Abuso del processo: nozione e conseguenze

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L’abuso del processo si ha nel momento in cui colui che agisce in giudizio non lo fa in buona fede facendo, di conseguenza, perdere tempo e risorse alla giustizia.

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Indice

1. Cos’è l’abuso del processo

Per “abuso del processo” si intende proprio un abuso del diritto, cioè uno sfruttamento della propria posizione giuridica al fine di intralciarne o peggiorarne una o più altre.
In altre parole, si sfrutta una facoltà lecita per scopi ingiusti.
L’esempio classico è quello di instaurare una causa persa in partenza solo per opporre una (inutile) resistenza e guadagnare tempo o farlo perdere alla controparte.
L’abuso del processo può essere considerato, dunque, come una violazione dei principi di correttezza e buona fede di cui all’art. 1175 c.c., ma anche del giusto processo sancito dall’art. 111 Cost. in relazione alla sua celerità.
Secondo la Corte di Cassazione (sent. n. 7409/2021), infatti, per aversi abuso del processo è necessario che sussistano due caratteristiche: un elemento oggettivo che consiste nell’utilizzo del processo “per fini diversi ed ulteriori da quelli suoi propri, ed illegittimi” e un elemento soggettivo che si verifica quando questa condotta “venga tenuta in violazione del generale dovere di correttezza e buona fede.

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2. Conseguenze dell’abuso del processo

Se all’inizio questa “strategia” può rivelarsi utile, alla fine la conseguenza principale è che i giudici sanzionano tali comportamenti a norma dell’art. 96 c.p.c. che prevede la c.d. “lite temeraria“.
Questa norma, prevede che “se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza.
Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forza, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente.
In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.
Nei casi previsti dal primo, secondo e terzo comma, il giudice condanna altresì la parte al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000
“.
Quest’ultimo comma è una novità normativa introdotta dal d. lgs. n. 149 del 2022 che contiene, nei casi di conformità tra proposta e decisione finale, una valutazione legale tipica, ad opera del legislatore delegato, della sussistenza dei presupposti per la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata a favore della controparte e dell’ulteriore pagamento alla cassa delle ammende: in tal modo risulta codificata un’ipotesi di abuso del processo, già immanente nel sistema processuale.
Secondo recente e autorevole giurisprudenza, non attenersi ad una valutazione giudiziaria “che trovi conferma nella decisione finale lascia certamente presumere una responsabilità aggravata” (Cass., SS. UU., sent. n. 28550/2023).
Già prima della riforma, un’importante pronuncia della Corte di Cassazione ha sancito il principio di diritto secondo il quale “la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonché interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della ‘potestas agendi’ con un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte. Ne consegue che la condanna al pagamento della somma equitativamente determinata, non richiede né la domanda di parte né la prova del danno, essendo tuttavia necessario l’accertamento in capo alla parte soccombente, della mala fede (consapevolezza dell’infondatezza della domanda) o della colpa grave (per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza), venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell’iniziativa giudiziaria per contrasto al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione” (Cass. sent. n. 22405/2018).
Con legge n. 103/2017, inoltre, è stata introdotta anche la responsabilità in solido dell’avvocato con il proprio cliente al risarcimento del danno, sempre nel caso in cui la parte soccombente abbia agito o resistito con mala fede o colpa grave.
Sulla scorta della citata recente giurisprudenza (Cass. SS. UU. sent. n. 28550/2023), una importante norma da tenere in considerazione al riguardo è l’art. 380-bis, co. 1, c.p.c., il quale dispone che “se non è stata ancora fissata la data della decisione, il presidente della sezione o un consigliere da questo delegato può formulare una sintetica proposta di definizione del giudizio, quando ravvisa la inammissibilità, improcedibilità o la manifesta infondatezza del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto. La proposta è comunicata ai difensori delle parti“.

3. Conclusioni

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cit.) hanno ben chiarito ulteriormente l’importanza delle norme poste a tutela della linearità del processo e della sua ragionevole durata, osservando che “sottrarre proprio la condanna al pagamento di una somma in favore della controparte e di una ulteriore somma in favore della cassa delle ammende al corredo di incentivi e di fattori di dissuasione contenuti nelle norme in esame (che sono finalizzati a rimarcare limitatezza della risorsa giustizia, essendo giustificato che colui che abbia contribuito a dissiparla, nonostante una prima delibazione negativa, sostenga un costo aggiuntivo), verrebbe a limitare fortemente la portata applicativa della norma, che dovrebbe attendere verosimilmente diversi anni per vedere riconosciuta la sua piena efficacia, in evidente contrasto con il chiaro intento del legislatore di offrire nell’immediato uno strumento di agevole e rapida definizione dei ricorsi che si palesino inammissibili, improcedibili ovvero manifestamente infondati, e consentendo alla Corte di Cassazione di concentrarsi su quelli che invece si presentino meritevoli di un intervento nomofilattico o che, all’inverso, meritino accoglimento, o comunque un attento esame“.

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Riccardo Polito

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