Art. 69, co. 4, c.p. dichiarata illegittimità costituzionale

Allegati

La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, co. 4, c.p.: vediamo in che modo
Per approfondire: La Riforma Cartabia del sistema sanzionatorio penale

Corte costituzionale -sentenza n.19944 del 18-04-2023

sentenza-commentata-art.-4-46.pdf 264 KB

Iscriviti alla newsletter per poter scaricare gli allegati

Grazie per esserti iscritto alla newsletter. Ora puoi scaricare il tuo contenuto.

Indice

1. Il fatto


La Corte di Assise di Appello di Torino, sezione seconda, procedeva, quale giudice del rinvio, nel procedimento penale nei confronti di una persona e di altra persona coimputata, a seguito di una sentenza con cui la Corte di Cassazione, sezione seconda penale, aveva annullato la decisione della Corte di Assise di Appello di Torino, sezione prima, limitatamente alla qualificazione di uno dei delitti contestati, reputato da doversi ricondurre alla violazione, non già dell’art. 422 cod. pen. (Strage comune), come ritenuto dalla pronuncia impugnata, bensì dell’art. 285 cod. pen. (Strage allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato), nei termini ipotizzati dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino fin dall’iniziale contestazione del reato.

2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione


La Corte di Assise di Appello di Torino, sezione seconda, in relazione al processo penale summenzionato, aveva sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall’art. 3 della legge 251 del 2005, nella parte in cui, relativamente al reato previsto dall’art. 285 cod. pen. (Devastazione, saccheggio e strage), non consente al giudice di ritenere la circostanza attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. (Circostanza diminuente: lieve entità del fatto), prevalente sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen..
In particolare, il rimettente affermava che la disposizione censurata contrasterebbe con l’art. 3, primo comma, Cost., in riferimento alla violazione del principio di uguaglianza, in quanto determinerebbe l’applicazione della medesima pena dell’ergastolo a fatti di differente rilievo penale, equiparando sul piano sanzionatorie condotte che, se anche aggrediscono i medesimi beni giuridici, sono assolutamente diverse con riguardo agli indici previsti dall’art. 311 cod. pen. per la particolare tenuità del danno o del pericolo.
Sussisterebbe, altresì, il contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., in ragione della violazione del principio di offensività.
La norma censurata, impedendo al giudice di applicare la diminuzione della pena derivante dalla prevalenza della circostanza attenuante prevista dall’art. 311 cod. pen., che ha una decisiva funzione riequilibratrice, invero, non consentirebbe di adeguare la risposta sanzionatoria alla concreta capacità offensiva della condotta criminosa se il fatto è di lieve entità in relazione alla natura, alla specie, ai mezzi, alle modalità o alle circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, finendo così con attribuire esclusivo rilievo alla pericolosità dell’agente, insita nell’applicazione della circostanza aggravante della recidiva reiterata.
Tale contrasto, sempre ad avviso del giudice a quo, sarebbe ancora più evidente in relazione alla fattispecie in esame, in quanto il reato di cui all’art. 285 cod. pen. è sanzionato unicamente con la pena dell’ergastolo, con la conseguenza che dalla natura fissa di tale sanzione deriva l’impossibilità di qualsiasi adeguamento della pena al caso concreto che, per effetto del divieto di prevalenza censurato, viene punito esclusivamente con l’ergastolo.
In terzo luogo, si riteneva come la disposizione censurata si porrebbe in contrasto anche con l’art. 27, terzo comma, Cost., perché l’applicazione della pena fissa dell’ergastolo non consente di adottare una pena proporzionata alla condotta in concreto tenuta dal reo, precludendo la possibilità di assicurare un trattamento sanzionatorio che tenda alla rieducazione del condannato.


Potrebbero interessarti anche:

3. La soluzione adottata dalla Consulta


La Corte costituzionale, dopo avere esaminato le questioni preliminari prospettate dall’Avvocatura dello Stato, ritenendole non meritevoli di accoglimento, passando al merito, innanzi tutto considerava – quanto al quadro normativo, nel quale si collocano le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di Assise di Appello di Torino – che il delitto di «[d]evastazione saccheggio e strage» di cui all’art. 285 cod. pen. e la circostanza diminuente della «lieve entità del fatto» di cui all’art. 311 cod. pen. si rinvengono nel codice penale del 1930 con una formulazione rimasta sempre invariata, anche dopo le modifiche introdotte dalla legge 11 novembre 1947, 1317 (Modificazioni al Codice penale per la parte riguardante i delitti contro le istituzioni costituzionali dello Stato), al Libro II del Titolo I, Capi II, IV e V del codice stesso.
Più specificamente, la fattispecie di cui all’art. 285 cod. pen. punisce la condotta di «[c]hiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso» e stabilisce come pena edittale quella perpetua dell’ergastolo, come tale fissa nel senso di non graduabile quanto alla sua natura e durata. Pena, quest’ultima, introdotta in sostituzione di quella della morte, abolita per tutti i delitti previsti dal codice penale dall’art. 1 del d.lgs. 224 del 1944.
Oltre a ciò, era altresì fatto presente che, accanto alla fattispecie in esame, nell’ambito del medesimo Titolo I, sono punite con la pena edittale fissa dell’ergastolo ulteriori fattispecie di reato ed in particolare le condotte di cui agli artt. 242 (Cittadino che porta le armi contro lo Stato italiano), 276 (Attentato contro il Presidente della Repubblica), 284 (Insurrezione armata contro i poteri dello Stato) e 286 (Guerra civile).
Inoltre, la pena edittale fissa dell’ergastolo è prevista anche in relazione al delitto di «Epidemia» di cui all’art. 438 cod. pen., fermo restando che, con specifico ed esclusivo riferimento ai delitti contro la personalità dello Stato, il codice penale prevede la diminuente della lieve entità del fatto che, ai sensi dell’art. 311, ricorre quando «per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità»; in tal caso le pene comminate per i delitti indicati sono diminuite mentre la diminuzione di pena, non essendo specificamente stabilita dalla disposizione che la prevede, risponde al criterio dettato dall’art. 65 cod. pen., con la conseguenza che alla «pena dell’ergastolo è sostituita la reclusione da venti a ventiquattro anni».
Premesso ciò, il giudice delle leggi rilevava tra l’altro che la disposizione censurata è contenuta nell’art. 69 cod. pen. che detta il regime del concorso delle circostanze aggravanti e attenuanti, considerando distinte ipotesi: a) quando concorrono insieme circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, e le prime sono dal giudice ritenute prevalenti, non si tiene conto delle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti, e si fa luogo soltanto agli aumenti di pena stabiliti per le circostanze aggravanti (primo comma); b) se le circostanze attenuanti sono ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti, non si tiene conto degli aumenti di pena stabiliti per queste ultime, e si fa luogo soltanto alle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti (secondo comma); c) se fra le circostanze aggravanti e quelle attenuanti il giudice ritiene che vi sia equivalenza, si applica la pena che sarebbe inflitta se non concorresse alcuna di dette circostanze (terzo comma).
Orbene, per la Consulta, si tratta del tipico bilanciamento delle circostanze rimesso alla valutazione del giudice chiamato a dimensionare la pena calibrandola secondo le peculiarità del caso concreto; bilanciamento nel quale un ruolo speciale giocano le circostanze attenuanti generiche per la loro atipicità, atteso che esse – introdotte nell’immediato dopo guerra dall’art. 2 del decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, 288 (Provvedimenti relativi alla riforma della legislazione penale), per mitigare trasversalmente il rigore del codice penale del 1930 – rilevano sul solo presupposto, ampiamente discrezionale, che siano valutate dal giudice come «tali da giustificare una diminuzione della pena».
Detto questo, il giudice delle leggi denotava altresì come la regola generale del bilanciamento di circostanze del reato sia stata modificata, nella parte che rileva ai fini delle sollevate questioni, dalla legge 251 del 2005, che all’art. 3 ha sostituito il quarto comma dell’art. 69 cod. pen. in questi termini: «Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole, esclusi i casi previsti dall’articolo 99, quarto comma, nonché dagli articoli 111 e 112, primo comma, numero 4), per cui vi è divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti, ed a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato».
In tal modo, è stato introdotto il censurato divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti quando ricorre l’aggravante della recidiva reiterata.
La stessa legge ha, poi, previsto plurime modifiche al codice penale, segnatamente con riferimento alla disciplina della recidiva e delle circostanze del reato.
In particolare, l’art. 4 ha sostituito l’art. 99 cod. pen., ridefinendo, in termini di maggior rigore, le varie ipotesi di recidiva, in controtendenza rispetto al decreto-legge 11 aprile 1974, 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, 220, che già all’epoca aveva sostituito tale disposizione nel testo del codice del 1930 al fine, invece, di attenuare il rigore di quest’ultimo.
L’intervento riformatore del 1974, quindi, non solo aveva ridotto gli incrementi di pena per le varie ipotesi di recidiva, ma anche li aveva resi facoltativi, prevedendo che il giudice «può» aumentare la pena in tutte le ipotesi di recidiva: da quella semplice (fino a un sesto) a quella reiterata specifica (fino a due terzi). Coerentemente era stata abrogata la disposizione del codice che prevedeva i casi di recidiva facoltativa (art. 100), a fronte dell’obbligatorietà della recidiva di cui al precedente art. 99, fermo restando che, con la legge 251 del 2005, sono stati sensibilmente aumentati gli incrementi di pena in tutte le ipotesi di recidiva, anche oltre quelli previsti dall’originario art. 99 nel testo del codice del 1930: da quella semplice (aumento di un terzo) a quella reiterata specifica (aumento di due terzi).
In particolare, l’ipotesi della recidiva reiterata, sia semplice (quella del recidivo che commette un altro delitto non colposo), sia specifica (quella del recidivo che commette un altro delitto della stessa indole, oppure ciò fa nei cinque anni dalla condanna precedente, o durante o dopo l’esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena), ha visto l’aumento di pena elevato rispettivamente a metà e a due terzi (mentre prima era «fino» a metà e «fino» a due terzi).
Ebbene, a questo punto della disamina, si faceva presente che, investita da numerose questioni di legittimità costituzionale, la Consulta (sentenza 192 del 2007) le aveva dichiarate inammissibili per mancata sperimentazione dell’interpretazione adeguatrice da parte dei giudici rimettenti.
Nel dettaglio, aveva osservato la Corte costituzionale come le sollevate questioni si fondassero sul presupposto implicito che, a seguito della legge 251 del 2005, la recidiva reiterata fosse divenuta obbligatoria e non potesse essere discrezionalmente esclusa dal giudice – quantomeno agli effetti della commisurazione della pena – in correlazione alle peculiarità del caso concreto, ma questa non era però l’unica lettura astrattamente possibile: «la nuova formula normativa potrebbe essere letta anche nel diverso senso che l’indicativo presente “è” si riferisca, nella sua imperatività, esclusivamente alla misura dell’aumento di pena conseguente alla recidiva pluriaggravata e reiterata – aumento che, a differenza che per l’ipotesi della recidiva aggravata, di cui al secondo comma dell’art. 99 cod. pen., il legislatore del 2005 ha voluto rendere fisso, anziché variabile tra un minimo e un massimo – lasciando viceversa inalterato il potere discrezionale del giudice di applicare o meno l’aumento stesso», aggiungendosi altresì quanto segue: «allorché la recidiva reiterata concorra con una o più attenuanti, è possibile sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento – soggetto al regime limitativo di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen. – unicamente quando, sulla base dei criteri dianzi ricordati, ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire, di per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede; mentre, in caso contrario, non vi sarà luogo ad alcun giudizio di comparazione: rimanendo con ciò esclusa la censurata elisione automatica delle circostanze attenuanti».
Insomma, proseguiva la Corte nel suo ragionamento decisorio, era possibile interpretare l’art. 99, quarto comma, cod. pen., nel senso che la recidiva reiterata, divenuta facoltativa a seguito del d.l. 99 del 1974, come convertito, era rimasta tale anche dopo la legge 251 del 2005 che contemplava testualmente come obbligatoria solo la particolare (e più specifica) recidiva reiterata di cui al quinto comma dell’art. 99 cod. pen. e questo era stato anche l’approdo della successiva giurisprudenza di legittimità: è consentito al giudice negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non applicando il relativo aumento della sanzione (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenze 24 febbraio-24 maggio 2011, 20798 e 27 maggio-5 ottobre 2010, 35738).
Rimaneva invece sottratta a tale interpretazione solo la recidiva reiterata del quinto comma dell’art. 99 cod. pen., quella che ricorre quando si tratta di uno dei delitti indicati all’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale e che – oltre a comportare un aumento di pena ancora maggiore – era testualmente prevista come obbligatoria, ma successivamente anche tale ipotesi specifica è venuta meno allorché il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione limitatamente alle parole «è obbligatorio e,» (sentenza 185 del 2015).
 In particolare, è stato posto in rilievo che l’automatismo sanzionatorio introdotto dalla norma censurata – ossia l’obbligatorietà dell’aumento di pena per la recidiva reiterata specifica del quinto comma dell’art. 99 cod. pen. – non si giustificava, contrastando esso con il principio di ragionevolezza perché parificava situazioni personali e ipotesi di recidiva tra loro diverse, in violazione dell’art. 3 Cost..
 Inoltre «[l]a preclusione dell’accertamento della sussistenza nel caso concreto delle condizioni che dovrebbero legittimare l’applicazione della recidiva può rendere la pena palesemente sproporzionata, e dunque avvertita come ingiusta dal condannato, vanificandone la finalità rieducativa prevista appunto dall’art. 27, terzo comma, Cost.».
Si è così anche consolidata l’interpretazione alla quale era pervenuta la giurisprudenza di legittimità: se non è obbligatoria l’ipotesi più grave di recidiva, quella del quinto comma dell’art. 99 cod. pen., a maggior ragione non lo sono le altre previste dai commi precedenti e quindi al giudice è sempre consentito «negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non applicando il relativo aumento della sanzione» (ancora, sentenza 185 del 2015).
Pertanto, la connotazione peculiare della circostanza aggravante della recidiva reiterata, come modificata dalla legge 251 del 2005, risiede nel rigido automatismo del divieto di prevalenza di qualsiasi circostanza attenuante a fronte della persistente non obbligatorietà della sua applicazione, dato che, nella legge 251 del 2005, è rimasto a valle della pur non obbligatorietà di ogni fattispecie di recidiva, un effetto inequivocabilmente automatico, quello censurato oggi dal giudice rimettente. La recidiva reiterata del quarto comma dell’art. 99 cod. pen., per un verso, può (non necessariamente deve) comportare un aumento di pena maggiore che in passato, ma per l’altro determina, come effetto automatico appunto, il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti, visto che l’art. 3 della legge 251 del 2005 ha sostituito il quarto comma dell’art. 69 cod. pen. (disposizione censurata) prevedendo che, per alcune aggravanti nominate, la recidiva reiterata del quarto comma dell’art. 99 cod. pen., l’aver determinato al reato una persona non imputabile o non punibile, o un minore di anni diciotto o una persona in stato di infermità o di deficienza psichica – ci sia il «divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti» mentre, invece, per tutte le altre circostanze – anche quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa o determina la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato – si applica l’ordinaria disciplina del concorso di circostanze aggravanti e attenuanti prevista dai primi tre commi dello stesso art. 69 cod. pen..
Ciò posto, si evidenziava oltre tutto come il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti su quella aggravante della recidiva reiterata connoti quest’ultima come circostanza aggravante dotata di forza maggiore, che si iscrive nel novero di quelle cosiddette “privilegiate”.
Il sistema penale, invero, conosce varie ipotesi di circostanze aggravanti per le quali vale il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti o finanche, più radicalmente, l’esclusione del giudizio di comparazione tra circostanze, fermo restando che, quanto al divieto di prevalenza di circostanze attenuanti o al divieto di bilanciamento delle circostanze di cui all’art. 69 cod. pen. (cosiddette circostanze “privilegiate”), «[h]a affermato questa Corte (sentenza 38 del 1985) che “[n]ell’art. 69 cod. pen. […] l’obbligatorietà del giudizio di bilanciamento ha una sua razionalità nell’essenza stessa di quella valutazione, che è giudizio di valore globale del fatto”. Ma il legislatore può sospendere l’applicazione dell’art. 69 cod. pen., togliendo al giudice il potere discrezionale di operare il bilanciamento a compensazione delle aggravanti o a favore delle attenuanti in un’ottica di inasprimento sanzionatorio. Si tratta di una “grave limitazione” che in sé non è illegittima, ma non può accompagnarsi anche alla irrilevanza ex lege delle circostanze attenuanti. Con questa limitazione, si è quindi riconosciuto che appartiene alla discrezionalità del legislatore introdurre speciali ipotesi di circostanze aggravanti privilegiate che sono sottratte al bilanciamento di cui all’art. 69 cod. pen.» (sentenza 88 del 2019).
Una clausola di esclusione della comparazione è stata tra l’altro prevista dall’art. 416-bis.1 cod. pen. (Circostanze aggravanti e attenuanti per reati connessi ad attività mafiose), così come, anche con riguardo all’aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico di cui all’art. 270-bis.1 cod. pen., si ha che le circostanze attenuanti non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti e allo stesso dicasi, pure in riferimento al “nuovo” reato di omicidio stradale e di lesioni stradali gravi e gravissime, ove un divieto di bilanciamento è previsto dall’art. 590-quater cod. pen. quando ricorrono le circostanze aggravanti di cui agli artt. 589-bis, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, 589-ter, 590-bis, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, e 590-ter cod. pen., fermo restando che, più recentemente, l’art. 5, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 1° marzo 2018, 21, recante «Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, 103», ha introdotto l’art. 69-bis cod. pen., prevede, per i delitti di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), numeri da 1) a 6), cod. proc. pe, un divieto di bilanciamento di circostanze aggravanti e attenuanti nell’ipotesi in cui chi ha determinato altri a commettere il reato, o si è avvalso di altri nella commissione del delitto, ne è il genitore esercente la responsabilità genitoriale ovvero il fratello o la sorella, aggiungendo che le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti.
Quindi, osservava la Consulta, vi sono varie circostanze “privilegiate”, quelle alle quali il legislatore ha riservato un regime derogatorio dell’ordinario bilanciamento di cui all’art. 69 cod. pen..
Orbene, in questo panorama di aggravanti “privilegiate”, il divieto di prevalenza delle attenuanti con riguardo alla recidiva reiterata, per la Corte di legittimità costituzionale, si presenta come particolare perché l’automatismo di tale esclusione si innesta sulla mancanza di automatismo dell’applicazione dell’aumento di pena.
Infatti, il giudice deve innanzi tutto accertare, con discrezionalità valutativa, se sussistono i presupposti per applicare l’aumento di pena per la recidiva reiterata, verificando, in concreto, se le precedenti condanne abbiano reso la persona maggiormente incline a commettere un ulteriore reato ed è questo un accertamento distinto rispetto alla (logicamente successiva) valutazione di proporzionalità della pena irrogabile ove sia in concreto applicabile l’aumento per la recidiva.
 In particolare, quanto all’ipotesi della recidiva reiterata, solo se il giudice ritiene che debba in concreto applicare l’aumento di pena per tale circostanza aggravante, allora scatta l’automatismo dell’esclusione della prevalenza di qualsivoglia (eventualmente) concorrente circostanza attenuante.
Questa preliminare valutazione, pur discrezionale, è ben distinta da quella che, in seguito, in caso di condanna dell’imputato, il giudice è chiamato a fare per stabilire la pena proporzionata al reato accertato mentre diversamente, nel caso oggetto del giudizio a quo, si ha che, dopo la pronuncia di annullamento della Corte di Cassazione, non sono più in discussione né la qualificazione giuridica dei reati contestati (e innanzi tutto quello, più grave, di cui all’art. 285 cod. pen.), né il giudizio di penale responsabilità, in particolare, dell’imputato, né la sua condizione di recidivo reiterato ai sensi dell’art. 99, quarto comma, cod. pen..
Si era dunque formato un giudicato interno sull’operatività dell’aggravante costituita dalla recidiva reiterata, la cui originaria non obbligatorietà non può più rilevare, e ciò fa scattare l’automatismo dell’esclusione della prevalenza delle attenuanti.
La riqualificazione del reato da parte della Corte di Cassazione – strage “politicaex art. 285 cod. pen. (punita con l’ergastolo) e non già strage “comuneex art. 422 cod. pen. senza uccisione di persone (punita con la reclusione non inferiore a quindici anni) – comporta, quindi, per la Consulta, il necessario dispiegarsi dell’automatismo recato dalla disposizione censurata: anche nel concorso di circostanze attenuanti il giudice non può che irrogare la pena edittale fissa dell’ergastolo.
Ebbene, sempre ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, la tenuta costituzionale di questo automatismo, insito nel divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti, non poteva che misurarsi con i principi di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), di offensività della condotta del reo (art. 25, secondo comma, Cost.) e della necessaria proporzionalità della pena tendente alla rieducazione del condannato (art. 27, terzo comma, Cost.), pur nel contesto della generale non obbligatorietà della recidiva, che non attenua la portata del divieto stesso, ma anzi lo fa apparire, già per ciò solo, eccedente se non proprio contraddittorio, rilevandosi al contempo come la medesima Corte costituzionale abbia ripetutamente fatto tale verifica di legittimità costituzionale con riferimento a singoli reati e a specifiche circostanze attenuanti e il divieto di prevalenza delle attenuanti sull’aggravante della recidiva reiterata è già stato più volte dichiarato costituzionalmente illegittimo con riferimento a specifiche circostanze diminuenti e a singoli reati.
In effetti, con la sentenza 143 del 2021, che ha avuto ad oggetto la preclusione introdotta dalla disposizione censurata proprio con riferimento alla medesima diminuente di cui all’art. 311 cod. pen., è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della diminuente del fatto di lieve entità – introdotta con sentenza 68 del 2012 della Consulta, in relazione al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, di cui all’art. 630 cod. pen. – sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.
La «funzione di necessario riequilibrio del trattamento sanzionatorio» riconosciuta alla diminuente del «fatto di lieve entità», pertanto, si è posta come essenziale perché il giudice possa individuare una pena proporzionata anche in relazione a condotte meno gravi di quelle avute di mira dal legislatore che, con la legge 30 dicembre 1980, 894 (Modifiche all’articolo 630 del codice penale), ha modificato il trattamento sanzionatorio del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, stabilendo la pena della reclusione da venticinque a trent’anni.
Oltre a ciò, era altresì fatto presente che, nella precedente sentenza 68 del 2012, il giudice delle leggi – nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen., nella parte in cui non prevedeva «che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità» – ha affermato, con riferimento all’art. 311 cod. pen., che la peculiare funzione di questa attenuante, «rientrante nel novero delle circostanze cosiddette indefinite o discrezionali (non avendo il legislatore meglio precisato il concetto di “lievità” del fatto) […] consiste propriamente nel mitigare – in rapporto ai soli profili oggettivi del fatto (caratteristiche dell’azione criminosa, entità del danno o del pericolo) – una risposta punitiva improntata a eccezionale asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale».
Inoltre, la richiamata sentenza 143 del 2021 era stata preceduta da numerose altre pronunce, tutte dichiarative, in linea di continuità, dell’illegittimità costituzionale parziale della stessa disposizione attualmente censurata dal giudice rimettente (l’art. 69, quarto comma, cod. pen.).
E infatti, con la sentenza 251 del 2012, la Consulta – nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di tale disposizione nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) – ha, tra l’altro, affermato che le differenze quantitative delle comminatorie edittali dei commi 1 e 5 del citato art. 73 rispecchiano le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie sul piano dell’offensività; in particolare, il trattamento sanzionatorio decisamente più mite, assicurato al fatto di “lieve entità”, esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, la quale «indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato», aggiungendosi oltre tutto che «[d]ue fatti, quelli previsti dal primo e dal quinto comma dell’art. 73, che lo stesso assetto legislativo riconosce come profondamente diversi sul piano dell’offesa, vengono ricondotti alla medesima cornice edittale, e ciò “determina un contrasto tra la disciplina censurata e l’art. 25, secondo comma, Cost., che pone il fatto alla base della responsabilità penale” (sentenza 249 del 2010)».
Analogamente, con riferimento alla stessa disciplina degli stupefacenti, la Corte costituzionale, con la sentenza 74 del 2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della medesima disposizione nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui al successivo comma 7 del medesimo art. 73, evidenziandosi a tal proposito che la rigida presunzione di capacità a delinquere desunta dall’esistenza di una recidiva reiterata «è inadeguata ad assorbire e neutralizzare gli indici contrari, che possono desumersi, a favore del reo, dalla condotta susseguente, con la quale la recidiva reiterata non ha alcun necessario collegamento»; condotta di chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori.
Parimenti, nella sentenza 105 del 2014, la Consulta ha affermato che la disposizione censurata, nel precludere relativamente al reato di ricettazione la prevalenza dell’attenuante del fatto di «particolare tenuità» sulla recidiva reiterata, determina conseguenze manifestamente irragionevoli sul piano sanzionatorio per la riconducibilità alla medesima cornice edittale di due fatti che lo stesso legislatore riconosce come profondamente diversi sul piano dell’offesa, dal momento che «[l]e differenti comminatorie edittali del primo e del secondo comma dell’art. 648 cod. pen. rispecchiano le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie, sul piano dell’offensività».
Principi analoghi sono alla base della sentenza 106 del 2014, in relazione al divieto di prevalenza della circostanza attenuante concernente i «casi di minore gravità» di violenza sessuale cui all’art. 609-bis, terzo comma, cod. pen. giacché tale circostanza attenuante si pone «quale temperamento degli effetti della concentrazione in un unico reato di comportamenti, tra loro assai differenziati, che comunque incidono sulla libertà sessuale della persona offesa, e della conseguente diversa intensità della lesione dell’oggettività giuridica del reato».
Nella sentenza 205 del 2017, la dichiarazione di illegittimità costituzionale ha invece riguardato la circostanza attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), concernente il «danno patrimoniale di speciale tenuità» cagionato alla massa dei creditori per i reati di bancarotta fraudolenta, bancarotta semplice e ricorso abusivo al credito, essendo ivi riconosciuto che il trattamento sanzionatorio, significativamente più mite, assicurato ai fatti di bancarotta che hanno determinato un danno patrimoniale di particolare tenuità, «esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, che indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato».
Inoltre, in relazione al divieto di prevalenza dell’attenuante del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen., il giudice delle leggi, nella sentenza 73 del 2020, ha affermato che esso impedisce al giudice di determinare una pena proporzionata rispetto alla concreta gravità oggettiva e soggettiva del reato, e pertanto adeguata al grado di responsabilità «personale» e rimproverabilità del suo autore, «non consentendo di tenere adeguatamente conto […] della minore possibilità di essere motivato dalle norme di divieto da parte di chi risulti affetto da patologie o disturbi della personalità che, seppur non escludendola del tutto, diminuiscano grandemente la sua capacità di intendere e di volere», come invece previsto dalla circostanza attenuante indicata, «riconducibile a un connotato di sistema di un diritto penale “costituzionalmente orientato”».
Nell’esaminare la fattispecie del cosiddetto concorso anomalo di cui all’art. 116, primo comma, cod. pen. – che prevede lo stesso titolo di responsabilità per il reato, diverso da quello voluto con l’accordo delittuoso, commesso da altro correo, parificando così a quest’ultimo la posizione del concorrente che non ha voluto il fatto-reato – la Consulta, nella sentenza 55 del 2021, ha affermato che la diminuente di cui al secondo comma dell’art. 116 cod. pen. vale proprio ad operare la necessaria diversificazione quanto alla dosimetria della pena, in quanto «[i]l trattamento sanzionatorio non può essere pienamente parificato quando il reato commesso sia più grave di quello voluto», per cui «la pena per il correo che risponde a titolo di colpa di un reato doloso più grave di quello voluto è necessariamente riequilibrata mediante l’operatività della diminuente».
Ebbene, terminato questo excursus normativo e giurisprudenziale, le sollevate questioni di legittimità costituzionale, inquadrate in questo contesto normativo e giurisprudenziale, erano reputate fondate in riferimento a tutti i parametri evocati dal giudice rimettente.
La Corte costituzionale addiveniva a siffatta conclusione, osservando in primo luogo che il divieto di prevalenza delle attenuanti in caso di recidiva reiterata, recato dalla disposizione censurata, sia già stato dichiarato costituzionalmente illegittimo più volte, trattandosi di pronunce tutte relative a distinti reati e a specifiche circostanze attenuanti, ma alle quali sono sottese rationes decidendi riconducibili a principi comuni, declinati lungo una triplice direttrice, i quali – come si dirà – sono decisivi al fine della valutazione di fondatezza delle questioni, in linea di continuità con tali precedenti.
In particolare, la prima condivisa ratio decidendi attiene alla particolare ampiezza della divaricazione tra la pena base prevista per il reato non circostanziato e quella risultante dall’applicazione dell’attenuante; divaricazione che, per essere compatibile con i principi di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), di offensività della condotta penale (art. 25, secondo comma, Cost.) e di proporzionalità della pena tendente alla rieducazione del condannato (art. 27, terzo comma, Cost.), richiede necessariamente che il giudice possa operare l’ordinario giudizio di bilanciamento delle circostanze (art. 69 cod. pen.), senza che sia preclusa la valutazione di prevalenza dell’attenuante sulla recidiva reiterata.
La deroga al giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee, insita nel divieto recato dalla disposizione censurata, determina, in questi casi, una «alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale» (sentenza 251 del 2012), perché finisce per comportare l’applicazione di pene identiche per violazioni di rilievo penale marcatamente diverso, fermo restando che l’affermazione di tale principio si rinviene già nella pronuncia appena richiamata, concernente le violazioni «di lieve entità» della disciplina degli stupefacenti, per le quali l’art. 73, comma 5, del d.P.R. 309 del 1990, recante l’attenuante in questione, prevedeva la pena della reclusione da uno a sei anni (oltre la multa) a fronte di una pena edittale, per il reato non circostanziato, della reclusione da sei a venti anni (oltre la multa), avendo la Consults evidenziato l’«enorme divaricazione delle cornici edittali» stabilite dal legislatore per il reato circostanziato dalla diminuente e per la fattispecie base prevista dal comma 1 della disposizione citata, con l’effetto di «un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato».
Inoltre, quanto allo stesso reato, considerazioni analoghe era state fatte in sede di legittimità costituzionale (sentenza 74 del 2016) con riferimento alla circostanza attenuante ad effetto speciale, prevista dal comma 7 del medesimo art. 73 del d.P.R. 309 del 1990, che comporta una marcata diminuzione della pena (dalla metà a due terzi) per chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori e alla stessa ragione del decidere è riconducibile anche la sentenza 105 del 2014 relativa alla ricettazione «di particolare tenuità» (art. 648, secondo comma, cod. pen.). Il minimo della pena detentiva previsto per il fatto di particolare tenuità (15 giorni di reclusione) veniva elevato a due anni, determinando così, a causa del divieto di prevalenza delle attenuanti di cui alla disposizione censurata, un trattamento sanzionatorio «irragionevolmente severo».
La coeva sentenza 106 del 2014, d’altronde, ha riguardato i casi di violenza sessuale di «minore gravità», per i quali l’art. 609-bis, terzo comma, cod. pen., prevede una pena della reclusione (da un anno e otto mesi a tre anni e quattro mesi) sensibilmente inferiore a quella relativa al reato non circostanziato (reclusione da cinque a dieci anni).
Il divieto di prevalenza delle attenuanti, quindi, finiva per attribuire alla risposta punitiva i connotati di «una pena palesemente sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato».
Analoga divaricazione sproporzionata era stata del resto ritenuta (sentenza 205 del 2017) con riferimento al reato di bancarotta fraudolenta, punito con la pena edittale che va da tre a dieci anni di reclusione, pena che, per effetto dell’attenuante prevista per il caso di «danno patrimoniale di speciale tenuità», può essere ridotta nel minimo fino a un anno.
Particolarmente significativa per le questioni attualmente in esame, per di più. è la sentenza 143 del 2021 che, con riferimento proprio all’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen., ha posto in rilievo che la funzione di tale diminuente, pur comune e non già ad effetto speciale, «consiste propriamente nel mitigare – in rapporto ai soli profili oggettivi del fatto (caratteristiche dell’azione criminosa, entità del danno o del pericolo) – una risposta punitiva improntata a eccezionale asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale».
In definitiva, ad avviso della Consulta, in tutte queste fattispecie è stata riconosciuta alle singole attenuanti, anche non ad effetto speciale, una necessaria funzione riequilibratrice del marcato divario tra una pena particolarmente elevata per il reato base a fronte di quella che altrimenti risulterebbe dall’applicazione dell’attenuante; funzione che, per il rispetto dei principi costituzionali di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), di offensività della condotta sanzionata penalmente (art. 25, secondo comma, Cost.) e di proporzionalità della pena tendente alla rieducazione del condannato (art. 27, terzo comma, Cost.), non può essere compromessa dal divieto di prevalenza sulla recidiva reiterata recato dalla disposizione censurata.
Inoltre, ancora sotto il profilo oggettivo, nei precedenti richiamati, è stata rilevante, come ragione del decidere, la considerazione che alcune attenuanti sono accomunate dall’esigenza di bilanciare la particolare ampiezza della fattispecie del reato non circostanziato che accomuna condotte marcatamente diverse, e che necessitano di essere differenziate nella determinazione del trattamento sanzionatorio.
Lo spaccio di lieve entità (art. 73, comma 5, del d.P.R. 309 del 1990) costituisce condotta certamente meno grave del traffico di stupefacenti, tipico del reato non circostanziato di cui al comma 1 della stessa disposizione, tanto che in seguito esso è stato previsto come fattispecie autonoma di reato.
Anche le condotte di atti sessuali di «minore gravità» – in passato riconducibili agli atti di libidine violenti o alle molestie, ma ricompresi, a seguito della riforma del 1996 (legge 15 febbraio 1996, 66, recante «Norme contro la violenza sessuale»), nel reato, ad ampio spettro, di violenza sessuale – richiedono la necessaria funzione riequilibratrice dell’attenuante ad effetto speciale del terzo comma dell’art. 609-bis cod. pen.
Sotto il profilo soggettivo, infine, per il giudice delle leggi, una ulteriore ratio decidendi è rinvenibile in quelle pronunce che hanno riguardato attenuanti strettamente legate al carattere personale della responsabilità penale, trattandosi di circostanze attenuanti espressive non già, sul piano oggettivo, di una minore offensività del fatto rispetto agli interessi protetti dalla norma penale, né di una finalità premiale rispetto a condotte post delictum, quanto piuttosto della ridotta rimproverabilità soggettiva dell’autore.
La circostanza attenuante del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen., in effetti, si fonda sul minore grado di discernimento, da parte dell’autore che versi in tale condizione, circa il disvalore della sua condotta e sulla minore capacità di controllo dei suoi impulsi, in ragione delle patologie o disturbi che lo affliggono; di qui, la ridotta rimproverabilità soggettiva, fermo restando che, con riferimento ad essa, i giudici di legittimità costituzionale hanno affermato che il «principio di proporzionalità della pena desumibile dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. esige insomma, in via generale, che al minor grado di rimproverabilità soggettiva corrisponda una pena inferiore rispetto a quella che sarebbe applicabile a parità di disvalore oggettivo del fatto» (sentenza 73 del 2020).
Anche la circostanza attenuante di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen., che contempla l’ipotesi in cui il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, prevedendo che quest’ultimo ne risponde se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione, svolge la «funzione di necessario riequilibrio del trattamento sanzionatorio» (sentenza 55 del 2021).
La pena per il correo, che risponde a titolo di colpa di un reato doloso più grave di quello voluto, è necessariamente riequilibrata mediante l’operatività di tale diminuente che «concorre a sorreggere la tenuta costituzionale di questa eccezionale fattispecie di responsabilità penale»; riequilibrio che non può essere compromesso dal divieto di prevalenza delle attenuanti previsto dalla disposizione censurata.
Orbene, queste ragioni del decidere, che reclamano l’ordinario giudizio di bilanciamento delle circostanze attenuanti pur in presenza della recidiva reiterata, per la Corte costituzionale, ricorrono tutte, e in maggior grado, nell’ipotesi in cui il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti comporta che l’unica pena irrogabile è l’ergastolo, quale che sia stata la condotta dell’imputato, rientrante in quella prevista dall’art. 285 cod. pen. come strage (ma, beninteso, ciò vale anche quando il divieto opera in riferimento alle condotte di devastazione o saccheggio, previste anch’esse dalla stessa disposizione) dal momento che il divario, tra la pena edittale e quella che, in assenza del contestato divieto, sarebbe irrogabile ove ricorra una circostanza attenuante dal giudice valutata come prevalente sulla recidiva reiterata, risulta qui particolarmente elevato: in luogo di una pena perpetua, quale l’ergastolo, sarebbe possibile applicare, sempre che il giudice ritenga prevalente l’attenuante, la pena temporanea della reclusione da venti a ventiquattro anni (art. 65 cod. pen.), tenuto conto che quest’ultima è calibrata sul fatto e sulle sue peculiarità, nonché sulla persona dell’imputato ai sensi dell’art. 133 cod. pen., pur con le limitazioni contenute ora, per effetto ancora della legge 251 del 2005, nel secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen. mentre, invece, la pena edittale (l’ergastolo) non è graduabile quanto alla durata, proprio perché è perpetua e tale è nel momento in cui viene irrogata con sentenza passata in giudicato; in quel momento la prospettiva per il condannato è una pena che non ha mai fine, avendo la medesima Corte rinvenuto nella disciplina dell’esecuzione della pena istituti che consentono di escludere, nella fase dell’espiazione, il carattere di irrimediabile perpetuità della stessa come restrizione “senza speranza”, sottolineando che si tratta di «istituti che si caratterizzano come concettualmente antagonisti rispetto alla perpetuità della pena» (sentenza 168 del 1994).
In proposito, la sentenza 264 del 1974 ha affermato che al condannato alla pena perpetua non è preclusa la possibilità di un rientro nella società tramite la liberazione condizionale poichè il beneficio è concedibile – dal giudice e non più per concessione del Ministro della giustizia (sentenza 204 del 1974) – anche ai condannati alla pena perpetua quando abbiano scontato almeno ventisei anni di reclusione; beneficio che si accompagna comunque al rispetto degli obblighi della libertà vigilata per la durata di cinque anni affinché la pena dell’ergastolo possa alla fine estinguersi e quindi risultare, in concreto ed ex post, non essere stata perpetua.
Anche recentemente, la Consulta (sentenza 66 del 2023 e ordinanza 97 del 2021) ha ribadito il ruolo dell’istituto della liberazione condizionale quale garanzia di compatibilità della pena dell’ergastolo di cui all’art. 22 cod. pen. con il principio di risocializzazione presidiato dall’art. 27 Cost., sottolineando che la liberazione condizionale è l’unico istituto che, in virtù della sua esistenza nell’ordinamento, rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo, così come altre pronunce poi convergono nella stessa direzione, rafforzando la prospettiva della liberazione condizionale (sentenze 253 del 2019, 161 del 1997 e 274 del 1983).
Tuttavia, per il giudice delle leggi, va considerato che, pur con il riconoscimento di queste tutele, tese a rafforzare il processo rieducativo finalizzato al “sicuro ravvedimento”, quale presupposto della liberazione condizionale del condannato all’ergastolo dopo l’espiazione di non meno di ventisei anni di reclusione (art. 176 cod. pen.), il fossato che, come divario sanzionatorio, esiste tra la pena perpetua, al momento della sua irrogazione, ed una temporanea, è radicalmente maggiore di ogni squilibrio considerato dalla giurisprudenza per dichiarare, nelle plurime richiamate fattispecie (sub punto 10 e seguenti), l’illegittimità costituzionale del censurato divieto di prevalenza delle attenuanti.
Oltre a questo particolare rigore sanzionatorio, per la Consulta, c’è un’ulteriore concorrente esigenza di “riequilibrio” per essere la pena dell’ergastolo prevista dall’art. 285 cod. pen., non solo molto più afflittiva di ogni pena temporanea, ma anche irrogata in riferimento ad una condotta ad ampio spettro – tale è il compimento di «un fatto diretto a portare […] la strage nel territorio dello Stato» ‒ e che eccezionalmente è a consumazione anticipata, nel senso che il reato si perfeziona quando è posta in essere tale condotta senza richiedere che si verifichi la lesione dell’integrità fisica di persone, tant’è che non è ipotizzabile, a differenza degli altri reati, un tentativo di strage; ciò perché il “tentativo” di strage è già strage consumata.
Soprattutto, poi, nella fattispecie in cui concorre l’aggravante della recidiva reiterata, la pena edittale dell’ergastolo risulta essere non solo “fissa”, ma anche unica e “indefettibile” proprio a causa del divieto di prevalenza delle attenuanti recato dalla disposizione censurata mentre, invece, ove non operasse tale divieto, la pena irrogabile, nel concorso di circostanze attenuanti prevalenti, se ritenute tali dal giudice, sarebbe determinabile entro l’intervallo di un minino (venti anni di reclusione) e un massimo (ventiquattro anni) ai sensi dell’art. 65 cod. pen.; quindi sarebbe graduabile, rilevandosi al contempo come la giurisprudenza costituzionale abbia più volte affermato che una pena fissa è per ciò solo indiziata di illegittimità costituzionale (sentenze 222 del 2018, 50 del 1980, 104 del 1968 e 67 del 1963, nonché, in ambito di sanzioni amministrative accessorie, le sentenze 246 del 2022 e 88 del 2019) e ciò, a maggior ragione, non può non valere quando il giudice è tenuto a infliggere l’ergastolo quale pena “fissa” e “indefettibile”.
In particolare, nella sentenza 185 del 2021 – nel ribadire che la fissità del trattamento sanzionatorio impedisce di tener conto della diversa gravità concreta dei singoli illeciti – si è sottolineato che «questa Corte ha posto da tempo in luce come la “mobilità” (sentenza 67 del 1963), o “individualizzazione” (sentenza 104 del 1968), della pena – tramite l’attribuzione al giudice di un margine di discrezionalità nella sua commisurazione all’interno di una forbice edittale, così da poterla adeguare alle particolarità della fattispecie concreta – costituisca “naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio d’uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale” (sentenza 50 del 1980), al lume dei quali “l’attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione più che l’uniformità” (così, ancora, la sentenza 104 del 1968)».
Ciò dunque implica, per la Consulta, che, in via di principio, previsioni sanzionatorie rigide non sono in linea con il «volto costituzionale» del sistema penale, potendo esse essere giustificate solo «a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (sentenze 222 del 2018 e 50 del 1980) mentre viceversa non può dirsi assicurata una pena proporzionata al fatto, sotto il profilo della «mobilità della pena» (sentenza 50 del 1980), se la medesima identica pena venga irrogata in relazione ad atti, che pur integrando il delitto consumato, si differenzino sul piano oggettivo per condotte di più avanzato compimento dell’attività delittuosa, essendo questa un’esigenza che si rivela ancora più impellente nei delitti di attentato, altrimenti detti a consumazione anticipata, che puniscono una condotta in quanto tesa al perseguimento di un determinato risultato che, però, ai fini della punibilità non è necessario che si consegua in concreto.
Sotto questo profilo, si riteneva utile ricordare, con riferimento alla pena edittale dell’ergastolo, prevista in passato per il reato di violenza consistente nell’omicidio, sia tentato sia consumato, (art. 186, primo comma, del regio decreto 20 febbraio 1941, 303, recante «Codici penali militari di pace e di guerra», nella formulazione all’epoca vigente), che la Corte costituzionale (sentenza 26 del 1979) ha affermato che «le norme che assoggettano il tentativo e la consumazione allo stesso regime penale costituiscono pur sempre alcunché di eccezionale rispetto ai principi ispiratori del diritto italiano» ed ha, quindi, dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione, limitatamente alle parole «tentato o», con conseguente espansione delle norme penali comuni in materia di delitto tentato di omicidio.
In definitiva, per il giudice delle leggi, nel caso di reati puniti con la pena edittale dell’ergastolo, si ha che, concorrendo l’aggravante della recidiva reiterata e applicandosi il censurato divieto di prevalenza delle attenuanti, la pena dell’ergastolo diventa l’unica irrogabile, quindi “fissa” e “indefettibile”.
La fissità della pena perpetua comporta, dunque, per la Consulta, anche, per effetto del divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata, un trattamento, per il condannato, ingiustificatamente diverso in peius.
In generale, le circostanze attenuanti – se ritenute equivalenti all’aggravante della recidiva reiterata (ciò che è possibile che il giudice faccia anche in presenza del censurato divieto di prevalenza) – quanto meno hanno l’effetto di escludere l’aumento di pena per la recidiva, ma, nel caso dell’ergastolo, questo effetto non può conseguirsi, non essendo esso suscettibile di aggravamento per la recidiva reiterata in quanto di per sé perpetuo.
Invero, nel regime delle circostanze cosiddette privilegiate – sia con “privilegio debole” (divieto di prevalenza), sia con “privilegio forte” (divieto di bilanciamento) – le circostanze attenuanti comunque hanno un effetto sulla pena (Corte di Cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 aprile-18 novembre 2021, 42414).
Finanche nel caso del divieto di bilanciamento, l’art. 69-bis cod. pen. prevede che «le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti», ossia alle aggravanti “privilegiate” mentre, invece, nel caso della pena edittale fissa dell’ergastolo tutte le attenuanti sono, di fatto, “sterilizzate” dal concorso con la recidiva reiterata proprio a causa del censurato divieto di prevalenza delle attenuanti e quindi – con trattamento deteriore in violazione del principio di eguaglianza – non hanno nemmeno l’effetto di schermare l’aumento della pena per il concorso della circostanza aggravante della recidiva reiterata, il quale di per sé non si può produrre in ragione del carattere perpetuo della pena dell’ergastolo.
Del resto, mutatis mutandis, il regime “privilegiato” delle circostanze di cui all’art. 270-bis.1 cod. pen., che al secondo comma prevede un divieto di prevalenza delle attenuanti, non dissimile da quello attualmente censurato, per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, si riferisce espressamente, al primo comma, a quelli punibili con pena diversa dall’ergastolo.
In conclusione, per i giudici di legittimità costituzionale, la fissità della pena edittale dell’ergastolo, aggravata dal suo rigore per essere la sanzione più elevata in assoluto, in quanto perpetua al momento della sua irrogazione, e marcatamente più afflittiva rispetto a quella irrogabile per lo stesso reato circostanziato da una diminuente, richiede – per la tenuta costituzionale della pena stessa, in riferimento a tutti gli evocati parametri (artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.) – che non sia precluso, in caso di recidiva reiterata, l’ordinario bilanciamento delle circostanze attenuanti del reato, le quali, se esclusive o ritenute dal giudice prevalenti sulle aggravanti, comportano che alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione da venti a ventiquattro anni (art. 65 cod. pen.).
L’accertata violazione, da parte della disposizione censurata, di tutti i parametri costituzionali evocati dal giudice rimettente, inoltre, per la Consulta, vale non solo per il reato di cui all’art. 285 cod. pen., punito appunto con la pena edittale fissa dell’ergastolo, e in riferimento all’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen., che il giudice rimettente ritiene di poter applicare, ma vale altresì con riguardo ad ogni altra attenuante, comprese le attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen., e per tutti gli altri reati puniti allo stesso modo, ossia con la pena edittale fissa dell’ergastolo (quali quelli sopra richiamati al punto 3), quando parimenti operi il divieto di prevalenza delle attenuanti, posto che la disposizione censurata e gli accertati vulnera dei parametri suddetti sono infatti gli stessi (analogamente, sentenza 156 del 2020).
La Consulta, di conseguenza, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., in relazione ai delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo, fermo restando che, per effetto di tale dichiarazione di illegittimità costituzionale, il giudice, nel determinare il trattamento sanzionatorio in caso di condanna di persona recidiva ex art. 99, quarto comma, cod. pen., imputata di uno dei delitti suddetti, può operare l’ordinario bilanciamento previsto dall’art. 69 cod. pen. nel caso di concorso di circostanze e, quindi, può ritenere le attenuanti prevalenti sulla recidiva reiterata (secondo comma), oppure equivalenti a quest’ultima (terzo comma), o finanche subvalenti rispetto ad essa (primo comma).

4. Conclusioni


La Corte costituzionale, con la pronuncia qui in commento, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come modificato dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui, relativamente ai delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo, prevede il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen..
In particolare, la Consulta, dopo un complesso e articolato ragionamento giuridico, è addivenuta a siffatta conclusione sostenendo per l’appunto, come appena visto, che è possibile riconoscere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. (c.d. recidiva reiterata) anche quando si proceda per i delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo, trattandosi dunque di una possibilità, e non di un obbligo visto che, come evidenziato nella medesima decisione in esame, il giudice, nel determinare il trattamento sanzionatorio in caso di condanna di persona recidiva ex art. 99, quarto comma, cod. pen., può comunque operare l’ordinario bilanciamento previsto dall’art. 69 cod. pen. nel caso di concorso di circostanze e, quindi, può ritenere le attenuanti prevalenti sulla recidiva reiterata (secondo comma), oppure equivalenti a quest’ultima (terzo comma), o finanche subvalenti rispetto ad essa (primo comma).
Dunque, pur in presenza di questa declaratoria di illegittimità costituzionale, non viene ovviamente meno quanto stabilito dall’art. 69 cod. pen. nei suoi primi tre commi che, come è noto, stabiliscono quanto segue: 1) comma primo (“Quando concorrono insieme circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, e le prime sono dal giudice ritenute prevalenti, non si tien conto delle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti, e si fa luogo soltanto agli aumenti di pena stabiliti per le circostanze aggravanti”); 2) comma secondo (“Se le circostanze attenuanti sono ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti, non si tien conto degli aumenti di pena stabiliti per queste ultime, e si fa luogo soltanto alle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti”); 3) comma terzo (“Se fra le circostanze aggravanti e quelle attenuanti il giudice ritiene che vi sia equivalenza, si applica la pena che sarebbe inflitta se non concorresse alcuna di dette circostanze”).
Resta parimenti vigente il comma quarto dell’art. 69 cod. pen. (“Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole, esclusi i casi previsti dall’articolo 99, quarto comma, nonché dagli articoli 111 e 112, primo comma, numero 4), per cui vi è divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti, ed a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato”), fermo restando che, con diverse pronunce (menzionato nella sentenza in esame), la Consulta aveva già dichiarato costituzionalmente illegittimo tale comma.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesto provvedimento, proprio perché volto ad evitare una pena sproporzionata rispetto al fatto, considerato non solo per il reato commesso, ma anche in relazione alle circostanze che possono mitigare il disvalore della gravità del comportamento deviante posto in essere, non può che essere che positivo.

Volume consigliato

FORMATO CARTACEO

La Riforma Cartabia del sistema sanzionatorio penale

Aggiornato alla L. 30/12/2022 n. 199, di conv. con modif. D.L. 31/10/2022 n. 162, l’opera fornisce un inquadramento del D.Lgs. 150/2022, nel tentativo di affrontare e offrire le soluzioni pratiche dei numerosi problemi che un provvedimento di tale portata presenta. Oggetto specifico dell’elaborazione sono le norme che comportano la riforma del sistema sanzionatorio penale, mentre la novella processuale è affidata al corredo di circolari tematiche emesse dal Ministero della Giustizia, riportate in appendice. Per agevolare la lettura, il volume è suddiviso per aree tematiche di intervento, in ciascuna delle quali sono riportati i criteri di delega e le disposizioni oggetto del decreto, unitamente alle corrispondenti disposizioni attuative. Fabio PiccioniAvvocato del Foro di Firenze, patrocinante in Cassazione; LLB presso University College of London; docente di diritto penale alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali; coordinatore e docente di master universitari e corsi di formazione; autore di pubblicazioni e monografie in materia di diritto penale e amministrativo sanzionatorio; giornalista pubblicista.

Fabio Piccioni | Maggioli Editore 2023

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento