Caso Regeni: illegittimità costituzionale art. 420-bis, co. 3, c.p.p.

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La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, co. 3, c.p.p.: vediamo come
(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 420-bis)
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Corte costituzionale -sentenza n. 192 del 27-09-2023

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Indice

1. Il fatto


Nel mese di gennaio del 2021, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma chiedeva il rinvio a giudizio di taluni cittadini egiziani, dichiarati irreperibili con decreti del 28 gennaio 2020.
In particolare, a costoro, tutti graduati del servizio di sicurezza interno egiziano, era ascritta l’imputazione di sequestro di persona pluriaggravato, fermo restando che soltanto uno di questi era altresì imputato dei delitti di lesioni personali e omicidio pluriaggravati, per avere, in concorso con altri soggetti non identificati, cagionato lesioni severe e diffuse, a distanza di più giorni, con atti crudeli e mezzi violenti, fino a provocarne la morte.
Ciò posto, nel mese di maggio 2021, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma, verificata la regolarità delle notifiche eseguite ai sensi dell’art. 159 cod. proc. pen., con ordinanza ex art. 420-bis dello stesso codice, disponeva procedersi in assenza degli imputati, rinviandoli a giudizio dinanzi alla Corte di assise di Roma per l’udienza tenutasi a metà ottobre del 2021.
Ebbene, in tale occasione, con riferimento alla dichiarazione di assenza, il GUP riteneva che gli imputati avessero avuto piena consapevolezza dell’esistenza del procedimento a loro carico e che quindi volontariamente si fossero sottratti alla conoscenza formale dei relativi atti, non rendendone possibile la notificazione; ciò non soltanto per essere stati essi più volte sentiti dalla magistratura egiziana in rogatoria e più volte invitati a eleggere domicilio in Italia, ma anche in ragione della loro appartenenza all’apparato di sicurezza locale e per la vasta diffusione mediatica della notizia.
All’udienza dibattimentale, tenutasi sempre in quest’arco temporale, dal canto suo, la Corte di Assise di Roma dichiarava la nullità della declaratoria di assenza e del conseguente decreto di rinvio a giudizio, ordinando la restituzione degli atti al Giudice dell’udienza preliminare.
La Corte di assise romana reputava infatti che non vi fossero indici fattuali sufficienti a garantire che gli imputati, pur edotti del procedimento, avessero effettiva conoscenza della vocatio in iudicium e che fosse quindi impossibile concludere che essi stessero tentando di sottrarsi al giudizio o avessero rinunciato al diritto di parteciparvi né, ad avviso del Collegio, vi era evidenza che gli imputati medesimi avessero avuto un ruolo nella pur comprovata determinazione delle autorità egiziane di non collaborare con quelle italiane.
Nei primi del 2022, nell’udienza successiva alla restituzione degli atti, il GUP riteneva di non poter accogliere la richiesta del pubblico ministero e delle costituende parti civili di dichiarare l’assenza degli imputati e disponeva quindi, previe nuove ricerche, la notifica personale ai medesimi per l’ulteriore udienza, fissata nel mese di aprile sempre del 2022.
Orbene, a tale udienza, considerata la perdurante impossibilità di rintracciare gli imputati, il giudice ordinava la sospensione del processo, a norma dell’art. 420-quater, comma 2, cod. proc. pen., testo pro tempore vigente.
Detto questo, avverso questa ordinanza il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma ricorreva per Cassazione, denunciandola come atto abnorme, per induzione di una stasi processuale, ma siffatto ricorso era dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione, prima sezione penale.
Ebbene, in attesa del deposito della motivazione di tale sentenza, si svolgeva innanzi al GUP del Tribunale di Roma un’udienza inerente alle ulteriori ricerche di polizia giudiziaria per il rintraccio degli imputati e all’interlocuzione del Ministero della giustizia con la Procura generale della Repubblica Araba d’Egitto e, dal complesso di questa attività, emergeva la mancanza di una reale volontà collaborativa delle autorità egiziane, manifestata in particolare con l’opposizione del principio del ne bis in idem sulla base di un semplice provvedimento di archiviazione adottato non da un giudice terzo e imparziale, ma dallo stesso organo inquirente, non autonomo, nell’ordinamento egiziano, rispetto all’autorità di Governo.
Precisato ciò, nei primi giorni di febbraio 2023, era depositata la motivazione della sentenza con la quale la Corte di Cassazione, dichiarando inammissibile il ricorso del pubblico ministero, aveva ritenuto non affetta da abnormità l’ordinanza di sospensione del processo assunta dal GUP del Tribunale di Roma in data 11 aprile 2022, al pari di quella emanata in data 14 ottobre 2021 dalla Corte di Assise di Roma, con la quale era stata a sua volta annullata la precedente declaratoria di assenza degli imputati.
Orbene, tale motivazione aveva esposto le ragioni per le quali avrebbe dovuto ritenersi immune da vizi logici e giuridici la valutazione sottesa ad entrambi quei provvedimenti, in ordine all’insufficienza degli indizi addotti per comprovare la conoscenza della vocatio in iudicium da parte dei quattro cittadini egiziani cui sono ascritte le imputazioni.
A fronte di ciò, alla conseguente udienza tenuta dal GUP del Tribunale di Roma nel mese di aprile del 2023, il Procuratore della Repubblica chiedeva che venissero sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 420-bis cod. proc. pen., come nel frattempo sostituito dall’art. 23, comma l, lettera c), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), nella parte in cui non prevede che si possa procedere in assenza dell’accusato nei casi in cui la formale mancata conoscenza del procedimento dipenda dalla mancata assistenza giudiziaria da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’accusato stesso.
Ciò posto, il GUP, a sua volta, si era riservato di decidere fino all’udienza, celebratisi fine maggio del 2023, all’esito della quale aveva pronunciato l’ordinanza di rimessione.

2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione


Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma, come appena accennato, sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 2, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato, anche quando ritiene altrimenti provato che l’assenza dall’udienza sia dovuta alla mancata assistenza giudiziaria o al rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato», nonché dell’art. 420-bis, comma 3, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato anche fuori dei casi di cui ai commi 1 e 2, quando ritiene provato che la mancata conoscenza della pendenza del procedimento[,] dipende dalla mancata assistenza giudiziaria o dal rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato».
In particolare, il giudice a quo evocava i parametri di cui agli artt. 2, 3, 24, 111, 112 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione alla Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata e resa esecutiva con legge 3 novembre 1988, n. 498, deducendo al contempo come tali parametri sarebbero stati violati dalle denunciate omissioni normative, che avrebbero reso impossibile anche solo incardinare il processo per l’accertamento dei fatti di reato oggetto del processo in questione.
Più nel dettaglio, in ordine alla rilevanza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, il giudice a quo rappresentava come, per effetto della già disposta sospensione del processo, dovesse trovare applicazione la disciplina transitoria di cui all’art. 89, comma 2, del d.lgs. n. 150 del 2022, secondo la quale, ove perduri l’impossibilità di rintracciare gli imputati, deve essere emessa sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo, ai sensi del novellato art. 420-quater cod. proc. pen.
Osservava infatti il rimettente che, per quanto possa «ritenersi ragionevole e verosimile presumere che gli imputati, i quali hanno anche partecipato alle indagini egiziane e sono stati sentiti come persone informate dei fatti dal pubblico ministero italiano, siano a conoscenza del procedimento a loro carico in Italia per il sequestro di persona, la tortura e l’omicidio di G.R.», tuttavia «ciò non basta, perché la normativa vigente sul processo in assenza[,] è stata introdotta allo scopo di escludere ogni presunzione di conoscenza e di procedere in assenza dell’imputato solamente quando è effettiva la conoscenza del processo a suo carico, sia in ordine alle imputazioni sia in ordine alla “vocatio in iudicium” ovvero è positivamente provata la sua volontà di sottrarsi al processo».
Sempre ad avviso del giudice rimettente, del resto, non sarebbe stata d’altronde praticabile un’interpretazione alternativa della norma censurata, poiché l’unica interpretazione consentita dalla lettera e dalla ratio della stessa è «quella che esclude di ritenere “presunta” la effettiva conoscenza della pendenza del processo e/o la volontà dell’imputato di non comparire in udienza preliminare, ovvero di ritenere “presunta” la volontà dell’imputato di sottrarsi alla conoscenza del processo».
Da qui la rilevanza delle questioni, poiché soltanto la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, commi 2 e 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede l’ipotesi che la mancata conoscenza del processo sia dovuta all’accertato rifiuto di assistenza giudiziaria da parte dello Stato estero di appartenenza o di residenza dell’imputato, consentirebbe di procedere in assenza dei quattro imputati, essendo stato accertato il rifiuto delle autorità egiziane di prestare assistenza a quelle italiane per la notifica degli atti di vocatio agli imputati medesimi, come già detto tutti ufficiali in servizio, all’epoca dei fatti, presso la National Security Agency.
Oltre a ciò, era altresì fatto presente come la rilevanza delle questioni non sarebbe stata esclusa dall’argomento, speso dalla difesa d’ufficio degli imputati, per cui l’effettiva conoscenza del processo da parte di costoro sarebbe stata sacrificata per la condotta altrui, cioè delle autorità dello Stato di appartenenza.
Secondo il rimettente, infatti, «diversamente che per le vittime del reato e per i prossimi congiunti che non possono costituirsi parti civili e subiscono un indubbio pregiudizio dalla condotta ostruzionistica dello Stato estero di appartenenza degli imputati, questi ultimi al contrario beneficiano di una sostanziale immunità penale».
Circa la non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente premetteva l’enunciazione dei «fattori certi» del caso sottoposto al suo giudizio, per poi rilevare che, a suo avviso, la norma censurata violerebbe anzitutto gli artt. 2 e 3 Cost., consentendo allo Stato estero di erigere «una inammissibile “zona franca” di impunità per i cittadini-funzionari», in ordine a delitti lesivi dei diritti inviolabili della persona, nonché il principio di ragionevolezza, in quanto il giudice italiano sarebbe gravato di una probatio diabolica a fronte dell’ostruzionismo dello Stato di appartenenza degli imputati.
Vi sarebbe poi un difetto di bilanciamento, giacché, mentre in favore dell’imputato processato in assenza sono previsti rimedi ove provi di non aver potuto partecipare al giudizio per forza maggiore, caso fortuito o altro legittimo impedimento, ai familiari della vittima non è dato alcun rimedio per superare l’ostacolo processuale determinato dalla condotta ostruzionistica dello Stato di appartenenza dell’imputato.
Ciò posto, per il giudice a quo, sarebbe violato anche l’art. 24 Cost., in correlazione con gli artt. 2 e 3 Cost.
L’impossibilità di agire in giudizio a tutela dei diritti fondamentali della persona, derivante dalla mancata cooperazione dello Stato di appartenenza degli imputati, si risolverebbe in una violazione dei diritti medesimi, come già stabilito dalla stessa Corte costituzionale (si richiamava la sentenza n. 238 del 2014, in tema di azioni risarcitorie per crimini di guerra del Terzo Reich) e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a proposito delle indagini per tortura e altre gravi violazioni dei diritti umani.
Alla lesione del diritto di azione dei familiari della vittima corrisponderebbe quella del diritto di difesa degli imputati, il cui esercizio sarebbe del pari impedito dalla condotta ostruzionistica dello Stato estero.
Ad avviso del giudice a quo, dunque, la disciplina italiana sul processo in assenza «entra dunque in crisi sistemica, proprio perché non vi è una norma che preveda un rimedio in casi di questo genere», mancanza che finirebbe anche per incentivare condotte di ostruzionismo, altrimenti inutili.
Il «contrappeso», che verrebbe dalla richiesta pronuncia additiva di questa Consulta, individuerebbe un razionale punto di equilibrio, poiché l’ordinamento italiano garantisce all’imputato processato in assenza mezzi restitutori nel caso in cui egli non abbia avuto conoscenza del processo o non abbia potuto parteciparvi per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, e comunque non per sua colpa.
Viceversa, la norma censurata «fa gravare sulle vittime del reato e costituende parti civili, il rischio del fatto del terzo», cioè della condotta ostruzionistica dell’autorità estera.
Altra norma, che si assumeva essere stata violata, era l’art. 111 Cost., in uno all’art. 3 Cost.
Invero, consentendo allo Stato estero di impedire a propria volontà lo svolgimento del giudizio, la norma censurata lederebbe i principi del giusto processo e, insieme ad essi, anche il principio di uguaglianza, considerato che per fatti analoghi, nei confronti di stranieri appartenenti a Stati collaborativi, il processo può essere celebrato.
D’altronde, «in mancanza di una disciplina che consenta di procedere in assenza dell’imputato, quando il suo Stato di appartenenza o di residenza non cooperi con il giudice terzo ed imparziale, tutte le norme sul “giusto processo” sono rese vane, svuotate di contenuto», atteso che «[n]on vi è processo più “ingiusto” di quello che non si può instaurare per volontà di una [a]utorità di Governo».
Chiarito ciò, era poi dedotta la violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, sancito dall’art. 112 Cost., «precipitato processuale» del principio di uguaglianza.
La mancanza di una norma, che consenta di procedere in assenza quando vi è il rifiuto di cooperazione dello Stato estero di appartenenza dell’imputato, implicherebbe, per il giudice rimettente, che l’azione penale resti «subordinata al potere esecutivo dello Stato straniero».
Infine, sarebbe violato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura, ratificata sia dall’Italia che dall’Egitto.
Rammentato che i fatti oggetto delle imputazioni rientrano nella nozione di tortura enunciata dall’art. l della Convenzione, il giudice a quo sosteneva che la norma censurata, dove non consente di procedere in assenza contro gli imputati del delitto di tortura quando lo Stato estero di appartenenza non cooperi con l’autorità giudiziaria italiana, violi l’obbligo, sancito dagli artt. 6 e 7 della Convenzione medesima, di instaurare un processo nello Stato della vittima, anche qualora non sia concessa l’estradizione dei presunti autori; la violazione da parte dello Stato egiziano degli obblighi di assistenza giudiziaria stabiliti dall’art. 9 della Convenzione farebbe dunque emergere una lacuna normativa che pone l’ordinamento italiano nelle condizioni di non poter esso stesso osservare gli obblighi convenzionali.


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3. La soluzione adottata dalla Consulta: l’illegittimità


Il Giudice delle leggi, dopo avere ripercorso le argomentazioni sostenute nell’ordinanza di rimessione, ricostruito il quadro normativo di riferimento, e affrontato le questioni di ordine preliminare, osservava come le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GUP del Tribunale di Roma, circoscritte in rapporto alla fattispecie concreta e all’esigenza di contemperamento degli interessi ad essa sottesi, fossero fondate, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura.
In particolare, la Consulta evidenziava prima di tutto che la tortura è un delitto contro la persona e un crimine contro l’umanità dato che essa è proibita, sia dal diritto internazionale penale, sia dalle norme internazionali sui diritti umani, con tale costanza e univocità da attribuire al divieto carattere inderogabile, ascrivendolo allo ius cogens di formazione consuetudinaria.
Oltre a ciò, i giudici di legittimità costituzionale facevano altresì presente che la Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, proclama, all’art. 5, che «[n]essun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani e degradanti», mentre, dal canto suo, il Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966, stabilisce, all’art. 7, che «[n]essuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, in particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico», fermo restando che, da un lato, l’art. 3 CEDU afferma che «[n]essuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti», dall’altro, lo Statuto della Corte penale internazionale, o Statuto di Roma, firmato il 17 luglio 1998, indica la tortura tra i crimini contro l’umanità (art. 7, paragrafo 1, lettera f), e, nonostante la dimensione collettiva che a questi crimini si addice, in quanto commessi nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili, prevede la consumazione della tortura anche ai danni di una sola persona («severe physical or mental pain or suffering upon one or more persons»: Elements of Crimes, art. 7.1.f, punto 1).
Orbene, concluso questo primo excursus normativo, il Giudice delle leggi sottolineava come il rimettente avesse richiamato, come parametro interposto, tramite l’art. 117, primo comma, Cost., la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984 (da ora in poi, anche: CAT, Convention Against Torture).
Ebbene, ratificata sia dall’Italia, con la legge n. 498 del 1988, sia dall’Egitto, in data 25 giugno 1986, essa fornisce, al comma 1 dell’art. 1, la definizione di tortura: «[a]i fini della presente Convenzione, il termine “tortura” indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate».
Dal comma 2 dello stesso art. 1 si evince inoltre di come si tratta di un minimum standard, che «non reca pregiudizio a qualsiasi strumento internazionale o a qualsiasi legge nazionale che contenga o possa contenere disposizioni di più vasta portata».
Con l’indicazione quale soggetto attivo di «un agente della funzione pubblica» (cui è equiparata «ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito»), l’art. 1 CAT, del resto, delimita la propria sfera applicativa alla cosiddetta tortura di Stato, verticale o propria, conformemente alla tradizione internazionalistica che reprime la tortura come abuso del potere pubblico, mentre gli altri elementi costitutivi del crimine di tortura sono convenzionalmente specificati nella gravità delle sofferenze inflitte («forti») e nell’intenzionalità dell’inflizione, quest’ultima connotata nei termini del dolo specifico («al fine segnatamente di»), corrispondente alla nozione quadripartita di tortura “giudiziaria”, “punitiva”, “intimidatoria” e “discriminatoria”.
Precisato ciò, sempre dall’esame delle fonti del diritto rilevanti in subiecta materia, la Consulta notava oltre tutto che, nell’ordinamento italiano il delitto di tortura, quale distinto titolo di reato, è stato introdotto dalla legge 14 luglio 2017, n. 110 (Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano), il cui art. 1, comma 1, ha inserito gli artt. 613-bis e 613-ter cod. pen., rispettivamente per la tortura e l’istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura, rilevando al contempo che il legislatore nazionale, operando in tal guisa, ha inteso superare il minimum standard di cui all’art. 1 CAT, poiché l’art. 613-bis cod. pen. punisce anche la cosiddetta tortura privata, orizzontale o impropria (primo comma), stabilendo comunque un più severo trattamento sanzionatorio per la tortura commessa dal pubblico ufficiale (secondo comma), pur se quest’ultima non è rispetto all’altra reato circostanziato, ma reato autonomo (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 25 maggio-31 agosto 2021, n. 32380).
La posteriorità della legge n. 110 del 2017, rispetto al tempo di commissione dei fatti oggetto delle imputazioni di che trattasi, ad ogni modo, non solleva un problema di retroattività in peius, in quanto tali imputazioni risultano formulate senza alcun richiamo alla fattispecie legale sopravvenuta, bensì – come non implausibilmente deduce l’ordinanza di rimessione – con la descrizione di «fatti sussumibili nella nozione di tortura data dall’art. l della Convenzione», i quali «erano punibili già nel febbraio 2016 in base alle norme incriminatrici specificate nella richiesta di rinvio a giudizio» (sequestro di persona, lesioni personali e omicidio, aggravati da sevizie, crudeltà e abuso di pubblico potere).
Tuttavia, per evitare aree di impunità, l’art. 5 CAT ammette la doppia o tripla giurisdizione nazionale sui reati di tortura, che devono essere perseguiti sia dallo Stato territoriale del commesso delitto (comma 1, lettera a), sia dallo Stato del presunto autore (comma 1, lettera b), mentre è rimesso allo Stato di appartenenza della vittima stabilire se esercitare o meno la propria giurisdizione (comma 1, lettera c), fermo restando che tale opzione discrezionale è stata esercitata dalla legge n. 498 del 1988, il cui art. 3, comma 1, lettera b), stabilisce che è punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia, lo straniero che commette all’estero in danno di un cittadino italiano un fatto costituente reato qualificabile come atto di tortura ex art. 1 CAT.
Risulta così integrata, per la Corte costituzionale, la previsione dell’art. 7, primo comma, numero 5), cod. pen., per cui è punito secondo la legge italiana lo straniero che commette in territorio estero un reato per il quale una speciale disposizione di legge o una convenzione internazionale stabilisca l’applicabilità della legge italiana, considerato altresì che, ai sensi dell’art. 9, comma 1, CAT, gli Stati parte si «prestano l’assistenza giudiziaria più vasta possibile» in ogni procedimento penale inerente ai reati di tortura, inclusa «la comunicazione di tutti gli elementi di prova di cui dispongono e che sono necessari ai fini della procedura», fermo restando che la comunicazione degli indirizzi degli indagati, funzionale alla notifica degli atti processuali, rientra evidentemente nel perimetro dell’assistenza «più vasta possibile».
Precisato ciò, veniva altresì dedotto che, nella giurisprudenza sull’art. 3 CEDU, la Corte di Strasburgo ha più volte distinto un aspetto procedurale («procedural aspect») del divieto di tortura e un aspetto sostanziale («substantive aspect»), potendo tale divieto essere violato non soltanto dalla materiale inflizione di sevizie e crudeltà, ma anche dall’omesso svolgimento di un’indagine effettiva e completa sulla denuncia di tortura, giacché, quando l’indagine riguarda accuse di gravi violazioni dei diritti umani, il “diritto alla verità” («the right to the truth») sulle circostanze rilevanti del caso non appartiene esclusivamente alla vittima del reato e alla sua famiglia, ma anche alle altre vittime di violazioni simili e al pubblico in generale, che hanno il “diritto di sapere cosa è accaduto” (Corte europea dei diritti dellʼuomo, grande camera, sentenza 13 dicembre 2012, El-Masri contro ex Repubblica jugoslava di Macedonia; poi Corte EDU, sentenze 31 maggio 2018, Abu Zubaydah contro Lituania, e 24 luglio 2014, Al Nashiri contro Polonia).
In altri termini, l’art. 3 CEDU esige una «efficient criminal-law response», senza la quale esso è violato nel «procedural limb», ancor prima che nell’aspetto sostanziale (Corte EDU, sentenza 16 febbraio 2023, Ochigava contro Georgia).
Orbene, concluso anche questo secondo excursus normativo, i giudici di legittimità costituzionale ritenevano come l’aporia processuale denunciata dal rimettente rivelasse una lacuna ordinamentale, che non tardava a manifestare i tratti del vulnus costituzionale, non appena la si relazioni con la peculiarità giuridica del crimine di tortura.
In effetti, ferma la presunzione di non colpevolezza che assisteva i quattro funzionari egiziani, non può negarsi che si fossero determinate obiettivamente le condizioni di una fattuale immunità extra ordinem, incompatibile con il diritto all’accertamento processuale, quale primaria espressione del divieto sovranazionale di tortura e dell’obbligo per gli Stati di perseguirla.
Ebbene, a prescindere dalle ragioni che l’avevano ispirata, per la Corte, la mancata comunicazione da parte dello Stato egiziano, degli indirizzi dei propri dipendenti, aveva impedito finora, ed era destinata a impedire sine die, la celebrazione di un processo viceversa imposto dalla Convenzione di New York contro la tortura, in linea con il diritto internazionale generale visto che l’impossibilità di notificare personalmente agli imputati l’avviso di udienza preliminare e la richiesta di rinvio a giudizio, quindi di portare a loro conoscenza l’apertura del processo, comportava, sulla base dell’attuale quadro normativo interno, la necessità di emettere nei confronti degli stessi la sentenza inappellabile di improcedibilità, che, a sua volta, non potrà mai verosimilmente assolvere alla funzione secondaria di vocatio in iudicium, pure ad essa istituzionalmente spettante, e che anzi è destinata a divenire, con il trascorrere del tempo, irrevocabile per tre dei quattro imputati, giacché chiamati a rispondere di un reato prescrittibile, qual è il sequestro di persona, tenuto conto altresì del fatto che lo statuto universale del crimine di tortura – poc’anzi illustrato sulla base delle dichiarazioni sovranazionali e dei trattati – è connaturato alla radicale incidenza di tale crimine sulla dignità della persona umana, messa al centro del preambolo della Convenzione di New York contro la tortura.
La denunciata lacuna normativa, precludendo l’accertamento giudiziale della commissione dei reati di tortura, offendeva quindi la dignità della persona, e ne comprimeva il diritto fondamentale a non essere vittima di tali atti con la precisazione che, a sensi della direttiva (UE) 2012/29 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI, «vittima» è anche il familiare della persona la cui morte sia stata dal reato stesso direttamente causata (art. 2, paragrafo 1, lettera a, punto ii).
Pertanto, per la Consulta, la lacuna normativa denunciata dal rimettente violava l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura; ma viola anche l’art. 2 Cost., in quanto, impedendo sine die la celebrazione del processo per l’accertamento del reato di tortura, annullava un diritto inviolabile della persona che di tale reato è stata vittima.
Invero, nello statuto eccezionale del crimine in questione, il diritto all’accertamento giudiziale è il volto processuale del dovere di salvaguardia della dignità.
E ancora, la lacuna normativa censurata dal rimettente violava il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. dato che tale lacuna apriva irragionevolmente uno spazio di immunità penale, quale si riscontra in un quadro normativo che impedisce di compiere quegli stessi accertamenti giudiziali che sono stati previsti in sede pattizia; accertamenti tanto più necessari in quanto lo Stato italiano, in sede di ratifica della CAT, ha optato per l’esercizio della giurisdizione penale sui reati di tortura commessi all’estero in danno dei propri cittadini.
Del resto, il diritto dell’imputato di presenziare al processo ha natura di diritto fondamentale, garantito dagli artt. 111 Cost. e 6 CEDU, innanzitutto attraverso la pienezza del contraddittorio.
In particolare, il terzo comma dell’art. 111 Cost., in sintonia con il paragrafo 3 dell’art. 6 CEDU, stabilisce che «[n]el processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo».
Ebbene, come dalla medesima Corte costituzionale ricordato nella sentenza n. 65 del 2023, il diritto partecipativo dell’imputato è d’altronde funzionale all’esercizio della cosiddetta autodifesa, che è distinta e ulteriore rispetto alla difesa tecnica.
Il vulnus costituzionale prodotto dalla lacuna normativa in questione doveva essere dunque ridotto a legittimità per linee interne al sistema delle garanzie, senza alcun sacrificio, né condizionamento, delle facoltà partecipative dell’imputato, ma unicamente con una diversa scansione temporale del loro esercizio, non trattandosi d’altronde di una prospettiva estranea allo statuto europeo dell’assenza processuale.
D’altro canto, la direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, stabilisce che «[g]li Stati membri garantiscono che gli indagati e imputati abbiano il diritto di presenziare al proprio processo» (art. 8, paragrafo 1).
Gli Stati membri – aggiunge la direttiva – «possono prevedere che un processo che può concludersi con una decisione di colpevolezza o innocenza dell’indagato o imputato possa svolgersi in assenza di quest’ultimo, a condizione che: a) l’indagato o imputato sia stato informato in un tempo adeguato del processo e delle conseguenze della mancata comparizione; oppure b) l’indagato o imputato, informato del processo, sia rappresentato da un difensore incaricato, nominato dall’indagato o imputato oppure dallo Stato» (art. 8, paragrafo 2).
Inoltre, «[q]ualora gli Stati membri prevedano la possibilità di svolgimento di processi in assenza dell’indagato o imputato, ma non sia possibile soddisfare le condizioni di cui al paragrafo 2 del presente articolo perché l’indagato o imputato non può essere rintracciato nonostante i ragionevoli sforzi profusi, gli Stati membri possono consentire comunque l’adozione di una decisione e l’esecuzione della stessa», e «[i]n tal caso, gli Stati membri garantiscono che gli indagati o imputati, una volta informati della decisione, in particolare quando siano arrestati, siano informati anche della possibilità di impugnare la decisione e del diritto a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, in conformità dell’articolo 9» (art. 8, paragrafo 4).
Vi è infatti, nell’economia della direttiva 2016/343/UE, un nesso teleologico tra il «diritto di presenziare al processo», di cui all’art. 8, e il «diritto a un nuovo processo», di cui all’art. 9, il cui coordinato obiettivo è che – ex ante o ex post – l’imputato abbia a disposizione tutte le facoltà partecipative.
Per l’art. 9, invero, «[g]li Stati membri assicurano che, laddove gli indagati o imputati non siano stati presenti al processo e non siano state soddisfatte le condizioni di cui all’articolo 8, paragrafo 2, questi abbiano il diritto a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, che consenta di riesaminare il merito della causa, incluso l’esame di nuove prove, e possa condurre alla riforma della decisione originaria», e «[i]n tale contesto, gli Stati membri assicurano che tali indagati o imputati abbiano il diritto di presenziare, di partecipare in modo efficace, in conformità delle procedure previste dal diritto nazionale e di esercitare i diritti della difesa».
Ciò posto, a sua volta, la decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, prevede l’esecuzione del mandato per condanna in absentia ove l’imputato sia informato del «diritto a un nuovo processo», che consenta di «riesaminare il merito della causa» e possa «condurre alla riforma della decisione originaria» (art. 4-bis, paragrafo 1, lettera d, punto i), fermo restando che la Corte di giustizia dell’Unione europea ha precisato ratio e condizioni della procedibilità in assenza, nella dialettica con il diritto dell’imputato a un nuovo processo di merito, avendo chiarito che la ripetizione in presenza di attività processuali, quale un’assunzione testimoniale anteriormente svolta in assenza, ha carattere ripristinatorio, nella prospettiva del nuovo processo garantito dalla direttiva 2016/343/UE (sentenza 13 febbraio 2020, in causa C-688/18, TX e altro).
Nell’interpretazione dell’art. 4-bis della decisione quadro 2002/584/GAI, la Corte di giustizia ha inoltre escluso che possa essere addotta, quale motivo di rifiuto dell’esecuzione di un mandato d’arresto europeo per una condanna emessa in absentia, l’incertezza sul fatto che lo Stato consegnatario garantirà il diritto al nuovo processo ex artt. 8 e 9 della direttiva 2016/343/UE, potendo in ogni caso l’imputato esigere l’attuazione di quest’ultima presso quel medesimo Stato (sentenza 17 dicembre 2020, in causa C-416/20, TR).
Di notevole importanza, in termini generali e per la fattispecie ora in scrutinio, per la Corte, è pure la sentenza della medesima Corte 19 maggio 2022, in causa C-569/20, IR, a tenore della quale gli artt. 8 e 9 della direttiva 2016/343/UE vanno interpretati nel senso che «un imputato che le autorità nazionali competenti, nonostante i loro ragionevoli sforzi, non riescono a rintracciare e al quale dette autorità non sono riuscite, per tale motivo, a comunicare le informazioni sul processo svolto nei suoi confronti, può essere oggetto di un processo e, se del caso, di una condanna in contumacia, ma deve in tale caso, in linea di principio, avere la possibilità, a seguito della notifica di tale condanna, di far valere direttamente il diritto, riconosciuto da tale direttiva, di ottenere la riapertura del processo o l’accesso a un mezzo di ricorso giurisdizionale equivalente che conduca ad un nuovo esame del merito della causa in sua presenza»; tale diritto può essere negato all’imputato solo «qualora da indizi precisi e oggettivi risulti che quest’ultimo ha ricevuto informazioni sufficienti per essere a conoscenza del fatto che si sarebbe svolto un processo nei suoi confronti e, con atti deliberati e al fine di sottrarsi all’azione della giustizia, ha impedito alle autorità di informarlo ufficialmente di tale processo» (punto 59).
Premesso quindi che il giudizio può celebrarsi in assenza solo se preceduto da «ragionevoli sforzi» delle autorità onde rintracciare l’imputato per le notifiche, tale decisione, per il Giudice delle leggi, invertendo l’onere della prova rispetto alla logica contumaciale, rimarca che l’imputato giudicato in assenza per impossibilità di rintraccio deve poter esercitare senza condizioni («in linea di principio») il diritto a un nuovo processo di merito, spettando alle autorità, che tale diritto intendano negare, addurre «indizi precisi e oggettivi» da cui risulti che l’imputato ha ricevuto sufficienti informazioni del processo, essendo ben visibile la convergenza rispetto alla giurisprudenza di Strasburgo sul diritto dell’imputato alla «fresh determination of the merits of the charge», alla quale invero la sentenza della Corte di Lussemburgo fa esplicito riferimento (punti 51-53).
In conclusione, per la Consulta, il vulnus costituzionale denunciato dal rimettente poteva e doveva essere sanato mediante un riassetto delle garanzie partecipative dell’imputato, riassetto non qualitativo, né quantitativo, ma esclusivamente temporale, pur sempre all’interno del binario tracciato dalla disciplina dell’assenza, come sopra ricordata, deducendosi contestualmente che la fattispecie addizionale di assenza non impeditiva, che sia tale da evitare una paralisi processuale costituzionalmente e convenzionalmente intollerabile, doveva essere comunque rispettosa del principio del giusto processo.
Detto questo, la Corte di legittimità costituzionale evidenziava per di più, a fronte della censura prospetta dal rimettente in riferimento ai commi 2 e 3 dell’art. 420-bis cod. proc. pen., nel testo modificato dal d.lgs. n. 150 del 2022, come però la sede propria dell’addizione che egli richiedeva, e che la Costituzione impone, vada individuata specificamente nel comma 3, poiché questo disciplina, in funzione di chiusura del sistema («anche fuori dai casi di cui ai commi 1 e 2»), le ipotesi nelle quali l’assenza dell’imputato non è impeditiva pur in difetto di prova della sua «conoscenza della pendenza del processo».
Come già detto, le ipotesi attualmente indicate dal comma 3 dell’art. 420-bis riguardano la latitanza e ogni «altro modo» di volontaria sottrazione dell’imputato alla «conoscenza della pendenza del processo», trattandosi di situazioni nelle quali l’ordinamento non considera impeditiva l’assenza malgrado la mancata «conoscenza della pendenza del processo», e che tuttavia postulano la conoscenza del procedimento, cioè dell’assunzione della qualità di indagato ex art. 335 cod. proc. pen. poiché, per sottrarsi «volontariamente» alla conoscenza della pendenza del «processo», e quindi alla notifica dell’atto di esercizio dell’azione penale, l’indagato sa di essere tale, pur ponendosi nelle condizioni di ignorare la vocatio in iudicium.
Dalla vigente trama normativa emerge dunque, per il Giudice delle leggi, che, in casi eccezionali, può procedersi nell’assenza di un imputato pur se non è provata la conoscenza da parte sua della pendenza del processo, ove sia certo che egli abbia conoscenza del procedimento e, tra questi casi eccezionali deve trovare posto l’ipotesi oggetto delle questioni in scrutinio, perpetuandosi altrimenti, insieme alla lacuna normativa, il vulnus che essa infligge ai richiamati parametri costituzionali.
Muovendo quindi per linee interne al sistema, come preannunciato, la fattispecie addizionale di assenza non impeditiva doveva replicare questa duplicità di piani, non potendo prescindere dalla conoscenza che l’imputato abbia del procedimento, e limitandosi a incidere sul piano ulteriore della conoscenza della chiamata a giudizio.
Dunque, la fattispecie astratta si attagliava al caso concreto, come risultava dalla verifica esterna sulla motivazione dell’ordinanza di rimessione in punto di rilevanza, giacchè l’ordinanza de qua riferiva che il provvedimento, con il quale la Corte di assise di Roma aveva annullato la dichiarazione di assenza dei quattro funzionari egiziani, aveva riconosciuto «la generica conoscenza, da parte degli imputati, dell’esistenza di un procedimento penale nei loro confronti per gravi reati in danno del ricercatore …», pur «senza la dimostrazione con ragionevole grado di certezza di una conoscenza sufficiente dell’azione penale e delle accuse».
Ebbene, tale valutazione della Corte di Assise, in uno alla conseguente ordinanza di sospensione del GUP del Tribunale di Roma, era stata ritenuta immune da vizi nella ricordata sentenza della Corte di Cassazione la quale, essa pure, aveva messo a tema la conoscenza non del procedimento, ma della vocatio in iudicium, in particolare enfatizzando che alcuni indizi di consapevolezza degli imputati fossero «precedenti all’esercizio dell’azione penale in Italia», quindi inidonei a garantire loro la conoscenza delle «precise cadenze del processo».
È ben chiaro dunque, per la Corte, come l’ordinamento italiano abbia registrato un progressivo spostamento del fuoco degli accertamenti di assenza dalla conoscenza del «procedimento» alla conoscenza del «processo».
In effetti, già con una prima sentenza, la Corte di Cassazione aveva stabilito che non ostasse alla rimessione nel termine di impugnazione della sentenza contumaciale ex art. 175, comma 2, cod. proc. pen. la conoscenza dell’accusa evincibile dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari, viceversa esigendosi la conoscenza del processo tratta da un atto formale di vocatio in iudicium (sezioni unite penali, sentenza 28 febbraio-3 luglio 2019, n. 28912).
Ancora più incisivamente, una successiva pronuncia, relativa al valore indiziario dell’elezione di domicilio presso il difensore di ufficio ai fini della dichiarazione di assenza ex art. 420-bis cod. proc. pen., vecchio testo, aveva escluso la configurabilità di presunzioni di conoscenza del processo, giacché «[i]l fondamento del sistema è che la parte sia personalmente informata del contenuto dell’accusa e del giorno e luogo della udienza», ed è infatti questa – proseguiva la Corte riguardo alla modifica dell’art. 175 cod. proc. pen. – «la ragione per la quale il sistema, introducendo la regola di certezza della conoscenza del processo, ha escluso il diritto “incondizionato” al nuovo giudizio di merito in favore del soggetto giudicato in assenza» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 novembre 2019-17 agosto 2020, n. 23948).
Infine, dal raffronto tra il testo dell’art. 420-bis cod. proc. pen. anteriore al d.lgs. n. 150 del 2022 e quello dal decreto stesso modificato, risulta evidente, per il Giudice delle leggi, la traslazione del parametro della dichiarazione di assenza dalla «conoscenza del procedimento» alla «conoscenza della pendenza del processo», fermo restando che è tuttavia palese che l’estensione di tale avanzamento dei requisiti di procedibilità anche alla fattispecie ora in scrutinio determina la paralisi del processo fin dall’esordio, poiché la mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato rende impossibile notificare personalmente all’imputato stesso gli atti formali della vocatio in iudicium, lasciando all’irrilevanza che egli sia a conoscenza del procedimento penale.
Ebbene, per la Corte costituzionale, tale epilogo di radicale frustrazione del processo non è accettabile, per diritto costituzionale interno, europeo e internazionale, quando si risolve nella creazione di un’immunità de facto ostativa all’accertamento dei crimini di tortura, dal momento che una simile immunità sarebbe, ad un sol tempo, lesiva dei diritti inviolabili della vittima rispetto a un crimine estremo contro la dignità della persona (art. 2 Cost.); irragionevole a fronte del diritto-dovere rivendicato e assunto dalla Repubblica di perseguire tali misfatti (art. 3 Cost.); inosservante degli standard internazionali di tutela dei diritti umani, recepiti e promossi dalla CAT (art. 117, primo comma, Cost.).
Chiarito anche tale aspetto, la Consulta, a questo punto della disamina, osservava inoltre come l’ordinanza di rimessione sollecitasse una pronuncia additiva non circoscritta per il titolo di reato ma, sempre per questa Corte, la decisione di accoglimento andasse tuttavia delimitata in coerenza, sia con i presupposti di rilevanza delle questioni come sopra individuati, sia con gli obblighi internazionali, che per il crimine di tortura giustificano una composizione delle garanzie partecipative nei termini di seguito precisati.
L’illegittimità costituzionale della denunciata lacuna normativa, e la necessità di emendarla tramite la richiesta pronuncia additiva, non concerneva quindi, per il Giudice delle leggi, ogni ipotetica fattispecie nella quale la notifica personale della vocatio all’imputato sia resa impossibile dalla mancata assistenza dello Stato di appartenenza, ma ineriva esclusivamente alle imputazioni di tortura, rispetto alle quali soltanto l’improcedibilità, nelle riferite condizioni, si traduce nella violazione degli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura.
La fattispecie addizionale costituzionalmente adeguata è dunque limitata, per la Corte, al processo per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, CAT, fermo restando che, alla delimitazione oggettiva per il titolo di reato, corrisponde una delimitazione soggettiva per la qualità dell’autore, che, ai sensi dell’art. 1, comma 1, CAT, è soltanto l’«agente della funzione pubblica», cui viene equiparata «ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito».
Tale delimitazione soggettiva, in altri termini, assume una speciale valenza rispetto all’ipotesi in questione – cioè alla mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato –, atteso il vincolo che lega l’apparato pubblico ai propri funzionari.
Di conseguenza, il rilevato vulnus costituzionale, ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, può e deve essere sanato mediante un riassetto delle garanzie partecipative che risulti comunque rispettoso dei diritti fondamentali protetti dagli artt. 111 Cost. e 6 CEDU.
Con la formula sintetica enunciata dall’art. 9 della direttiva 2016/343/UE, occorre dunque fare salvo il «diritto a un nuovo processo», che, svolgendosi in presenza dell’imputato e a sua richiesta, «consenta di riesaminare il merito della causa, incluso l’esame di nuove prove, e possa condurre alla riforma della decisione originaria» (supra, punto 11), fermo restando che, nei termini stabiliti dalla giurisprudenza di Strasburgo, deve essere garantito all’imputato l’accesso incondizionato a «una nuova valutazione del merito dell’accusa» (punto 4 del Considerato in diritto), tenuto conto altresì del fatto che questo risultato, che sarà compito del giudice comune attuare nella concretezza dei singoli casi, è raggiungibile per effetto della riapertura del processo, cui l’imputato, nell’ipotesi in esame, ha diritto di pervenire in ragione dei presupposti stessi della sua assenza dato che la fattispecie addizionale di procedibilità in assenza, oggetto della presente decisione, consente infatti all’imputato di accedere senza limiti, né condizioni, al sistema rimediale congegnato dal d.lgs. n. 150 del 2022, essendo stato evidenziato che questo ha una connotazione binaria, in quanto all’assenza erroneamente dichiarata dal giudice corrisponde un rimedio incondizionato di retrocessione del processo al momento in cui si è verificata la nullità, mentre all’assenza “ben dichiarata” è associato un rimedio condizionato per la restituzione nelle facoltà processuali la decadenza dalle quali l’imputato possa provare essere a lui non imputabile.
Orbene, per la Corte costituzionale, quella che viene qui in rilievo, che cioè non era stata possibile la notificazione personale degli atti di vocatio in iudicium a causa dell’inerzia cooperativa dello Stato di appartenenza, è un’ipotesi in cui la prova di incolpevolezza dell’imputato deve ritenersi in re ipsa, risultando dagli stessi elementi costitutivi della fattispecie di assenza procedibile.
Tenuto all’oscuro della vicenda processuale da un factum principis (la condotta non cooperativa del proprio Stato di appartenenza), in effetti, l’imputato, pur a conoscenza del procedimento, deve presumersi senza sua colpa ignaro delle cadenze del processo, e ha quindi libero accesso alla reintegrazione nelle facoltà processuali che ritenga di esercitare.
In altri termini, egli, conformemente ai canoni stabiliti dalla sentenza IR, poiché irrintracciabile dalle autorità procedenti nonostante i loro «ragionevoli sforzi», può essere oggetto di un processo in assenza, ma può far valere «direttamente» il diritto a un nuovo processo che conduca al riesame del merito della causa in presenza, mentre è onere delle autorità stesse, che intendano negare la riapertura del processo, allegare «indizi precisi e oggettivi» dai quali risulti che l’imputato, nonostante l’atteggiamento non cooperativo del proprio Stato di appartenenza, «ha ricevuto informazioni sufficienti per essere a conoscenza del fatto che si sarebbe svolto un processo nei suoi confronti e, con atti deliberati e al fine di sottrarsi all’azione della giustizia, ha impedito alle autorità di informarlo ufficialmente di tale processo».
Pertanto, per i giudici di legittimità costituzionale, anche qualora l’assenza oggetto dell’odierna additiva sia stata “ben dichiarata”, l’imputato può ottenere la restituzione nelle facoltà processuali, e ciò in ogni momento, semplicemente comparendo, anche prima della pronuncia di un’eventuale condanna, e quindi anche senza ricorrere a un’impugnazione, rilevandosi al contempo come tale conclusione sia comprovata dall’applicabilità, nell’ipotesi in esame, dei rimedi restitutori previsti dalle disposizioni del codice di procedura penale, le quali, con riferimento ai diversi stati e gradi del processo, implicano variamente che l’imputato dimostri di non aver avuto conoscenza del processo e di non essere potuto intervenire senza sua colpa per esercitare le relative facoltà.
Il richiamo va, in particolare, all’art. 420-bis, comma 6, in relazione alla possibilità di revoca dell’ordinanza dichiarativa dell’assenza; all’art. 489, comma 2-bis, lettera b), in relazione allo svolgimento dell’udienza preliminare; all’art. 604, comma 5-ter, lettera b), per il giudizio di appello; nonché all’art. 623, comma 1, lettera b-bis), con riguardo al giudizio di cassazione.
Ai medesimi presupposti, inoltre, è subordinata dall’art. 175, comma 2.1., cod. proc. pen. la restituzione nel termine di impugnazione della sentenza pronunciata in assenza, con l’ulteriore precisazione che, ai sensi del comma 2-bis del medesimo articolo, il termine di presentazione della relativa istanza dell’imputato decorre soltanto dalla conoscenza personale che egli abbia avuto della sentenza («effettiva conoscenza del provvedimento») ovvero, in caso di estradizione dall’estero, «dalla consegna del condannato» (la quale a sua volta presuppone la conoscenza personale della sentenza in esecuzione).
La fattispecie di assenza in questione non comporta dunque, per la Consulta, alcun intervento sul quadro delle garanzie delineato dal d.lgs. n. 150 del 2022, viceversa ad essa applicabile tal quale, se non per la relevatio ab onere probandi di cui l’imputato si avvantaggia in ragione dell’oggettiva conformazione della fattispecie medesima, tenuto conto altresì del fatto che, attesa la manifesta violazione che ai principi costituzionali e sovranazionali viene da un’immunità per crimini di tortura, non può dirsi ostativa la riserva di discrezionalità del legislatore in ambito processuale, che pure la medesima Corte costituzionale ha avuto modo di affermare anche riguardo ai meccanismi di notifica della vocatio e di svolgimento del processo in absentia (sentenza n. 31 del 2017).
Ad ogni modo, per la Corte, l’amplissima possibilità di riapertura e rinnovazione del processo spettante agli imputati nella fattispecie in esame, necessaria per la conformità alle prescrizioni degli artt. 111 Cost. e 6 CEDU, non riduce tuttavia il processo stesso a un simulacro.
L’accertamento dei crimini di tortura nelle forme pubbliche del dibattimento penale corrisponde a un obbligo costituzionale e sovranazionale, e già solo per questo non è mai inutile, ove anche circostanze esterne lo privino del contraddittorio dell’imputato.
All’imputato stesso, d’altronde, resta garantita ogni facoltà di far sentire la sua voce.
Per tutto quanto esposto, era dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, cod. proc. pen., per violazione degli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione medesima, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.

4. Conclusioni


La decisione in esame è sicuramente di considerevole interesse in quanto si va dichiarare l’illegittimità costituzionale, perlomeno in parte, di una norma codicistica, che assume una particolare rilevanza nel nostro ordinamento processualpenalistico, vale a dire l’art. 420-bis, co. 3, cod. proc. pen. che, come è noto, dispone quanto segue: “Il giudice procede in assenza anche fuori dai casi di cui ai commi 1 e 2, quando l’imputato è stato dichiarato latitante o si è in altro modo volontariamente sottratto alla conoscenza della pendenza del processo”.
Difatti, questo precetto normativo è stato ritenuto costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che il giudice possa procedere, in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione medesima, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.
Si tratta quindi di una considerevole norma derogatoria rispetto a quanto previsto “di base” da questo comma terzo, in quanto, come appena visto, si consente di procedere in assenza dell’imputato anche quando non vi è la prova che costui si sia volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento a cui è sottoposto.
In particolare, con tale pronuncia, si può procedere, anche ove siffatta prova manchi, purchè: 1) a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere codesta prova; 2) si proceda per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata e resa esecutiva con legge 3 novembre 1988, n. 498.
Orbene, incominciando dal punto 2), la Corte costituzionale, con una motivazione molto articolata, spiega chiaramente il perché, per questa tipologia di delitti, si possa procedere anche in assenza, ove ricorra la condizione di cui al punto 1).
Sul punto, quindi, ad avviso di chi scrive, nulla quaestio, fermo restando che nulla sembra escludere la possibilità che si possano sollevare analoghe questioni di legittimità costituzionale, in relazione ad altre fattispecie di reato, dal momento che questa norma codicistica è stata dichiarata costituzionalmente illegittima, non solo per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura, ma anche a proposito dell’art. 2 sempre della nostra legge fondamentale, facendosi riferimento al diritto inviolabile della vittima di avere giustizia, che potrebbe essere impedito nel suo esercizio allorchè, come in questo caso, esso sia impedito sine die dall’impossibilità di celebrare il processo per l’accertamento del reato.
Orbene, quanto appena esposto potrebbe comportare un ampliamento di ipotesi derogatorie, in relazione a procedimenti afferenti altri illeciti penali, rispetto a quanto sancito dall’art. 420-bis, co. 3, cod. proc. pen., prima che la Consulta intervenisse con la pronuncia qui in commento.
Precisato ciò, venendo invece a trattare l’altra condizione, si pone il problema di capire cosa debba intendersi per mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, o meglio, quando siffatta mancata assistenza possa rilevare in tale caso.
Ebbene, sempre ad avviso di chi scrive, il significato da conferire a codesta situazione, al fine di non vanificare quella parte dell’art. 420-bis, co. 3, cod. proc. pen. non interessata da questo intervento della Consulta, dovrebbe essere assai rigoroso, ossia circoscritto ai soli casi in cui siffatta mancata assistenza sia la sola causa, da cui è derivata l’impossibilità di fornire la prova in questione, e non rappresenti invece una delle cause da cui si è venuta a verificare codesta impossibilità.
Ad ogni modo, la Consulta si è premurata di garantire comunque il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa, al fine di non pregiudicare a costui la possibilità di potersi difendere, partecipando al processo a suo carico, ed esercitando tutte le prerogative a lui conferite ex lege.
Non resta dunque che aspettare come le questioni interpretative, che potrebbero scaturire dall’emissione di questa pronuncia, verranno affrontate in sede giudiziale.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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