hanno facoltà di disporre, previa autorizzazione del pubblico ministero, scritta, oppure resa oralmente e confermata per iscritto, o per via telematica, l’allontanamento urgente dalla casa familiare con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, nei confronti di chi è colto in flagranza dei delitti di cui all’articolo 282-bis, comma 6, ove sussistano fondati motivi per ritenere che le condotte criminose possano essere reiterate ponendo in grave ed attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa”, dall’altro, l’art. 282-bis, co. 6, cod. proc. pen. statuisce che, qualora “si proceda per uno dei delitti previsti dagli articoli 570, 571, 572, 582, limitatamente alle ipotesi procedibili d’ufficio o comunque aggravate, 600, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-septies.1, 600-septies.2, 601, 602, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612, secondo comma, 612-bis, del codice penale, commesso in danno dei prossimi congiunti o del convivente, la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’articolo 280, anche con le modalità di controllo previste all’articolo 275-bis” cod. proc. pen., la decisione in esame desta un certo interesse, essendo ivi chiarito come può essere intesa la convivenza in relazione a quanto previsto da queste norme procedurali.
Si afferma difatti in tale pronuncia, dopo un lungo e articolato ragionamento giuridico, che, per convivenza, può intendersi anche la coabitazione già esistita, ma non più in atto, quando sussistono degli elementi in concreto che depongono per una perdurante frequentazione del soggetto di quel domicilio domestico anche in maniera occasionale, o che consistono nel violento ripristino da parte dell’agente della situazione di condivisione del domicilio.
E’ dunque sconsigliabile, perlomeno alla stregua di questo approdo ermeneutico, sostenere invece l’insussistenza della convivenza, ove sia richiesta la misura pre-cautelare preveduta dall’art. 384-bis cod. proc. pen., ove ricorra uno di questi casi.
Ad ogni modo il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché prova a fare chiarezza su siffatta tematica procedurale sotto il profilo giurisprudenziale, non può che essere che positivo.
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