Per affrontare il tema che ci siamo proposti di trattare dobbiamo partire da lontano.
“Il contratto di lavoro è sorto fin dai tempi in cui l’uomo non bastò più a sé stesso pel soddisfacimento dei suoi bisogni, e dovette quindi ricorrere all’opera di un suo simile per procurarsi ciò che poteva soddisfare i bisogni nuovi”, [1] questo è l’incipit di un libro che ha rappresentato la nascita nel nostro ordinamento del diritto del lavoro moderno e ne ha delineato la struttura, ancor oggi fondamentalmente valida.
Per approfondimenti consigliamo il volume: Il lavoro subordinato-Rapporto contrattuale e tutela dei diritti
Indice
1. Il lavoro subordinato: concetto, leggi ed evoluzione
Questo contratto coinvolgeva tutta la persona della parte che si era impegnata a soddisfare, come abbiamo detto, i bisogni dell’altra parte attraverso la sue capacità e attitudini per tutto il tempo necessario per raggiungere questo risultato e siccome i bisogni del creditore, una volta soddisfatti, si ripresentavano, il rapporto tra le due parti si protraeva nel tempo fino, in teoria, a durare tutta la vita in un specie di servaggio che non era schiavitù ma che ne aveva le sembianze.
Questa situazione durava nel tempo e negli anni ,nei secoli e si tramandava di padre in figlio fino a stabilire un predominio del creditore sul debitore della prestazione, che a un certo punto divenne insopportabile sì da determinare una vasta ribellione fondata sul principio per cui <non si ammette che l’attività di una persona debba essere per tutta la sua vita vincolata a beneficio di un’altra persona >.
<< Noi tutti sappiamo che la rivoluzione francese si è scatenata precisamente in nome di quei principii che gli umanitaristi avevano già proclamato; che essa nel suo passaggio spezzò ogni avanzo di servaggio, sotto ogni sua forma, e che nella dichiarazione dei diritti dell’uomo che precedette la costituzione francese, e che non fu in fondo se non un riassunto dei principii dell’umanitarismo (art. 15) era scritto : < ognuno può impegnare il suo tempo e i suoi servizi: ma non può vendersi né essere venduto; la sua persona non è una proprietà alienabile>. In queste parole stava la condanna della servitù a vita, sotto qualunque forma essa si presentasse, qualunque fosse il palliativo per renderla accettabile>> [2].
Ispirandosi a questi principi il codice civile del nostro paese introdusse l’art.1628 che cosi sancisce <Nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo o per una determinata impresa>. In cui quell’<a tempo> non va letto come a termine ma < a tempo>, secondo alcuni < non per tutta la vita> . V. invece Barassi, op.cit., secondo il quale per dottrina e giurisprudenza, deve interpretarsi:< è nello spirito della legge che abbia ad essere vietata non la durata della vita, ma in genere una durata molto lunga> [3].
Si potrebbe dire che, all’epoca , un po’a causa della legislazione, su vista, ma molto per il modesto sviluppo della industria e la prevalenza di lavori che non prospettavano, per loro natura, una lunga durata (lavori domestici, lavori di bracciantato in agricoltura), non si era ancora affermato il principio della prevalenza assoluta del contratto a tempo indeterminato.
Infatti tra le caratteristiche fondamentali della locatio operarum il Barassi include la “temporaneità” in senso generico.
La situazione generale sociale ed economica cambiò rapidamente anche a seguito della prima guerra mondiale che dette senz’altro un impulso al settore industriale indispensabile per la produzione dei mezzi bellici con la sua successiva trasformazione in industria civile.
E, di conseguenza, maggiore attenzione viene data al lavoro subordinato che con la legge n. 562 del 18 marzo 1926( che peraltro riguarda il solo lavoro impiegatizio privato)… introduce il principio per cui, come detto, sia pure per il solo lavoro impiegatizio, il contratto di lavoro deve considerarsi a tempo indeterminato, fissando così, per estensione anche al lavoro operaio, il principio generale per cui la tipologia di contratto di lavoro prevalente deve essere quello a tempo indeterminato soddisfacendo esso esigenze sia aziendali che individuali. Le prime richiedevano che il lavoratore rimanendo nella stessa azienda a lungo migliorasse la sua professionalità e si affiliasse all’azienda stessa, le seconde che il lavoratore potesse guardare con più serenità al futuro per sé e la sua famiglia. Infatti l’art. 1, comma 2 della predetta legge, sanciva: “Il contratto d’impiego privato può anche essere fatto con prefissione del termine; tuttavia saranno applicabili in tal caso le disposizioni del presente decreto che presuppongono il contratto a tempo indeterminato quando l’aggiunzione del termine non risulti giustificata dalla specialità del rapporto”.
In linea di fatto nei periodi di buona produzione, quando il mercato “tira”, la preferenza va al contratto a tempo indeterminato; quando vi è crisi la preferenza va al contratto a termine, per non appesantire il bilancio, mettendo a rischio la stessa sopravvivenza dell’impresa, quando peraltro l’occasione è temporanea.
Attraverso lo studio dell’uso più o meno importante del contratto di lavoro a termine si potrebbero studiare i cicli attraversati dall’economia del nostro paese.
Tuttavia non può escludersi che anche in periodo di economia fiorente il datore di lavoro preferisca servirsi del contratto a termine là dove ci sarebbe spazio per il contratto a tempo indeterminato. Di qui è nato nella dottrina e nella giurisprudenza il fenomeno, disdicevole, dell’”abuso del contratto a termine”.
L’Europa è intervenuta con la Direttiva comunitaria del Consiglio del 28 giugno 1999, n.1999/70/CE relativa all’accordo quadro CES, UNICE, CEEP sul lavoro a tempo determinato per sanzionare, nel caso di una successione di contratti a termine appunto il c.d. “abuso del contratto a termine”.
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2. La regolamentazione del contratto a termine nel moderno ordinamento del lavoro subordinato
Non è dunque casuale il succedersi di normative permissive o restrittive sull’uso del contratto a termine, secondo i principi che abbiamo sopra enunciati.
Ce lo dimostra una breve panoramica.
Con l’avvento del nuovo codice, approvato con R. D. 16 marzo 1942, n. 262, la regolamentazione del contratto di lavoro fu ampliata notevolmente.
Per quanto riguarda il nostro tema si continuò sulla linea liberistica per cui l’art. 2097 c.c. recitava: “Durata del rapporto di lavoro. – Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato se il termine non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto. In quest’ultimo caso l’apposizione del temine è priva di effetto, se è fatta per eludere le disposizioni che riguardano il contratto a tempo indeterminato.”.
Ma la stretta sui contratti a termine arrivò ai primi anni ’60 con la Legge 18 aprile 1962, n. 230 che introdusse ipotesi tassative.
Si riprese quindi il cammino della flessibilità, con nuova svolta, con la legge 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23: “Disposizioni in materia di contratto a termine. – L’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro oltre che nelle ipotesi di cui all’art. 1 della Legge 18 aprile 1962, n. 230 è consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale”. E richiamiamo all’uopo l’Accordo interconfederale 18 dicembre 1988 e sue proroghe, punto 10, Inserimento lavorativo, che prevede ipotesi soggettive per le quali è consentita l’assunzione a con-tratto a termine di durata non inferiore a 4 mesi e non superiore ai dodici mesi senza indicare causali predeterminate.
Seguì il D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368 in attuazione della Direttiva comunitaria 1999/70/CE che sembrò stabilizzare l’istituto introducendo la clausola generale ( c.d. da alcuni ‘causalone’) delle “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, clausola che potrebbe considerarsi intermedia tra rigidità e flessibilità.
Seguì quindi la normativa che portò alla c.d. de-causalizzazione del contratto a termine fino alla totale decausalizzazione (Jobs Act).
La Legge 28 giugno 2012, n. 92 (Legge Fornero), prevedeva la a-causalità per il primo rapporto a tempo determinato di durata non superiore ai dodici mesi, così come per la prima missione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato.
Il successivo D.L. 20 marzo 2014, n. 34 (Decreto Poletti), convertito con L. 16 maggio 2014, n. 78, prevedeva la totale a-causalità del contratto a termine per un massimo di 36 mesi, considerando rinnovi e proroghe.
Il D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 (Jobs Act), confermò la a-causalità per la stessa durata.
Analogo trattamento riguardava la somministrazione di lavoro a tempo determinato.
Nei provvedimenti legislativi che prevedevano la causalità viene esplicitamente dichiarato l’intento del legislatore di favorire la crescita attraverso la realizzazione di “un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente di disoccupazione…” (L. n. 92 del 2012) nonché “il rilancio dell’occupazione“ (decreto Poletti).
Il recente provvedimento legislativo, c.d. “Decreto dignità”, D.L. 12 luglio 2018, n. 87, convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2018,n. 96, pubblicata su G. U. n. 186 dell’ 11 agosto 2018, con un parziale ritorno al passato prossimo, ha limitato la a-causalità ad un primo contratto della durata non superiore a dodici mesi, consentendo che potesse durare attraverso proroghe e/o rinnovi fino ad un massimo di 24 mesi per due sole causali:
a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
b) esigenze connesse a incrementi temporanei significativi dell’attività ordinaria (assimilabili alle c.d. punte di lavoro faticosamente delineate dalla giurisprudenza nella precedente regolamentazione, v. la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite 29/9/1983 n. 5739)
Da ultimo il governo in carica ha emanato il decreto 4 maggio 2023 n. 48, che, nel quadro di un ampio disegno concernente la materia del lavoro, ha introdotto una nuova regolamentazione del contratto a termine che è stata oggetto di un primo nostro commento pubblicato su questa Rivista il 30 maggio 2023 cui rimandiamo.
Con legge 3 luglio 2023 n.85 pubblicata su G.U. n. 153 del 3 luglio 2023 il decreto è stato convertito in legge con una importante modifica.
E’ stato consentito il rinnovo senza causali anche per i rinnovi avvenuti entro i primi dodici mesi
Da quanto sopra si evince che tra gli elementi essenziali propri del contratto di lavoro subordinato a termine ravvisiamo : a) una causa del contratto individuale in senso stretto, ossia lo scambio prestazione lavorativa per un tempo determinato / retribuzione; b) una causa che potremmo definire tipica (specialità del rapporto, ragioni di natura tecnica, organizzativa, produttiva o altro), c) una causa superindividuale sul perseguimento di interessi superindividuali da parte del contratto individuale v. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli 2015,pag.777: contenimento dei costi, regolazione del mercato del lavoro. Circa la c.d. acausalità , essa è da intendersi non come mancanza di causa il che sarebbe contrario all’ordinamento ,v, art, 1325 c.c., ma piuttosto mancanza di causa tipica.
Non sono mancate critiche negative di studiosi ritenendo che le nuove norme aumenterebbero la precarietà del lavoratore senza tener conto di tutte le considerazioni che abbiamo su esposto che, invece, in via generale, vedono nel contratto a termine anche aspetti positivi e senza tenere conto che il mercato del lavoro attualmente necessita di un rilancio, attraverso il contenimento dei costi, dopo i difficili periodi per le aziende a causa del Covid e dell’aumento dei costi delle materie prime e in particolare dell’energia.
In particolare c’è chi fa notare che avere esteso l’individuazione di causali anche ai contratti “applicati” nell’azienda, oltre che ai contratti stipulati dalle organizzazioni sindacali nazionali comparativamente più rappresentative, non garantisce sufficiente tutele ai lavoratori considerata la debolezza, se non a volte la connivenza, delle organizzazioni che li hanno stipulati. A tale critica possiamo anche associarci.
Ci pare invece, non del tutto centrata altra la critica a proposito della causale che demanda la giustificazione del contratto a termine alle parti individuali, là dove si asserisce che la formulazione della norma è in questo caso distante dalla impostazione tradizionale del nostro diritto del lavoro, perché in una prima parte fa riferimento a un tipo di causale già noto, (vari commentatori hanno richiamato il cd. causalone del passato) e nella seconda parte affida alle parti il potere di definire il contenuto della causale normativamente definita .Queste diverse novità indurrebbero ad attribuire alle scelte individuali dei lavoratori una rilevanza diretta nelle scelte riguardanti le proprie vicende di lavoro, quella che era negata nella tradizione dei diritto del lavoro e che lo ha voluto tipicamente inderogabile dalle parti individuali a tutela del contraente debole, che ,se è vero come principio generalissimo, ha invece un precedente proprio nella materia de qua ,in quanto ciò avveniva anche nella vigenza del dlgs. n.368/2001( come del resto nota l’autore), dove la legge individuava le causali ma l’applicazione, cioè l’individuazione delle causali specifiche- che non potevano ripetere semplicemente la formulazione legislativa- toccava alle parti del contratto (datore-lavoratore) e che è pur sempre preferibile a una a-causalità che lascia alla parte “forte” del contratto di stabilire in pieno arbitrio la scelta del tipo di contratto e troverebbe comunque un rimedio nel fatto che, come del resto si aggiunge anche da chi avanza la critica l’interprete ( il giudice ? nda) è chiamato ad adattare il significato della norma mettendolo a confronto con la logica espressa dal singolo contratto tra le parti.
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A cura di Vincenzo Ferrante | Maggioli Editore 2023
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