Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 46486 del 20 novembre 2023) ha chiarito come il giudice non possa respingere la richiesta di perizia psichiatrica se questa è supportata da una consulenza proveniente da un medico privato.
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Indice
1. I fatti
La pronuncia della Corte di Cassazione scaturisce dal ricorso presentato dall’imputato avverso la sentenza della Corte di appello di Catania la quale, in riforma alla sentenza del Gip del Tribunale di Siracusa, lo aveva condannato a pena di giustizia oltre che al risarcimento dei danni nei confronti della persona offesa per il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. con la concessione del beneficio della non menzione della condanna, confermando, nel resto, la sentenza impugnata.
Il ricorso presentato si articolava in tre motivi, consistenti: 1) nella violazione di legge e inosservanza delle norme processuali sancite a pena di nullità, inammissibilità, inutilizzabilità e decadenza in riferimento all’arbitrarietà della motivazione di escludere la perizia psichiatrica, in quanto fondata su documentazione di parte proveniente da struttura privata, anche alla luce della patologia diagnosticata, del tutto coerente con la condotta maniacale del soggetto; 2) nella violazione di legge e vizio di motivazione quanto al diniego delle circostanze attenuanti generiche, pur essendo stato riconosciuto il desiderio dell’imputato di recuperare il legame affettivo; 3) nella violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla determinazione della pena, posto che la condotta risulta esaurita in epoca in cui la cornice edittale della pena era compresa tra un minimo di mesi sei di reclusione ed un massimo di anni cinque di reclusione, per cui la motivazione della Corte territoriale, secondo cui la pena sarebbe stata determinata in misure prossima al minimo edittale, risulterebbe del tutto incongrua.
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2. Perizia psichiatrica supportata da consulenze private: l’analisi della Cassazione
La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso, si sofferma sulla richiesta, da parte della difesa, dell’acquisizione di una consulenza psichiatrica prodotta nell’ambito di altro procedimento penale, da cui emergevano condizioni patologiche da cui il ricorrente era affetto, chiedendo, alla luce di tale elaborato lo svolgimento di una perizia sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato, nonché sulla sua capacità di partecipare consapevolmente al giudizio.
La Corte di merito, tuttavia, aveva ritenuto che la richiesta di perizia non rivestisse carattere di necessità e decisività, né potesse considerarsi supportata da adeguata documentazione, in quanto la relazione di consulenza psichiatrica non proveniva da una struttura pubblica, trattandosi di un elaborato proveniente da uno specialista che aveva operato nel contesto di una struttura privata. Inoltre, la Corte di appello aveva constatato che la consulenza risaliva a diverso tempo prima e non attestava una incapacità di intendere e di volere, bensì un disturbo bipolare in atto, dando conto del fatto che, all’epoca in cui era stata redatta, comunque le condizioni dell’imputato all’atto delle dimissioni dalla casa di cura, risultavano migliorate.
La Corte di Cassazione osserva come tale motivazione appaia palesemente incongrua, contraddittoria ed illogica, oltre che priva di qualsiasi appiglio ai canoni individuati da consolidata giurisprudenza in tema di perizia psichiatrica.
Infatti, la Cassazione sottolinea come sia pacifico che “nel giudizio di appello è ammissibile la richiesta di rinnovazione del dibattimento per lo svolgimento di perizia psichiatrica in tema di capacità di intendere e di volere dell’imputato, anche nel caso in cui la decisione di primo grado sul punto non abbia formato oggetto di specifico e tempestivo motivo di gravame; ciò in quanto l’accertamento dell’idoneità intellettiva e volitiva dell’imputato non necessita di richiesta di parte, potendo essere compiuto anche d’ufficio dal giudice di merito allorquando ci siano elementi per dubitare dell’imputabilità“.
Aggiunge la Suprema Corte che “l’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato, oltre che della sua capacità di partecipare consapevolmente al processo, costituisce uno snodo nevralgico della sequenza processuale, rispetto alla quale questa Corte, da tempo, ha ravvisato la necessità di disporre tutti gli approfondimenti necessari“.
Ad avviso della Cassazione, dunque, la Corte territoriale non ha fornito una adeguata spiegazione riguardo all’assenza del “carattere di necessità e di decisività”.
Per ciò che concerne la provenienza della consulenza, redatta da un medico operante in struttura privata, la Corte di appello ha ritenuto che possedesse una valenza limitata operando, in tal modo, ad avviso della Suprema Corte, “una indebita e del tutto ingiustificata, oltre che illogica ed arbitraria, gradazione di validità dell’apporto tecnico fornito dallo specialista, in base al diverso inquadramento amministrativo delle prestazioni assistenziali erogate dalla struttura – in regime pubblicistico o privatistico – in cui aveva operato lo psichiatra autore della consulenza“.
La Corte sottolinea come si tratti di un criterio che non trova alcun appiglio né in massime di esperienza consolidate né, tantomeno, in principi giuridici, posto che il medico in questione risulta – fino a prova contraria – un soggetto munito di laurea in medicina e chirurgia, specializzato in psichiatria ed operante in una struttura specialistica, dove il ricorrente era stato ricoverato per il trattamento di un disturbo bipolare.
Inoltre, la Suprema Corte trova di difficile comprensione l’affermazione della Corte di appello secondo la quale il citato disturbo bipolare del ricorrente non fosse dimostrativo di alcuna incapacità di intendere e di volere, essendo tale disturbo, pacificamente, “una malattia di natura psichiatrica e, come tale, astrattamente incidente sulla sfera cognitiva e volitiva del soggetto“.
3. La decisione della Cassazione
Alla luce di quanto finora esposto, la Corte di Cassazione ha chiarito, dunque, come le consulenze poste in essere anche da medici privati siano assolutamente equivalenti a quelle di qualsiasi altro medico in possesso di laurea e specializzazione e come tale “discriminazione” sia del tutto illogica.
Pertanto, la Suprema Corte ha imposto l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Catania, con assorbimento degli ulteriori motivi.
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