Quando deve esistere il requisito anagrafico durante il processo da parte del giudice popolare.
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1. La questione
La Corte di Assise di Appello di Palermo annullava una sentenza della Corte di Assise di primo grado che aveva condannato l’imputato alla pena dell’ergastolo e alla pena di venticinque anni di reclusione per il delitto di omicidio, nonché per quello di porto illegale di una pistola.
In particolare, i giudici di seconde cure erano addivenuti a siffatta conclusione, avendo rilevato d’ufficio – seppure sollecitata dalle difese degli imputati che, con motivi aggiunti, avevano sollevato il problema – un vizio di composizione del collegio giudicante di primo grado, per la partecipazione al processo di un giudice popolare che nel corso dell’istruzione dibattimentale aveva superato il sessantacinquesimo anno di età, così determinando una nullità assoluta ed insanabile ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. a) c.p.p..
Più nel dettaglio, ripercorsi gli orientamenti giurisprudenziali di legittimità sul tema, la Corte territoriale di secondo grado aveva osservato che l’uniforme indirizzo esegetico ritiene l’età del giudice popolare, fissata nel limite minimo di trent’anni e in quello massimo di sessantacinque anni, ai sensi dell’art. 9 della Legge 10 aprile 1951, n. 287 e successive modifiche, un requisito di capacità giuridica allo svolgimento della funzione giudicante, prescritto non soltanto per l’acquisto della capacità generica di esercizio della funzione, ma anche al fine della capacità specifica che investe la costituzione del giudice nel singolo processo.
Tal che se ne faceva conseguire come la perdita di detto requisito anagrafico operi ex lege ed impedisca automaticamente l’ulteriore espletamento delle funzioni giudiziarie da parte del soggetto che abbia oltrepassato il limite di età, essendo inammissibile una sorta di prorogatio, oltre i termini di legge, delle condizioni di capacità del giudice popolare, allo stesso modo in cui avviene per i giudici togati al raggiungimento dell’età massima di settanta anni.
Ciò posto, avverso questo provvedimento proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore generale presso la Corte di Appello di Palermo che deduceva inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, erronea applicazione di legge penale e contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
La pubblica accusa, infatti, in tale ricorso, osservava prima di tutto che l’analisi sistematica della L. n. 287/1951 consente di escludere che il requisito anagrafico debba sussistere fino al momento della decisione del processo al quale partecipa il giudice popolare, rilevando, al riguardo, l’art. 13 della citata Legge, che disciplina le modalità di “formazione degli elenchi comunali dei giudici popolari”, prevedendo che in tali elenchi siano inseriti i cittadini residenti nel territorio del Comune “in possesso dei requisiti indicati nell’art. 9 della legge per l’esercizio delle funzioni di giudice popolare”, oltre che l’art. 33 il quale regola la fase immediatamente successiva all’estrazione, prevedendo nel comma 3 che nelle estrazioni non si computino o si abbiano per non estratti i nomi di coloro i quali risultino di età superiore ai 65 anni.
Orbene, per l’autorità requirente, la lettura sistematica deve intendersi nel senso che il requisito anagrafico deve sussistere in capo al giudice popolare sino al momento della estrazione del nominativo dagli elenchi, ovvero sino al momento in cui viene designato per partecipare alla sessione di Assise.
Invece, a parere del ricorrente, estendere la necessaria sussistenza del requisito sino al momento della sentenza sarebbe infondato sul piano logico e giuridico, dato che non vi è alcuna norma che prevede il limite massimo di età per partecipare alla decisione: l’art. 26 della L. n. 287 del 1951 espressamente prevede che “i giudici popolari chiamati a prestare servizio, esercitano le loro funzioni in tutte le cause della sessione”, senza indicare alcuno sbarramento per i giudici che nelle more della sessione superino il limite di età mentre, a tenore della citata disposizione, le uniche ipotesi che legittimano la sostituzione del giudice popolare con un giudice supplente sono tassativamente indicate in quelle concernenti l’impedimento, l’astensione e la ricusazione del giudice, senza alcun riferimento al requisito anagrafico.
Oltre a ciò, era altresì fatto presente che, sempre ad avviso dell’impugnante, pure alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata, si giunge al medesimo risultato, dovendosi considerare i parametri costituzionali posti dall’art. 25 Cost., che sancisce il principio del giudice naturale precostituito dalla Legge, e dall’art. 97, comma 2, che attiene al buon andamento e all’imparzialità dell’amministrazione, criteri che sarebbero pregiudicati qualora insorgesse la necessità di sostituire un giudice popolare per raggiunti limiti di età nel corso di processi lunghi e laboriosi (ad esempio, nei maxi-processi per fatti di criminalità organizzata).
Pertanto, il Procuratore generale ricorrente rinnovava la sollecitazione all’interpello di costituzionalità, nel caso in cui non si acceda alla proposta ricostruzione normativa, affermando che la questione di legittimità era senz’altro rilevante, in quanto nel caso in esame risultava palese l’intralcio alla corretta amministrazione della giustizia, poiché il giudice popolare che aveva oltrepassato in itinere il requisito anagrafico era l’ultimo giudice supplente residuato, ragion per cui sarebbe stato impossibile sostituirlo tempestivamente.
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2. La soluzione adottata dalla Cassazione
La Suprema Corte riteneva il ricorso summenzionato fondato.
In particolare, gli Ermellini pervenivano a siffatto esito decisorio, richiamando innanzitutto il quadro normativo di riferimento nei seguenti termini: “L’assetto legislativo emergente dalla Legge 10 aprile 1951, n. 287 e successive modifiche (Riordinamento dei giudizi di Assise) indica all’art. 9 i requisiti dei giudici popolari delle Corti di Assise, richiedendo: a) cittadinanza italiana e godimento dei diritti civili e politici; b) buona condotta morale; c) età non inferiore ai 30 e non superiore ai 65 anni; d) titolo finale di studi di scuola media di primo grado, di qualsiasi tipo (per le Corti di Assise di appello, è invece richiesto il diploma di scuola media di secondo grado, come prevede l’art. 10). L’art. 13 disciplina la formazione degli elenchi comunali dei giudici popolari, prevedendo due distinti elenchi dei cittadini residenti nel territorio del Comune in possesso dei requisiti indicati rispettivamente negli artt. 9 e 10. L’art. 26 – intitolato “Servizio dei giudici popolari, loro integrazione e sostituzione” – prescrive che “I giudici popolari chiamati a prestare servizio esercitano le loro funzioni in tutte le cause della sessione, salvo che esistano motivi di impedimento, di astensione o di ricusazione.”. L’art. 33, comma 3, prevede che nelle estrazioni non si computano o si hanno per non estratti i nomi di coloro che risultino, da sentenza passata in giudicato, non più in possesso dei requisiti prescritti dall’art. 9, oppure risultino, in base a certificato della competente autorità, non più cittadino italiano o di età superiore ai 65 anni””.
Orbene, alla luce di quanto previsto da tali disposizioni legislative, i giudici di piazza Cavour ne traevano una prima indicazione consistente nella necessità che il requisito anagrafico – età non inferiore a 30 anni o non superiore a 65 anni – sia esistente all’atto della formazione degli elenchi dei cittadini residenti nel comune interessato, e perdurante – quanto al limite massimo di età – al momento dell’estrazione dei nominativi di coloro che effettivamente dovranno comporre le giurie popolari chiamate a trattare le cause della sessione, visto che è la sessione l’orizzonte che il legislatore ha posto in evidenza come limite cronologico del servizio del giudice popolare, esentandolo soltanto qualora esistano motivi di impedimento, di astensione o di ricusazione, fermo restando che, tra gli indicati motivi di esenzione dal servizio, non figura anche il superamento del limite di età, dovendosi individuare i motivi di impedimento in ragioni di carattere eccezionale – ad esempio riguardanti la sfera della salute o necessità impeditive inevitabili – che impongono la rinuncia al servizio di giudice popolare, che deve essere autorizzata dal Presidente della Corte di Assise, ai sensi dell’art. 25, commi 4 e 5, L. n. 287 del 1951.
Ciò posto, da tale inquadramento, inoltre, il Supremo Consesso ne faceva discendere che il requisito anagrafico rileva ai fini dell’acquisto della qualità di giudice e deve sussistere al momento in cui il nominativo è inserito nelle liste comunali e perdurare all’atto dell’estrazione dei nominativi dei componenti della giuria, essendo questo il momento ultimo in cui va verificata l’età del giudice popolare, come emerge dall’art. 33 che prescrive di espellere i nominativi di coloro che abbiano superato 65 anni.
Oltre a ciò, era per di più notato che la legge di riordino dei giudizi di Assise non detta alcuna disposizione espressa per il caso in cui il giudice popolare perda taluno dei requisiti di legge nel corso del processo, così come, quanto al superamento dell’età massima, nessun ausilio proviene dai lavori parlamentari, nemmeno dal relatore di maggioranza della Legge che, a sua volta, rilevava quanto segue: “È evidente che il requisito dell’età si riferisce al momento in cui deve essere costituito il collegio; e quindi, se in quel momento una persona ha superato il 65 anno di età, egli non potrà fare parte del collegio”.
Orbene, per gli Ermellini, tale affermazione non fa che ribadire che il requisito anagrafico va verificato al momento iniziale del servizio, con sbarramento che la legge ha poi specificato essere quello dell’estrazione dei nominativi.
A fronte di ciò, i giudici di legittimità ordinaria evidenziavano invece come la tematica della perdita dei requisiti di legge da parte del giudice popolare sia stata affidata all’elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria.
Pur tuttavia, ad avviso della Corte di legittimità, le pronunce, che hanno indicato il superamento dell’età massima come motivo di perdita della capacità di esercizio della funzione giurisdizionale nel corso del processo, devono essere consapevolmente disattese, trattandosi di pronunce risalenti e non sempre perfettamente ritagliate sulla specifica tematica del requisito anagrafico.
Si osservava difatti a tal proposito che la prima sentenza rilevante è quella di Sez. 1, n. 7971 del 28/05/1984 che, occupandosi del problema delle condizioni psichiche o fisiche del giudice popolare sino al momento della sua eventuale sostituzione illustrava la distinzione tra capacità di acquisto della qualità di giudice e capacità di esercizio della funzione giurisdizionale, sul punto precisava che a “tenore degli artt. 9 e 10 della L. 10 aprile 1951 n. 287, sul riordinamento dei giudizi di assise, la capacità di acquisto della qualità di giudice popolare postula la sussistenza di taluni requisiti positivi – quali la cittadinanza italiana, il godimento dei diritti civili e politici, la buona condotta morale, l’età, il titolo di studio – e di altri negativi, consistenti nell’assenza di talune cause di incompatibilità previste dall’art. 12 della stessa legge. Per l’esercizio in concreto della funzione di giudice popolare si richiedono altresì la capacità generica di esercizio – la quale si consegue mediante l’iscrizione nell’apposito albo formato da una speciale Commissione esistente presso ogni Comune – nonché la capacità specifica di esercizio, che si acquista mediante l’estrazione a sorte ed il giuramento. Da tali premesse conseguono i seguenti principi: 1) che la legittimazione del giudice popolare all’esercizio della funzione giurisdizionale diviene operante dopo il conseguimento, da parte del soggetto, delle anzidette capacità di acquisto e di esercizio; 2) che i requisiti per l’esercizio in concreto della funzione di giudice popolare devono sussistere non solo nel momento in cui il soggetto è incluso nell’elenco dei giudici popolari, ma soprattutto quando egli è chiamato ad assolvere il suo dovere di giudice; 3) che, alla stregua della legislazione vigente, non è previsto oltre ai requisiti necessari per la capacità di acquisto e di esercizio della funzione giurisdizionale, anche l’accertamento psicofisico del giudice popolare; 4) che, infine, quest’ultimo esercita validamente le sue funzioni sino a quando non interviene una sentenza o altro provvedimento, che comporti la perdita di taluno dei requisiti indispensabili per l’esercizio della funzione giurisdizionale.”.
Detta pronuncia, dunque, enucleava principi specifici, ancorando la necessità che sussistano i requisiti di legge allorché il giudice popolare “è chiamato ad assolvere il suo dovere di giudice” – che non implica automaticamente la perdita di tale qualità in medias res – e richiedendo che la perdita di tali requisiti sia certificata da un espresso provvedimento o sentenza, fino alla cui emanazione il giudice popolare esercita validamente le sue funzioni.
Ciò posto, a sua volta, la sentenza di Sez. 1, n. 5284 del 23/3/1998, che fondava l’elaborazione giurisprudenziale sullo snodo in esame in termini trancianti, in realtà si focalizzava sul caso di un giudice popolare dispensato dal servizio nel corso del processo, poiché detto giudice aveva dichiarato di volersi astenere in quanto legato da rapporti di amicizia con il padre della vittima dell’omicidio che si stava giudicando.
In particolare, il Presidente della Corte di Assise non aveva adottato il provvedimento di cui all’art. 31 L. 10 aprile 1951 n. 287 relativo all’astensione, ma quello di dispensa, motivato, in via esclusiva, con il rilievo che quel giudice avrebbe sicuramente compiuto 65 anni prima del ragionevole e prevedibile termine del procedimento, così superando il limite di età indicato dalla citata legge.
Nella motivazione, nel rigettare il ricorso che aveva eccepito la nullità dell’ordinanza con la quale il Presidente della Corte di Assise aveva disposto la sostituzione di quel giudice popolare, oltre ad essere enunciato il principio di diritto secondo cui il “requisito dell’età, al pari delle altre condizioni di capacità dei giudici popolari, deve sussistere sino al momento della definizione del processo, e non può essere inteso come riferito esclusivamente al momento della iscrizione negli albi comunali o, al massimo, fino al successivo momento della estrazione per la formazione del collegio”, si era oltre tutto ritenuto che, essendo entrambi i provvedimenti, quello sull’astensione, nella specie da accogliere, e quello sulla dispensa, esattamente adottato, finalizzati a garantire il corretto svolgimento del procedimento, previa sostituzione del titolare con il supplente, fosse da escludere qualsiasi nullità del genere di quella invocata con il ricorso.
A ben vedere, dunque, per la Corte di legittimità, il principio massimato avrebbe dovuto intendersi come un obiter dictum nell’ambito di una valutazione che in sede di cognizione era stata primariamente incentrata sulla situazione dedotta a motivo di astensione.
Chiarito cosa prevedeva questa pronuncia, gli Ermellini facevano altresì presente che ad essa era seguita la sentenza di Sez. 1, n. 14209 del 20/3/2002, che si limitava a recepire il principio massimato senza ulteriori elaborazioni, mentre pronunce successive si erano occupate in generale della sorte delle sentenze deliberate da giudici che avevano perso i requisiti di legge nell’intervallo tra la deliberazione della decisione e la redazione delle motivazioni, ritenendo irrilevante tale situazione, per essere sufficiente che la capacità di svolgere la funzione giurisdizionale esistesse all’atto della deliberazione (Sez. 5, n. 4730 del 16/03/2000, per il caso di un vicepretore onorario; Sez. 5, n, 17795 del 02/03/2017; Sez. 3, n. 4692 del 12/09/2019).
Ciò posto, terminate di esaminare le decisioni emesse sempre dalla Cassazione in subiecta materia, si sottolineava tra l’altro come dovesse essere superato anche l’argomento che deduceva l’immediata perdita di capacità giurisdizionale del giudice popolare dalla parificazione con il giudice professionale, il quale è posto in quiescenza al compimento del 70 anno di età, dal momento che vari profili convergono nel distinguere le due situazioni: il giudice togato o professionale è legato alla Pubblica Amministrazione da un rapporto organico di servizio che si dipana dalla nomina a seguito di concorso pubblico fino al pensionamento, laddove il giudice popolare viene invece estratto a sorte e abilitato alla trattazione di processi incardinati nel solo trimestre della sessione di competenza, al cui esito egli cessa di esercitare la funzione così conferitagli.
I requisiti richiesti per lo svolgimento di detto munus pubblico, invero, sono eterogenei ma, proprio per aderire alla ratio che aveva ispirato il sistema delle Corti di Assise, inserendo giudici non professionali nei collegi giudicanti dei fatti di rilievo penale maggiormente involgenti la sensibilità del popolo, non hanno competenze specifiche in materie giuridiche e sono essenzialmente temporanei, rendendo il loro servizio esclusivamente durante il periodo trimestrale della sessione in cui sono stati sorteggiati (salvo prolungamenti dovuti alla durata del singolo processo, come prevede l’art. 7, comma 1, citata legge), e per così dire, occasionali, non potendo essere sorteggiati una seconda volta prima di un determinato periodo (l’art. 32 L. n. 287 del 1951 prevede che i giudici popolari che hanno prestato servizio in una sessione d’assise non possono essere chiamati ad esercitare le loro funzioni nelle sessioni della rimanente parte del biennio).
Tali differenze strutturali e funzionali militano in effetti, per la Corte, nel senso di una impossibile parificazione delle situazioni.
La Suprema Corte, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, giungeva alla conclusione secondo la quale la mancanza di disciplina specifica, per il caso di perdita del requisito anagrafico durante il processo da parte del giudice popolare, autorizza l’interpretazione per cui detto requisito deve esistere al momento dell’accesso alla funzione – specificamente, all’atto del giuramento che consacra l’assunzione dell’ufficio secondo la formula enunciata nell’art. 30 della Legge 10 aprile 1951, n. 287 – fino al completamento del processo nel cui corso il giudice popolare abbia compiuto il 65 anno di età, atteso che eventuali esclusioni anticipate dall’ufficio di giudici popolari estratti prima del compimento di tale età, nella previsione di prolungamento dei processi oltre tale momento, non sarebbero giustificate dalla lettera della legge, così come non potrebbe darsi luogo all’immissione nell’ufficio di una persona il cui nominativo fosse stato estratto il giorno prima del compimento del 30 anno di età.
Il Supremo Consesso, pertanto, annullava l’impugnata sentenza per consentire lo svolgimento del processo di appello, non essendosi verificata alcuna nullità della sentenza di primo grado.
3. Conclusioni
La decisione in esame desta un certo interesse, essendo ivi chiarito quando deve esistere il requisito anagrafico durante il processo da parte del giudice popolare.
La Corte di Cassazione, difatti, nella pronuncia qui in commento, dopo un articolato ragionamento giuridico, è giunta ad affermare che il requisito anagrafico durante il processo da parte del giudice popolare deve esistere al momento dell’accesso alla funzione – specificamente, all’atto del giuramento che consacra l’assunzione dell’ufficio secondo la formula enunciata nell’art. 30 della Legge 10 aprile 1951, n. 287 – fino al completamento del processo nel cui corso il giudice popolare abbia compiuto il 65 anno di età.
In questo arco temporale, dunque, il giudice popolare può legittimamente esercitare le funzioni giudiziarie conferitele, e non si può eccepire alcuna invalidità di sorta in merito al suo operato.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, quindi, proprio perché prova a fare chiarezza su siffatta tematica procedurale sotto il profilo giurisprudenziale, non può che essere che positivo.
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