Riforma giustizia penale: il d.d.l. del ministro Nordio

Dopo sofferti approfondimenti il Consiglio dei Ministri nella seduta del 15 giugno 2023 ha approvato la prima delle tre tranches della riforma della giustizia penale che riguarda in particolare l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, la stretta sulle intercettazioni telefoniche, le limitazioni all’appello del pubblico ministero, la ridefinizione del reato di traffici illeciti e la custodia cautelare. Il provvedimento, già più volte preannunciato, ha dato una svolta di stampo garantista ai citati istituti di diritto penale sostanziale e processuale determinando forti critiche da parte delle opposizioni di governo e soprattutto della magistratura. Tuttavia, tale riforme erano chiaramente indicate nel programma di governo della coalizione di centro destra e quindi costituiscono il naturale sbocco della politica governativa, nonostante alcuni dubbi di legittimità costituzionale, alcune riserve sull’incisività di taluni provvedimenti sull’attività di polizia giudiziaria e alcune incongruenze presenti nel disegno di legge delega.
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Indice

1. Il travagliato percorso del reato d’abuso d’ufficio                                       


Uno degli interventi più significativi del disegno di legge delega riguarda l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. Al riguardo si osserva preliminarmente che l’art. 323 c.p. prevedeva che:
«1. Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
2. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità».
Il bene giuridico tutelato dalla norma era, quindi, il buon andamento, l’efficienza e l’imparzialità della pubblica amministrazione, oltre alla trasparenza dell’azione amministrativa, ossia i principi cui deve conformarsi l’attività amministrativa richiamati anche dall’art. 97 della Costituzione, garantendo che non venga alterata la c.d. par condicio civium, ovvero il diritto di uguaglianza dei cittadini di fronte alla PA.[1]
Tale reato è stato oggetto di precedenti riforme legislative che hanno cercato di modificarne la disciplina, senza incidere in maniera significativa sulla struttura del reato: si tratta delle leggi n. 86/1990 e n. 234/1997. La durata della pena era stata nuovamente modificata dalla legge n.190/2012 (i termini edittali minimi furono portati da sei mesi a un anno e quelli massimi da tre a quattro anni). Inoltre, era stata prevista anche la circostanza aggravante speciale ad effetto comune, la cui valutazione andava valutata in base a determinati parametri, laddove il danno o l’ingiusto vantaggio erano di rilevante gravità.[2]
In primo luogo si osserva che tale normativa aveva ridotto l’area del penalmente illecito: nella  versione  previgente, invero, era punito il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che avesse abusato del suo ufficio al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio, patrimoniale o non patrimoniale, o per arrecare ad altri un danno ingiusto (l’evento, dunque, si sostanziava nell’esercizio di prerogative secondo modalità difformi dal paradigma normativo); nella successiva previsione, veniva punito invece il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che intenzionalmente procurava a sé o a altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o intenzionalmente arrecava un danno ingiusto un danno ingiusto (l’evento era, quindi, il conseguimento di un vantaggio ingiusto o il prodursi di un danno ingiusto). Inoltre, era stato espunto il vantaggio patrimoniale in quanto ai fini dell’integrabilità del reato, il vantaggio doveva essere esclusivamente “patrimoniale”.
A differenza della previgente disciplina, considerata una sorta di norma in bianco, la nuova formulazione dell’art. 323 c.p. subordinava infatti l’illecito penale al verificarsi di determinate condotte che intenzionalmente procuravano un danno ingiusto o un ingiusto vantaggio: in altri termini, solo la condotta produttrice del danno o dell’ingiusto vantaggio poteva integrare il reato de quo e non una qualsiasi antidoverosità.
Tale “clausola” limitatrice della rilevanza penale della condotta, introdotta dal legislatore del 1997, implicava che il soggetto attivo perpetrasse l’abuso nella veste di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, con la conseguenza che non era configurabile il delitto di cui all’art. 323 c.p. per tutti quei comportamenti posti essere al di fuori dell’effettivo esercizio delle mansioni d’ufficio che, anche laddove perpetrati in violazione del dovere di correttezza, siano tenuti come soggetto  privato senza servirsi in alcun modo dell’attività funzionale svolta, non assumendo pertanto rilievo penale .[3]
La norma incriminatrice non forniva alcuna ulteriore specificazione sulla condotta, richiedendo soltanto che il danno o vantaggio ingiusto fossero arrecati con violazione di norma di legge o di regolamento, ovvero con l’omessa astensione in situazioni di conflitto di interessi.
Ne deriva che la condotta poteva estrinsecarsi in atti interni o esterni (decisionali, consultivi, preparatori, ecc.), in mere attività materiali e, in generale, in qualsiasi comportamento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che rappresentasse un’illecita deviazione dagli scopi istituzionali della P.A.
Tuttavia, nel caso di un procedimento amministrativo complesso, caratterizzato cioè dal concorso di diversi atti amministrativi, non rispondeva del delitto di abuso d’ufficio il pubblico ufficiale che partecipasse solo ad una fase del procedimento stesso, limitandosi ad adottare un atto legittimo, ancorché l’atto da lui emesso sia in rapporto di causalità materiale con il provvedimento finale illegittimo: diversamente si sarebbe imputato all’agente che abbia operato nel rispetto delle norme di legge o di regolamento l’illegittimità del comportamento altrui, giungendo ad una affermazione di colpevolezza basata su una sorta di responsabilità oggettiva.[4]
Nel silenzio della norma penale, il delitto in questione poteva essere integrato “anche attraverso una condotta meramente omissiva, ritenendo in tal caso assorbito il concorrente reato di omissione d’atti d’ufficio in forza della clausola di consunzione contenuta nell’art. 323, comma 1, c.p.”);[5] purché si trattasse “del mancato esercizio di un potere esplicitamente attribuito al pubblico funzionario da una norma di legge o regolamentare”.[6]
Secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza pertanto, ai fini dell’integrazione del reato, era necessario che sussistesse la c.d. “doppia ingiustizia”, riferita sia all’ingiustizia della condotta posta in essere in violazione di legge o di regolamento o dell’obbligo di astensione, sia all’evento di danno o di vantaggio patrimoniale non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia.[7]
In altri termini, l’ingiustizia del vantaggio conseguito non poteva farsi discendere dall’illegittimità della condotta, sia nel caso di violazione di legge o di regolamento che dell’obbligo di astensione, occorrendo una duplice distinta valutazione in proposito.[8] In ordine all’elemento soggettivo del reato, occorreva che l’abuso fosse commesso dall’agente allo scopo di perseguire un ingiusto vantaggio o un danno intenzionalmente.
Nella precedente formulazione la fattispecie delittuosa non delineava più, come nella disciplina previgente, un reato di evento a dolo specifico, bensì a dolo generico che, rispetto all’evento che ne completa la struttura, assumeva la forma necessaria del dolo intenzionale.
Pertanto l’intenzionalità richiesta dalla norma incriminatrice restringeva l’ambito dell’elemento soggettivo del reato ex art. 323 c.p., rendendo penalmente perseguibili esclusivamente le condotte poste in essere con un acclarato grado di partecipazione dell’agente il quale, per integrare il disvalore, doveva agire proprio allo scopo di procurare un ingiusto profitto patrimoniale ovvero di arrecare un danno ingiusto.
Il reato andava escluso, invece, quando l’obiettivo primario perseguito dall’agente era l’interesse pubblico[9] pur nella consapevolezza di “recare in tal modo anche un ingiusto favore a un singolo soggetto privato. Ciò comunque poteva valere solo se il fatto era commesso da colui cui era rimessa la cura dell’interesse pubblico e se il mezzo prescelto in concreto risultava essere stato l’unico in grado di realizzare tale interesse”[10]
Nonostante questa previsione normativa e il citato orientamento giurisprudenziale, nella prassi giudiziaria si continuava ad assistere alla richiesta di rinvio a giudizio da parte delle procure per il reato in questione sulla base del mero e spesso discutibile accertamento del semplice errore amministrativo, senza alcuna indagine sull’elemento psicologico del reato, anche se poi la quasi totalità dei procedimenti penali si concludeva con l’assoluzione dell’imputato, talvolta perché il reato non sussisteva. In tal modo tale tipologia di reato aveva un’efficacia deterrente nell’inibire scelte a elevato tasso di discrezionalità.
Infine, con il decreto legge 16 luglio 2020, n. 76 convertito in legge 11 settembre 2020, n. 120,  
si è cercato di attuare una significativa riforma del reato di abuso d’ufficio.[11]
Nel provvedimento, infatti, erano inserite le due riforme chiave della perimetrazione del citato reato e della responsabilità erariale limitata al solo dolo.
Per quanto concerne il reato di abuso d’ufficio, il decreto interveniva, confermando la pena da uno a quattro anni, sulla disciplina dettata dal menzionato art. 323 c.p., attribuendo rilevanza alla violazione da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, nello svolgimento delle pubbliche funzioni, di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge, statuendo nel contempo che a tali specifiche regole non residuino margini di discrezionalità per il soggetto. In altre parole se il funzionario si era scrupolosamente attenuto alle regole di condotta, non poteva essere perseguito.
Il cambiamento poteva considerarsi significativo, in quanto la precedente norma non parlava di discrezionalità, come pure non faceva riferimento a specifiche regole di condotta. Infatti, il riferimento agli atti aventi forza di legge al posto dei regolamenti voleva cancellare un’anomalia, quella che vede sanzionati sul piano penale comportamenti trasgressivi non solo di leggi o di misure a queste equivalenti, ma anche di semplici misure regolamentari. Nello stesso tempo, l’assai controverso riferimento ai margini di discrezionalità puntava a rendere punibili solo le condotte a forte contenuto di trasgressione, contribuendo anche a sbloccare forme più gravi di burocrazia passiva. Ciò nonostante, il ricorso da parte della magistratura inquirente a tale tipologia di reato ha continuato ad essere frequente senza che nella quasi totalità dei procedimenti si sia giunti ad una condanna.


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2. Il disegno di legge delega sulla riforma della Giustizia penale


Nel comunicato stampa del Consiglio dei ministri del 15 giugno 2023 sono state esplicitate le principali previsioni contenute nel disegno di legge in questione.
In primo luogo, dopo il travagliato percorso sopra descritto, si abroga la fattispecie dell’abuso d’ufficio e si introduce un’ampia riformulazione del reato di traffico di influenze illecite (articolo 346-bis), che rispetto alla norma precedente, prevede, tra l’altro, che:

  • le relazioni del mediatore con il pubblico ufficiale devono essere utilizzate concretamente (non solo vantate) e devono essere esistenti (non solo asserite);
  • le relazioni devono essere sfruttate “intenzionalmente”;
  • l’utilità data o promessa al mediatore deve essere economica;
  • il denaro o altra utilità deve essere dato/promesso per remunerare il soggetto pubblico o per far realizzare al mediatore una mediazione illecita (della quale viene data una definizione normativa);
  • il trattamento sanzionatorio viene inasprito e il minimo edittale sale da 1 anno a 1 anno e 6 mesi.

Si rendono applicabili anche per il traffico d’influenze illecite le attenuanti per la particolare tenuità o per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili o per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite. Si estende, poi, al traffico d’influenze illecite la causa di non punibilità per la cosiddetta collaborazione processuale. Quindi nel caso di condotte riconducibili al previgente reato di abuso d’ufficio, l’unico rimedio esperibile sarà il ricorso al TAR ove ne ricorrano i presupposti.
A tale proposito, desta non poche perplessità la dichiarazione del Ministro della Giustizia che, a pochi giorni dall’adozione del provvedimento in Consiglio dei Ministri, ha dichiarato di essere disponibile a riformulare il reato di abuso d’ufficio ove l’Unione Europea ne faccia richiesta.
Talune modifiche riguardano, poi, il codice di procedura penale e, in primo luogo le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni.
A tale riguardo si amplia il divieto di pubblicazione del contenuto delle intercettazioni, che viene consentita solo se il contenuto è riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o è utilizzato nel corso del dibattimento.
Quanto tale previsione, che scaturisce dalla legittima esigenza di tutela della privacy dei cittadini, da considerare innocenti sino alla sentenza definitiva di condanna ai sensi dell’art. 27, secondo comma, della Costituzione possa contrastare con il diritto all’informazione sancito solennemente dall’art. 21 della stessa Costituzione, sarà la giurisprudenza a chiarirlo definitivamente.
Si stabilisce anche il divieto di rilascio di copia delle intercettazioni delle quali è vietata la pubblicazione, quando la richiesta è presentata da un soggetto diverso dalle parti e dai loro difensori, salvo che tale richiesta sia motivata dalla esigenza di utilizzare i risultati delle intercettazioni in altro procedimento specificamente indicato.
Si afferma, poi, il divieto per la polizia giudiziaria di riportare nei verbali di intercettazione i “dati relativi a soggetti diversi dalle parti, salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini” e si vieta al giudice di acquisire le registrazioni e i verbali di intercettazione che riguardino soggetti diversi dalle parti, sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza.
Un’altra norma diretta a tutelare la privacy degli indagati è rappresentata dal divieto per il pubblico ministero d’indicare nella richiesta di misura cautelare, con riguardo alle conversazioni intercettate, i dati personali dei soggetti diversi dalle parti, salvo che ciò sia indispensabile per la compiuta esposizione. In modo corrispondente, si vieta al giudice di indicare tali dati nell’ordinanza di misura cautelare. Si tratta di un previsione di difficile applicazione che comunque attribuisce al pubblico ministero un’ampia discrezionalità.
Pericolosa per un efficace svolgimento dell’attività di polizia giudiziaria appare invece l’istituto dell’interrogatorio preventivo rispetto alla eventuale applicazione della misura cautelare con il quale si estende il principio del contradditorio preventivo in tutti i casi in cui, nel corso delle indagini preliminari, non risulti necessario che il provvedimento cautelare sia adottato “a sorpresa”. L’interrogatorio preventivo è quindi escluso se sussistono le esigenze cautelari del pericolo di fuga e dell’inquinamento probatorio. È, invece, necessario se è ipotizzato il pericolo di reiterazione del reato, a meno che non si proceda per reati di rilevante gravità (delitti commessi con uso di armi o con altri mezzi di violenza personale). Per porre nel nulla tale disposizione probabilmente i magistrati inquirenti utilizzeranno il ricorso stereotipato alla formula del pericolo di fuga e dell’inquinamento probatorio, come spesso avviene.
Si prevede, poi, l’obbligo del giudice di valutare, nell’ordinanza applicativa della misura cautelare e a pena di nullità della stessa, quanto dichiarato dall’indagato in sede di interrogatorio preventivo. Anche questa appare una statuizione di mero rilievo formale.
Si prevede, altresì, la nullità dell’ordinanza se non è stato espletato l’interrogatorio preventivo o se quest’ultimo è nullo. L’interrogatorio di garanzia (oggi previsto dopo l’applicazione della misura cautelare) non sarà richiesto se è stato svolto quello preventivo. E’ questa una misura utile ai fini dell’economia processuale. Una volta applicata la misura cautelare, in caso di impugnazione, il verbale dell’interrogatorio preventivo sarà inviato al Tribunale del riesame.
Un’altra norma che potrà essere dannosa per l’efficacia delle misure cautelari è la previsione di un giudice collegiale per l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere o di una misura di sicurezza provvisoria quando essa è detentiva. Per consentire l’adeguato rafforzamento dell’organico, si prevede che tali norme si applichino decorsi due anni dall’entrata in vigore della legge e l’aumento del ruolo organico del personale di magistratura ordinaria di 250 unità, da destinare alle funzioni giudicanti di primo grado, con autorizzazione a bandire nel 2024 un concorso da espletare nel 2025. In merito, si ritiene che dovrebbe essere consentito al giudice inquirente, in casi di estrema necessità e urgenza, di applicare autonomamente la misura cautelare, fermo restando un termine brevissimo per l’invio del fascicolo processuale al previsto collegio, ad esempio di massimo 24 ore.
Si ritiene, invece, corretto l’invio obbligatorio dell’informazione di garanzia all’indagato: nel provvedimento si specifica testualmente che essa debba essere trasmessa a tutela del diritto di difesa dell’indagato e che in essa debba essere contenuta una «descrizione sommaria del fatto», oggi non prevista (è richiesta solo l’indicazione della norma violata). Si limita la notifica dell’atto tramite la polizia giudiziaria ai soli casi di urgenza. È espressamente sancito il divieto di pubblicazione dell’informazione di garanzia, finché non siano concluse le indagini preliminari.
Di dubbia legittimità costituzionale invece appare la  modifica della disciplina dei casi di appello del pubblico ministero, che attualmente consente d’impugnare le sentenze di proscioglimento, stabilendo che l’organo di accusa non può appellare le sentenze di proscioglimento per i reati oggetto di citazione diretta indicati all’art. 550 del Codice di procedura penale (contravvenzioni, delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni o con la multa, sola o congiunta alla pena detentiva e altri reati specificamente indicati). Restano appellabili le decisioni di proscioglimento per i reati più gravi e le sentenze di condanna per i reati a citazione diretta nei casi in cui l’ordinamento vigente consente l’appello delle sentenze di condanna da parte del p.m. (per esempio: mancato riconoscimento di circostanze ad effetto speciale; riqualificazione del reato).
Infatti, già con la legge n. 46 del 20 febbraio 2006 emanata su iniziativa del deputato Pecorella, si stabiliva che il pubblico ministero e l’imputato possono proporre appello contro le sentenze di proscioglimento soltanto nelle “ipotesi di cui all’articolo 603, comma 2, se la nuova prova è decisiva“.
Il provvedimento stabiliva, inoltre, l’obbligo per il pubblico ministero, al termine delle indagini, di formulare richiesta di archiviazione quando la Corte di Cassazione si è pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ai sensi dell’articolo 273, e non sono stati acquisiti, successivamente, ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini. Già il Presidente della Repubblica aveva rinviato il provvedimento normativo alle Camere con messaggio motivato ai sensi dell’art. 74 della Costituzione.
Successivamente la Corte costituzionale, con sentenza n. 26/2007, si è pronunciata sulla citata legge dichiarando l’illegittimità costituzionale:
1) dell’art. 1 nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva;
2) dell’art. 10, comma 2, nella parte in cui prevede che l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile.[12]
E non sembra che i rilievi della Corte Costituzionale possano considerarsi del tutto superati, così come affermato dal Ministro della Giustizia. 

3. Conclusioni


Certamente lo sforzo del Governo per delimitare alcuni aspetti fondamentali della giustizia penale avviene in una situazione complessa e di estrema conflittualità.
Si ritiene, pertanto, che sarebbe stato più opportuno delineare meglio le fattispecie riformate, instaurando un dialogo più costruttivo con le opposizioni e soprattutto con il Consiglio Superiore della Magistratura al quale la legge attribuisce un compito propositivo nei confronti del Parlamento.
Ne deriva di conseguenza che se in uno Stato democratico ed efficiente devono essere garantite l’autonomia e l’imparzialità della Magistratura, che costituiscono garanzie costituzionali ineliminabili, si auspica che tale inderogabile necessità sia in linea con i principi del nostro ordinamento senza ledere nel contempo i diritti inviolabili dei cittadini, tra cui in primo luogo la presunzione di innocenza sino alla sentenza definitiva di condanna.

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Antonio Di Tullio D’Elisiis | Maggioli Editore 2022

  1. [1]

    P. Gentilucci, La timida riforma del reato di abuso d’ufficio e del danno erariale, in Diritto.it del 29 luglio 2020.

  2. [2]

    Studio Cataldi, L’abuso d’ufficio, del 26 marzo 2021.

  3. [3]

    Cfr. Cassazione sentenza n. 6489/2008.

  4. [4]

    Si veda Cassazione sentenza n. 7290/2000.

  5. [5]

    Si veda Cassazione sentenza n. 10009/2010.

  6. [6]

    Si veda Cassazione sentenza n.41697/2010.

  7. [7]

    Si vedano Cassazione sentenze n.27936; n.1733/2013; n.36195/2014.

  8. [8]

    Si veda Cassazione sentenza n. 35381/2006; n.21357/2010.

  9. [9]

    Cfr. Cassazione sentenza n.708/2003.

  10. [10]

    Cfr. Cassazione sentenza n. 21165/2009.

  11. [11]

    G. Negri, Arriva la riforma dell’abuso d’ufficio, ridotte le condotte punibili, in Quotidianodiritto.ilsole24ore.com del 15 luglio 2020.

  12. [12]

    Redazione Altalex, Inappellabilità delle sentenze di proscioglimento: modifiche al processo penale, del 1° giugno 2007:

Prof. Paolo Gentilucci

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