Molestie sul luogo di lavoro per instaurare una relazione: è stalking

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La Corte di Cassazione, con una recente sentenza (n. 38448 del 20 settembre 2023), ha sancito che le molestie reiterate sul luogo di lavoro nei confronti di una collega per instaurare una relazione integrano il reato di atti persecutori ex art. 612-bis c.p.

Per approfondire si consiglia: Il reato di stalking

Indice

Corte di Cassazione – Sez. V Pen – Sentenza n. 38448 del 20-09-2023

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1. Il reato di atti persecutori

Introdotto dal legislatore con d.l. 23 febbraio 2009 n. 11, convertito in l. n. 23 aprile 2009 n. 28, l’art. 612-bis c.p. disciplina il reato di atti persecutori.
Il primo comma dispone che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita“.
Ed è proprio da tale disposizione che rinveniamo i caratteri essenziali di tale fattispecie: si tratta, infatti, di un reato abituale, per la cui configurazione è necessaria la reiterazione delle condotte consistenti in minacce o molestie.
Queste condotte, poi, devono necessariamente causare anche solo uno di questi eventi: perdurante e grave stato di ansia o paura; fondato timore per l’incolumità propria o di prossimi congiunti; costrizione all’alterazione delle proprie abitudini di vita.
In un recente passato, la Corte di Cassazione ha tracciato la differenza tra la fattispecie in esame e quella di molestia sancendo che il criterio distintivo tra tali reati “consiste nel diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta che, in entrambi i casi, può estrinsecarsi in varie forme di molestie, sicché si configura il delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen. solo qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita, mentre sussiste il reato di cui all’art. 660 cod. pen. ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato” (Cass. sent. n. 15625/2021).

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2. Il fatto: stalking e molestie sul lavoro

La decisione della Suprema Corte scaturisce dal ricorso proposto dall’imputato che si è visto condannato dal Tribunale di Milano e dalla Corte d’appello (che confermava la sentenza di primo grado) per il delitto di atti persecutori in quanto, nel tentativo di dare vita a una relazione sentimentale con una collega, ha posto in essere una serie di molestie sul luogo di lavoro nei suoi confronti.
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui ha chiesto l’annullamento, l’imputato ha proposto ricorso lamentando violazioni di legge e vizi di motivazione, in particolare relativi alla sussistenza dell’elemento psicologico richiesto dal reato, all’intervenuto risarcimento del danno in favore della persona offesa e del mancato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena.

3. La decisione della Cassazione

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 38448 del 20 settembre 2023, ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo che la Corte territoriale abbia reso una motivazione del tutto esente dai denunciati vizi.
In particolare, inizialmente la Suprema Corte ha ripreso ulteriori autorevoli orientamenti secondo i quali “le dichiarazioni della persona offesa possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, non trovando applicazione nei confronti della persona offesa le regole di valutazione della prova dettate dall’art. 192, comma 3 c.p.p., previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto che, peraltro, deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone” (Cass. SS.UU., sent. n. 41461/2012).
Spetta, pertanto, al giudice di merito procedere ad un esame critico delle risultanze processuali ai fini della verifica di tale attendibilità, cosa che, ritiene la Suprema Corte, la corte territoriale ha rispettato giungendo ad un giudizio positivo.
Per ciò che concerne l’elemento soggettivo, secondo la Corte “il ricorrente non si confronta realmente con la specifica motivazione resa sul punto dalla corte territoriale, che ha desunto, con logico argomentare, l’esistenza del dolo generico dalle modalità ripetitive delle singole condotte, ritenute sintomatiche della rappresentazione e volontà dell’imputato di attuare il proprio disegno criminoso di persecuzione della persona offesa. Ed invero il dolo generico che connota l’elemento soggettivo del delitto di atti persecutori è integrato proprio dalla volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice sicché, decisiva, nell’accertamento che il giudice di merito deve svolgere sul punto appare la ricostruzione delle modalità dell’azione criminosa“.
Per quanto riguarda il motivo relativo all’accordo risarcitorio tra l’imputato e la persona offesa, la Corte lo rigetta in quanto motivo nuovo che, comunque, non mina l’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa (tra l’altro, non costituita parte civile).
Infine, relativamente alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena, la Cassazione ha stabilito che la Corte d’appello ha giustamente escluso che ricorrano nel caso in esame i presupposti per tale beneficio, “alla luce della pervicacia della condotta dell’imputato, quindi della intensità del dolo, in quanto egli ha proseguito nelle condotte moleste per un periodo di tempo prolungato e anche dopo la denuncia presentata dalla persona offesa e i provvedimenti aziendali adottati nei suoi confronti“.
Ad avviso della Corte di Cassazione, “si tratta di una decisione del tutto conforme all’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di sospensione condizionale della pena, il giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha l’obbligo di prendere in esame tutti gli elementi richiamati nell’art. 133 c.p. potendo limitarsi ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti in senso ostativo alla sospensione, ivi compresi i precedenti penali, i precedenti giudiziali e le circostanze relative alla condotta di reato posta in essere (cfr. Cass. Sez. 5, n. 17953 del 7.2.2020; Cass., Sez. 5, n. 57704 del 14.9.2017, Rv. 272087; Cass., Sez. 3, n. 35852 dell’11.5.2016, Rv. 267639)“.

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Riccardo Polito

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