Licenziamento: legittimo se il lavoratore dice “lesbica” alla collega

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La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha pronunciato la sentenza numero 7029/2023, con la quale ha accolto il ricorso della società Tper s.p.a., società emliana di trasporto pubblico, che aveva licenziato per giusta causa (senza preavviso) e senza, pertanto, il diritto all’indennità di fine rapporto un proprio lavoratore per aver chiesto ad una collega, di fronte ad altre persone, se non fosse lesbica.

Indice

1. I fatti

Alla fermata dei pullman aziendali, di fronte ad altri colleghi, l’uomo si era rivolto alla collega donna, che aveva appena partorito due gemelli, con la frase “Ma perché sei uscita incinta pure tu? Ma perché non sei lesbica tu?”, con un atteggiamento che veniva definito e percepito dalla collega come derisorio.
La signora, anch’essa dipendente autista della stessa società, dopo questo scambio di battute aveva presentato un esposto all’azienda datrice di lavoro, ritenendo di essere stata offesa. La Tper, a sua volta, aveva formulato una contestazione formale e ufficiale, ai sensi dello Statuto dei lavoratori, al dipendente, ritenendo che la frase pronunciata davanti ai colleghi costituisse un “comportamento gravemente lesivo dei principi del Codice etico aziendale e delle regole di civile convivenza” ed accordando al dipendente i classici cinque giorni per presentare le proprie giustificazioni.
Non ritenendo le giustificazioni accettabili, la società datrice di lavoro comminava la sanzione del licenziamento cosiddetto “in tronco”, ossia per giusta causa, senza il periodo di preavviso e senza corrispondere la relativa indennità sostitutiva.

FORMATO CARTACEO

La cessazione del rapporto di lavoro

L’opera affronta, con approccio tecnico ma chiaro e lineare, tutta la disciplina relativa all’estinzione del rapporto di lavoro, dalle cause di cessazione agli aspetti processuali legati all’impugnazione del licenziamento. L’esperienza e le conoscenze dei Coautori hanno dato forma ad una trattazione sistematica e approfondita della materia, facendo del volume uno strumento di lavoro per quanti, da diversi punti di vista, si trovino ad occuparsi di questioni legate al licenziamento, individuale o collettivo, sia sul piano stragiudiziale che nell’ambito del processo vero e proprio; pertanto, senza pretese di esaustività, l’opera si rivolge ad avvocati, magistrati ed anche consulenti del lavoro. Particolare attenzione è dedicata alle diverse tipologie di licenziamento, nonché alle motivazioni per le quali il rapporto lavorativo arriva a cessazione, con trattazione delle ricadute specifiche di ciascuna fattispecie. Chiara Colosimo Magistrato, giudice del lavoro presso il Tribunale di Milano, referente per la struttura di formazione decentrata della Scuola Superiore della Magistratura, relatrice e autrice sui principali temi del diritto del lavoro. Monica Bertoncini Magistrato, giudice del lavoro e coordinatrice della Sezione Lavoro del Tribunale di Bergamo, relatrice e docente in corsi di aggiornamento professionale e convegni. Riccardo Ponticelli Magistrato, giudice del lavoro presso il Tribunale di Cagliari, relatore in convegni in materia di diritto del lavoro. Alessandro Tonelli Avvocato giuslavorista del Foro di Milano, cassazionista, socio AGI, membro della Commissione Lavoro dell’Associazione Giovani Avvocati Milanesi. Nicola Roberto Toscano Avvocato giuslavorista del Foro di Bari, cassazionista, cultore di diritto del lavoro presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari, autore, docente del master post-laurea in “Gestione del lavoro e delle relazioni sindacali”.

A cura di Chiara Colosimo | Maggioli Editore 2021

2. Il ricorso in Tribunale

Ritenendo il licenziamento ingiusto e non sorretto da alcuna giusta causa, il dipendente proponeva regolarmente a impugnarlo e successivamente a citare in giudizio l’azienda dinnanzi al Tribunale di Bologna, che in effetti, ritenendo la sanzione del licenziamento “sproporzionata” rispetto ai fatti contestati, aveva annullato il licenziamento, condannando la società al reintegro del dipendente.
Tper spa ricorreva in appello, ed anche i Giudici di secondo grado, nel 2020, ritenevano eccessivo il provvedimento del licenziamento, per quello che secondo loro andava ridimensionato e definito come “comportamento inurbano”, ma non come condotta che potesse integrare il venire meno del lavoratore ai suoi doveri tanto da comportare un licenziamento, la massima sanzione prevista per i lavoratori in caso di contestazioni disciplinari da parte del datore di lavoro.
La cessazione del rapporto veniva inquadrata nella figura del recesso unilaterale da parte del datore di lavoro, e Tper veniva condannata non al reintegro del lavoratore, ma a versargli venti mensilità di stipendio.
Secondo i consiglieri della Corte d’Appello di Bologna, il licenziamento per giusta causa, senza alcuna indennità sostitutiva del preavviso costituiva una reazione sproporzionata rispetto alla obiettiva entità degli addebiti a carico dell’autista.
 

3. La decisione n. 7029/2023 della Corte di Cassazione, sezione Lavoro


La società non si è arresa ed ha portato la questione davanti agli ermellini della Suprema Corte, che hanno cassato con rinvio la sentenza della Corte d’Appello, non essendo del loro stesso avviso in merito alla gravità delle frasi pronunciate dall’autista ed alle loro conseguenze.
Secondo i Giudici di legittimità, infatti, non solo qualunque orientamento sessuale merita rispetto, ma il comportamento del dipendente licenziato è stato ritenuto in contrasto con i valori pregnanti nella coscienza generale, e le allusioni sull’essere lesbica rivolte alla donna sono state considerate discriminanti.
Per la Corte di Cassazione, “la valutazione del giudice di merito nel ricondurre a mero comportamento inurbano la condotta di Michele M. non è conforme ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell’ordinamento. Essa [la valutazione della Corte d’Appello] rimanda infatti ad un comportamento contrario soltanto alle regole della buona educazione e degli aspetti formali del vivere civile, laddove il contenuto delle espressioni usate, e le ulteriori circostanze di fatto nel quale il comportamento del dipendente deve essere contestualizzato, si pongono in contrasto con valori ben più pregnanti, ormai radicati nella coscienza generale ed espressione di principi generali dell’ordinamento”.
Ancora, ha proseguito la Suprema Corte, “è innegabile il portato della evoluzione della società negli ultimi decenni e la acquisizione della consapevolezza del rispetto che merita qualunque scelta di orientamento sessuale”, che attiene ad una sfera intima e assolutamente riservata della persona.
Così argomentando, la Corte ha ritenuto che l’intrusione in tale sfera con modalità di scherno in ambiente di lavoro e alla presenza di altri colleghi, non può essere considerata solo una condotta inurbana, ma è una vera discriminazione, da sanzionare con il licenziamento senza preavviso.
Per concludere, la Cassazione ha ricordato che il Codice delle Pari opportunità, ossia il d.lgs. n. 198/2006,  considera come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo, soprattutto con riguardo alla posizione di chi si trovi a subire nell’ambito del rapporto di lavoro comportamenti indesiderati per ragioni connesse al sesso.
Alla luce di queste considerazioni e motivazioni, la Corte di legittimità ha cassato con rinvio la sentenza di secondo grado, ordinando alla Corte di Appello di rivedere la sua sentenza, verificando la sussistenza dei presupposti per una  giusta causa di licenziamento, alla luce del corretto inquadramento della fattispecie e dei valori di riferimento definiti dalla Cassazione stessa.

Avv. Luisa Di Giacomo

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