Sulla base di quali elementi si deve fondare il procedimento incidentale di cui all’art. 500, co. 4, c.p.p.
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Indice
1. La questione
La Corte di Appello di Roma confermava una decisione del Tribunale di Roma che, a sua volta, aveva ritenuto l’imputato responsabile del reato di lesioni aggravate dall’aver agito per futili motivi ed in danno della moglie, così riqualificata l’iniziale contestazione di tentato omicidio, commesso nei confronti di quest’ultima, e lo aveva condannato alla pena di anni due e mesi otto di reclusione, concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle suddette aggravanti.
Ciò posto, avverso il provvedimento emesso dai giudici di seconde cure proponeva ricorso per Cassazione la difesa dell’accusato che, tra i motivi ivi addotti, deduceva violazione di legge, in relazione, in particolare all’art. 192 ed all’art. 500, comma 4, c.p.p..
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2. La soluzione adottata dalla Cassazione
Il motivo summenzionato era reputato inammissibile perché, ad avviso del Supremo Consesso, si era tradotto in mere censure di fatto, nonché in contrasto con quell’orientamento nomofilattico secondo il quale il procedimento incidentale diretto ad accertare gli elementi concreti per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità al fine di non deporre o di deporre il falso, deve fondarsi su parametri di ragionevolezza e di persuasività, nel cui ambito può assumere rilievo qualunque elemento sintomatico dell’intimidazione subita dal teste, purché sia connotato da precisione, obiettività e significatività, secondo uno “standard” probatorio che non può essere rappresentato dal semplice sospetto, ma neppure da una prova “al di là di ogni ragionevole dubbio”, richiesta soltanto per il giudizio di condanna (Sez. 6, n. 25254 del 24/1/2012; Sez. 6, n. 21699 del 19/2/2013; quanto alle intimidazioni, cfr., anche, nello stesso senso, Sez. 2, n. 29393 del 22/4/2021), ritenendosi, per contro, le argomentazioni addotte nella sentenza impugnata sul punto coerenti con siffatto principio di diritto.
3. Conclusioni
Fermo restando che, come è noto, l’art. 500, co. 4, c.p.p. prevede che, quando “anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento e quelle previste dal comma 3[1] possono essere utilizzate”, la decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi chiarito sulla base di quali elementi si deve fondare siffatto procedimento acquisitivo della prova.
Si afferma difatti in tale pronuncia, sulla scorta di un pregresso e costante orientamento nomofilattico, che il procedimento incidentale diretto ad accertare gli elementi concreti per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità al fine di non deporre o di deporre il falso, deve fondarsi su parametri di ragionevolezza e di persuasività, nel cui ambito può assumere rilievo qualunque elemento sintomatico dell’intimidazione subita dal teste, purché sia connotato da precisione, obiettività e significatività, secondo uno “standard” probatorio che non può essere rappresentato dal semplice sospetto, ma neppure da una prova “al di là di ogni ragionevole dubbio”, richiesta soltanto per il giudizio di condanna.
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione ogni volta si debba appurare se ci siano le condizioni di legge per potere applicare l’art. 500, co. 4, c.p.p..
Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, dunque, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su siffatta tematica procedurale sotto il versante giurisprudenziale, non può che essere che positivo.
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