Errore diagnostico: aspetti penali e civili della responsabilità medica

Marco Rossi 06/09/23
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Nell’ambito della pratica medica, l’accuratezza nella diagnosi rappresenta senza alcuna ombra di dubbio il punto di arrivo determinante per la sicurezza e l’efficacia delle cure al paziente. Tuttavia, pur riconoscendo i progressi della medicina moderna e l’avanzato stadio della formazione medica, è indiscutibile che il processo diagnostico può talvolta presentare inesattezze ed errori che espongono il paziente ad un pregiudizio che può variare – a seconda del quadro clinico e della gravità dell’errore – dall’inefficacia delle cure somministrate alla totale compromissione del suo stato di salute.
 Ci si domanda spesso, oltre alle conseguenze cliniche, quali siano le implicazioni giuridiche dell’inesatta diagnosi su un paziente che ha, in seguito, subito un aggravamento delle proprie condizioni e quali, allo stato attuale del diritto, possano dirsi i limiti della responsabilità medica in tale contesto. Questo articolo intende esplorare sinotticamente gli aspetti della responsabilità civile e penale del medico in relazione all’errore diagnostico, fornendo un quadro normativo e giurisprudenziale sull’argomento ed evidenziandone i profili da reputarsi maggiormente controversi.
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Indice

1. Errore diagnostico: definizione e scusabilità


Non rinvenendosi in alcuna disposizione di legge, la definizione del termine è ricavabile dal consolidato orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte. Secondo gli Ermellini, infatti, si parla di errore diagnostico quando “in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga ad un inquadramento erroneo[1] o nel caso in cui “si ometta di eseguire o disporre controlli ed accertamenti doverosi, ai fini di una corretta formulazione della diagnosi[2]. Inoltre, sulla base di ulteriori pronunce posteriori ed anteriori, sempre la Suprema Corte sostiene che “nel caso in cui il sanitario si trovi di fronte a una sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, la condotta è colposa quando non vi si proceda, mantenendosi nell’erronea posizione diagnostica iniziale[3].
Si è quindi in presenza di un termine connesso ad una pluralità di condotte che, premessa la sussistenza di un preciso quadro sintomatologico, assume significato quando il medico:
a)     Fallisce nell’inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza
b)     Omette di eseguire o disporre ulteriori accertamenti medici ritenuti doverosi
c)     Rimane convinto di un’erronea posizione diagnostica precedentemente assunta benché posta in forte dubbio dalla sintomatologia e dall’anamnesi
Chiarite quindi le condotte che rientrano nella generica definizione di errore diagnostico e postulando un certo grado di incertezza proprio della pratica clinica, è lecito domandarsi, al fine di escludere la responsabilità penale del medico, quali sia l’area di non punibilità entro la quale tale errore possa dirsi scusabile.
Con l’entrata in vigore della legge 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. Legge Gelli-Bianco) – assieme all’introduzione di una specifica causa di non punibilità all’art. 590-sexies c.p. –  è stato abrogato l’art. 3, comma 1 della precedente legge 8 novembre 2012, n. 189che prevedeva l’esclusione automatica della responsabilità per colpa lieve in capo al sanitario che “nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”. Allo stato dell’arte, quindi, non sussiste più la gradazione – sul piano letterale – tra la generica colpa grave e colpa c.d. “lieve” per imprudenza, negligenza o imperizia. Di conseguenza, sulla base del dettato normativo introdotto con l’art. 590-sexies c.p., la possibilità di non ascrivere in capo al medico la responsabilità penale per la morte del paziente o le lesioni che derivino da un suo errore diagnostico va circoscritta esclusivamente alle sole situazioni di imperizia clinica, a patto che siano rispettate le linee-guida o le buone pratiche clinico-assistenziali.
Successivamente, con una nota pronuncia delle Sezioni Unite – certamente peggiorativa per quanto si attiene alla tutela degli operatori sanitari – si è giunti ad una reintroduzione di un profilo di colpa anche in particolari casi di imperizia del medico. La giurisprudenza della Cassazione ritiene che egli debba rispondere delle conseguenze lesive derivanti dal suo errore diagnostico anche nel caso in cui fallisca ad individuare le linee-guida e le pratiche clinico-assistenziali da applicare al caso concreto o, operando in assenza di queste e valutata la specificità del caso, gli sia rimproverabile la colpa grave. Secondo la Cassazione, infatti, il medico deve essere “preparato sulle leges artis e impeccabile nelle diagnosi anche differenziali, capace di fare scelte ex ante adeguate e di personalizzarle”[4].
Rimane ora un ultimo dubbio da sciogliere per completare il quadro della scusabilità dell’errore diagnostico: cosa sia da intendersi per linee-guida e buone pratiche clinico-assistenziali.
L’art. 5 della legge 8 marzo 2017, n. 24 stabilisce che gli esercenti le professioni sanitarie “si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 (all’interno del Sistema Nazionale per le Linee Guida, n.d.r.) ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute”[5]. Tuttavia, in mancanza di linee-guida ufficiali pubblicate nel SNLG, il medico è tenuto a conformarsi rigorosamente “alle buone pratiche clinico-assistenziali”[6] universalmente riconosciute dalla comunità scientifica internazionale come efficaci, sicure ed adeguate. Perché tali pratiche possano dirsi “buone”, quindi, il loro riconoscimento deve essere basato su robuste evidenze empiriche o su un consenso consolidato derivante da prassi cliniche svoltesi nel corso degli anni.


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2. Responsabilità penale


Relativamente alle ripercussioni derivanti da un errore diagnostico, per il quale è concepibile postulare una responsabilità penale del medico, è pertinente evidenziare che le conseguenze si manifestano, nella quasi totalità dei casi, in termini di peggioramento dello stato di salute del paziente o, nelle situazioni più gravi, nella morte. Tali eventi sono da ricondursi, senza alcuna ombra di dubbio, alle fattispecie penali tipiche delle lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) e all’omicidio colposo (art. 589 c.p.). In aggiunta, sulla base di un recente orientamento della giurisprudenza fondata sul concetto giuridico di malattia, l’errore diagnostico assume rilevanza anche quando, pur non procurando un aggravamento delle condizioni del paziente, “generi la dilatazione del periodo necessario al raggiungimento della guarigione o della stabilizzazione dello stato di salute”[7].
È lapalissiano che, al fine di potersi ascrivere uno dei reati di cui sopra in capo al medico, il ruolo del nesso causale tra l’errore diagnostico e il pregiudizio subito dal paziente si trovi a ricoprire una rilevanza centrale nella determinazione della responsabilità del sanitario.
Avendo già esaminato nel paragrafo precedente la scusabilità dell’errore diagnostico e trovandoci ora a valutare il profilo penale proprio della condotta, è più che opportuno contestualizzare la causa di non punibilità introdotta dalla sopracitata legge 8 marzo 2017, n. 24. Il secondo comma dell’art. 590-sexies prevede che qualora l’evento dannoso per lo stato di salute del paziente – o la sua morte – sia da attribuirsi all’imperizia del medico nel processo diagnostico, egli non può essere considerato punibile “quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”. Quindi, fuori dai numerosi dibattiti giurisprudenziali circa la sua interpretazione, l’art. 590-sexies circoscrive, in modo del tutto inequivocabile, la scusabilità dell’errore esclusivamente al dominio dell’imperizia, a condizione che l’agire del sanitario appaia essere governata, nel suo complesso, da linee guide accreditate e adeguate al caso di specie.
In conclusione, la responsabilità penale del professionista medico si concretizza esclusivamente qualora possa essere stabilito un nesso causale diretto tra la condotta negligente o imprudente dello stesso e l’evento dannoso; è fondamentale valutare se tale nesso non avrebbe avuto luogo se il medico avesse rispettato con diligenza il suo obbligo di impiego dei mezzi appropriati al caso specifico.

3. Responsabilità civile


La determinazione della tipologia di responsabilità civile del medico è da sempre origine di numerosi dubbi in dottrina e in giurisprudenza. Le sfumature tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, le peculiarità delle condotte sanitarie e le incertezze diagnostiche rendono arduo tracciare confini precisi e univoci in materia di responsabilità civile del medico.
Precedentemente, la determinazione della tipologia di responsabilità – contrattuale o extracontrattuale – era fortemente legata al soggetto al quale questa veniva attribuita; si ipotizzava la responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. per le strutture sanitarie e il medico libero professionista, mentre la caratterizzazione della responsabilità del medico dipendente risultava essere oggetto di maggiore contenzioso e discussione giurisprudenziale per via delle difficoltà nell’inquadrare univocamente il regime applicabile nel c.d. “contatto sociale” che si instaura tra medico e paziente.
Con l’attuale legge 8 marzo 2017, n. 24 si ha ora maggiore certezza inerentemente all’inquadramento della responsabilità medica. L’art. 7 colloca definitivamente nell’ambito della responsabilità contrattuale il comportamento doloso o colposo della struttura sanitaria pubblica o privata che “nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria[8]; lo stesso vale anche qualora la struttura eroghi “prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il  Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina[9]. Il medico è invece sempre tenuto al risarcimento del danno ex art. 2043 (responsabilità extracontrattuale) fuori dall’ipotesi in cui operando “nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente” si possa tornare a parlare di responsabilità contrattuale.
Dal punto di vista del diritto civile, l’errore diagnostico commesso con colpa grave – dal quale derivi una lesione alla salute del paziente – obbliga sempre al risarcimento del danno. Difatti, il medico – ai sensi dell’art. 10 della l. 8 marzo 2017, n. 24 – deve provvedere “alla stipula, con oneri a proprio carico, di un’adeguata polizza di assicurazione per colpa grave”. Differente discorso può essere fatto quando si parla di colpa lieve nei casi di imperizia clinica che, afferma la Cassazione, “non esime dalla responsabilità civile, che considera la colpa in una dimensione lata, inclusiva del dolo e della diligenza professionale”[10].
 Circa l’onere della prova, consolidata giurisprudenza afferma che “nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale” dimostrando che “la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno, sicché ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata”[11]. L’accertamento della causalità nell’ambito civile, infatti, è meno rigorosa rispetto a quella propria del procedimento penale che richiede, al fine dell’applicazione della pena, una convinzione nel giudizio che vada “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

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A cura di Fabio Maria Donelli e Mario Gabbrielli | Maggioli Editore 2022

Note

  1. [1]

    Cass., Sez. IV, 22 giugno 2018, n. 47748

  2. [2]

    ibid

  3. [3]

    Cass., Sez. IV, 29 novembre 2005, n. 4452

  4. [4]

    Cass., Sez. Un., 21 dicembre 2017, n. 8770

  5. [5]

    Art. 5, comma 1, l. 8 marzo 2017, n. 24

  6. [6]

    ibid

  7. [7]

    Cass., Sez. IV, 8 novembre 2019, n. 5315

  8. [8]

    Art. 7, comma 1, l. 8 marzo 2017, n. 24

  9. [9]

    Art. 7, comma 2, l. 8 marzo 2017, n. 24

  10. [10]

    Cass. Civ., Sez. III, 19 febbraio 2013, n. 4030

  11. [11]

    Cass. Civ., Sez. III, 8 novembre 2019, n. 5315

Marco Rossi

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