Delitto art. 380 c.p.: accertamenti per configurazione

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Cosa occorre accertare per ritenere configurabile il delitto di cui all’art. 380 cod. pen.
(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 380)
Per approfondimenti: Compendio di Diritto Penale – Parte speciale

Corte di Cassazione -sez. VI pen.- sentenza n.17565 del 6-04-2023

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Indice

1. La questione


La Corte di appello di Roma confermava una sentenza con cui il Tribunale di Velletri aveva condannato l’imputato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione nonché di Euro 800 di multa per i reati truffa (art. 640 c.p.), tentata truffa (art. 56 c.p.; 640 c.p.) e infedele patrocinio (art. 380 c.p.).
Ciò posto, avverso il provvedimento emesso dai giudici di seconde cure capitolini proponeva ricorso per Cassazione la difesa dell’accusato che, tra i motivi ivi addotti, deduceva errata applicazione della legge penale in relazione all’infedele patrocinio in quanto, secondo il difensore, l’imputato non avrebbe mai violato i principi di lealtà, buona fede e correttezza che contraddistinguono la professione legale ed avrebbe, anzi, adempiuto al mandato professionale in maniera scrupolosa, avendo sempre comunicato al proprio cliente lo stato del procedimento civile di risarcimento del danno che lo riguardava.


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2. La soluzione adottata dalla Cassazione


La Suprema Corte riteneva il motivo summenzionato fondato.
Gli Ermellini, infatti, osservavano a tal riguardo, in via preliminare, che la fattispecie di cui all’art. 380 c.p. è descritta quale reato di evento, che consiste in un “nocumento” agli interessi della parte, concettualmente distinto dalla condotta di violazione dei doveri professionali (Sez. 6, n, 5764 del 07/11/2019), ma che non necessariamente va inteso in senso civilistico quale danno patrimoniale, potendo pure consistere nel mancato conseguimento di beni giuridici o di benefici, anche solo di ordine morale, che avrebbero potuto seguire al corretto e leale esercizio del patrocinio legale (Sez. 5, n. 22978 del 03/02/2017, relativo ad un caso in cui la condotta del professionista aveva determinato un allungamento dei tempi del processo penale, conclusosi con esito negativo per la persona offesa patrocinata).
Pur tuttavia, sempre ad avviso del Supremo Consesso, anche voler aderire a tale orientamento (che tuttavia determina una potenziale sovrapposizione tra evento e condotta “violazione dei doveri di diligenza”), resta pur sempre il fatto che il tipo di cui all’art. 380 c.p. presuppone la pendenza di un procedimento, e ciò tanto si desume dal testo legislativo, ove si fa riferimento alla “parte difesa, assistita o rappresentata dinanzi all’autorità giudiziaria”, e, soprattutto, dalla collocazione sistematica della fattispecie (posta tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia), la quale ha indotto la dottrina ad individuare il bene tutelato nel pubblico interesse a garantire il corretto e leale funzionamento dell’attività giudiziaria da parte dei patrocinatori e la giurisprudenza di legittimità a caratterizzare in senso “endoprocessuale” l’area di operatività del reato (Sez. 5, n. 22978 del 03/02/2017; Sez. 6, n. 8617 del 30/01/2020).
Di conseguenza, sebbene segnato da una spregiudicata violazione dei doveri di correttezza professionale nei confronti dell’assistito, i giudici di piazza Cavour ritenevano come il fatto contestato all’imputato, ossia l’avere dichiarato alla parte un esito giudiziario diverso da quello reale, quanto all’importo delle spese di difesa liquidato, ed essersi fatto corrispondere, di conseguenza, un compenso superiore a quello disposto dal giudice, si colloca, a loro avviso, al di fuori dell’ambito processuale (senza, peraltro, che dalle sentenze di merito emergano elementi denotanti mala gestio professionale).
Tal che se ne faceva conseguire come una siffatta condotta non avesse arrecato danno all’interesse pubblicistico, rispetto al quale l’interesse della parte può trovare tutela in via meramente accessoria, come pure dimostrato dal fatto che, a ritenere diversamente, per la Corte di legittimità, si sarebbe – questa volta sì – al cospetto di un bis idem rispetto al delitto di truffa, già ascritto all’imputato, che verrebbe, dunque, punito due volte per lo stesso fatto.
In altre parole, per il Supremo Consesso, ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 380 c.p., occorre accertare la realizzazione di un danno discendente dalla gestione della causa nel cui ambito si è verificata la violazione dei doveri di diligenza.
La sentenza impugnata era, quindi, annullata, limitatamente al delitto di patrocinio infedele con rinvio per nuovo giudizio sul punto, nell’ambito del quale il giudice, oltre a rideterminare la pena complessiva, avrebbe dovuto provvedere a liquidare, a favore della parte civile, le spese relativamente ai reati non investiti dalla decisione di annullamento.

3. Conclusioni


La decisione in esame desta un certo interesse, essendo ivi chiarito cosa occorre accertare per ritenere configurabile il delitto di cui all’art. 380 cod. pen. che, come è noto, al primo comma, prevede che il “patrocinatore o il consulente tecnico, che, rendendosi infedele ai suoi doveri professionali, arreca nocumento agli interessi della parte da lui difesa, assistita o rappresentata dinanzi all’autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale, è punito con la reclusione da uno a tre anni e con la multa non inferiore a euro 516”.
La Suprema Corte, difatti, muovendo dalla finalità, che connota questa norma incriminatrice, ossia il pubblico interesse consistente nel garantire il corretto e leale funzionamento dell’attività giudiziaria da parte dei patrocinatori, giunge ad affermare che, ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 380 c.p., occorre accertare la realizzazione di un danno discendente dalla gestione della causa nel cui ambito si è verificata la violazione dei doveri di diligenza, il che implica evidentemente che il danno arrecato alla parte assistita deve derivare dalla gestione della causa nel cui esclusivo ambito si deve verificare la violazione di quei doveri di diligenza a cui è tenuto, sia il patrocinatore, che il consulente tecnico, vale a dire i soggetti attivi dell’illecito penale trattato in tale occasione.
Orbene, un approccio ermeneutico di tal fatta è, ad avviso di chi scrive, senz’altro condivisibile, e ciò perché tale indirizzo interpretativo è: 1) perfettamente consono al tenore letterale della norma summenzionata che, come appena visto, circoscrive la possibilità di contestare questo illecito penale al solo caso in cui la parte sia assistita o rappresentata dinanzi all’autorità giudiziaria (o alla Corte penale internazionale); 2) in linea con quell’orientamento nomofilattico che subordina la configurabilità di codesto delitto al fatto che il “nocumento agli interessi” di cui all’art. 380, co. 1, cod. pen. si riferisca a quei soli interessi “azionati in un procedimento instaurato dinanzi all’autorità giudiziaria” (Cass. pen., sez. VI, 7/03/2019, n. 12222).
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, pertanto, per tali ragioni, non può che essere che positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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