Commento e approfondimento sull’art. 73, comma 7, T.U. 309/90: “Le pene previste dai commi 1 a 6 sono diminuite dalla metà a due terzi per chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l’autorità di polizia e l’autorità giudiziaria nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti”.
Indice
1. La ratio del comma 7 art. 73 T.U. 309/90
Nei Lavori Preparatori è espressamente affermato che “l’Art. 73 comma 7 TU 309/90 configura un’ipotesi di attenuante ad effetto speciale diretta ad incentivare e premiare il ravvedimento post-delitto del responsabile, secondo la medesima ratio che ispira quella contenuta nel comma 7 Art. 74 TU 309/90, relativamente al reato di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti. La previsione normativa è uno strumento per agevolare gli investigatori: il premio costituito dalla robusta e significativa diminuzione di pena richiede che le dichiarazioni del reo abbiano consentito un risultato concreto e rilevante nella lotta al narcotraffico”. Siffatta attenuante reca un notevole rilievo nel contesto criminologico italiano, caratterizzato da una forte e stabile presenza di mafie come Cosa Nostra, la ‘Ndrangheta e la Camorra. Nella realtà italiana, il ravvedimento operoso riveste un ruolo primario.
Da notare è che il comma 7 Art. 73 TU 309/90 gode di precettività anche se la dissociazione dell’infrattore è tardiva, mentre la circostanza attenuatoria ex n. 6) comma 1 Art. 62 CP scatta solamente se il ravvedimento avviene “prima del giudizio”.
Oltretutto, si tenga presente che il comma 7 Art. 73 TU 309/90 si applica esclusivamente nel caso della dazione di un serio e concreto contributo allo smantellamento del sodalizio criminale. Viceversa, una collaborazione blanda e generica non è sussumibile entro il campo applicativo di questa attenuante. Ciò è confermato da Cass., sez. pen. V, 27 aprile 1999, n. 6913, a norma della quale “possono concretare l’attenuante della collaborazione anche le confessioni e le chiamate inj correità, ove consentano l’interruzione del protrarsi del reato o la scoperta dei complici, ma va escluso che possa goderne chi ha soltanto contribuito al rafforzamento del quadro probatorio a carico dei principali responsabili già identificati”.
Questa natura non simbolica, bensì fattualmente concreta del ravvedimento operoso di cui al comma 7 Art. 73 TU 309/90 viene confermata pure da Cass., SS.UU., 28 ottobre 1998, n. 4, ovverosia “[in tema di reati concernenti le sostanze stupefacenti] non costituiscono presupposto idoneo per il riconoscimento dell’attenuante della collaborazione prevista dal comma 7 dell’Art. 73 TU 309/90, ammissioni o comportamenti non conducenti all’interruzione del circuito di distribuzione degli stupefacenti, ma limitati al rafforzamento del quadro probatorio o al raggiungimento anticipato di positivi risultati di attività d’indagine già in corso in quella direzione”. Come si può notare, Cass., SS.UU., 28 ottobre 1998, n. 4 ha cura di impedire qualsivoglia abuso pretestuoso del comma 7 Art. 73 TU 309/90, in tanto in quanto la “collaborazione” è tale solo se fattiva e risolutiva; rimangono, dunque, ininfluenti modalità collaborative sciappe, pleonastiche o non decisive.
Anzi, nella Giurisprudenza di legittimità, si è specificato che il collaboratore di giustizia è tenuto, per beneficiare del comma 7 Art. 73 TU 309/90, ad indicare “circostanze rilevanti” e non secondarie o retoriche. P.e., tale “rilevanza” concreta dell’aiuto alla PG ed all’AG è stata ribadita, negli Anni Duemila, in Cass., sez. pen. IV, 15 gennaio 2015, n. 7956, poiché “[sono] circostanze rilevanti [nel comma 7 Art. 73 TU 309/90]: in primo luogo, la completezza ed esaustività della collaborazione (il dichiarante deve aver fornito tutto il suo patrimonio di conoscenze); in secondo luogo, le risorse in concreto sottratte all’attività criminosa (sequestri di quantitativi di sostanze stupefacenti e chiamate in correità di complici); terzo luogo, la concreta utilità per il contrasto dell’attività criminosa determinatosi a seguito del contributo collaborativo (apprezzamento particolarmente approfondito specie quando le risorse sottratte risultassero oggettivamente non considerevoli). Il giudice, invece, deve negare l’attenuante, anche qui dovendone spiegare le ragioni, specie a fronte di un’esplicita richiesta in tal senso dell’interessato, in presenza di un contributo collaborativo incompleto o, comunque, in concreto, non definibile come utile, significativo, proficuo nell’ottica del contrasto delle attività criminose”.
Nuovamente, pertanto, Cass., sez. pen. IV, 15 gennaio 2015, n. 7956 richiede, ai fini della precettività del comma 7 Art. 73 TU 309/90, un “contributo utile e significativo” che non si limiti a dichiarazioni generiche non recanti al dissolvimento fattuale del sodalizio criminoso. Cass., sez. pen. IV, 15 gennaio 2015, n. 7956 mira, come ragionevole, ad impedire una strumentalizzazione simbolica del comma 7 Art. 73 TU 309/90.
La “notevole utilità fattuale” della collaborazione ex comma 7 Art. 73 TU 309/90 è stata ripresa da molti altri Precedenti della Suprema Corte. P.e., Cass., sez. pen. III, 14 luglio 2011, n. 34892 ha precisato che “la collaborazione può riguardare anche fatti diversi da quelli contestati al dichiarante [ma] occorre che essa sia concretamente efficace per l’interruzione dell’attività delittuosa o per la sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti”. Analogo “contributo significativo” è richiesto pure da Cass., sez. pen. VI; 19 luglio 2012, n. 37100, nel senso che “l’attenuante in questione si colloca in uno spazio più avanzato della mera collaborazione informativa, e l’operosità da prendere in considerazione è quella che consente la realizzazione di uno dei risultati concreti previsti dalla citata norma e, specificamente, di interrompere la catena delittuosa in atto o di colpire i mezzi di produzione delle attività criminali […]. E’ necessario, quindi, verificare la concretezza, l’utilità e la proficuità del contributo offerto dall’imputato”. Parimenti, anche Cass., sez. pen. III, 19 luglio 2012, n. 44478 asserisce anch’essa che il comma 7 Art. 73 TU 309/90 va applicato esclusivamente in presenza di una “proficuità concreta” del ravvedimento e della collaborazione in parola nel comma 7 Art. 73 TU 309/90.
D’altra parte, l’Ordinamento penale italiano ha purtroppo avuto, negli Anni Ottanta del Novecento, l’esperienza tragica e fuorviante di un “pentitismo” inutile e volto a lucrare dall’AG benefici non meritati nell’ottica della “concretezza” della dissociazione dal gruppo criminale. Simile è pure il parere di Cass., sez. pen. IV, 9 maggio 1997, n. 1072, a norma della quale “occorre che, per un verso, il collaboratore faccia tutto quanto in suo potere e, per altro verso, che la collaborazione non si limiti a rafforzare il quadro probatorio nei confronti di soggetti già identificati o ad individuare soggetti con un ruolo secondario nell’organizzazione e, quindi, inidonei ad interrompere l’attività delittuosa”. Più nel dettaglio, Cass., sez. pen. IV, 9 maggio 1997, n. 1072 ha negato l’applicabilità del comma 7 Art. 73 TU 309/90 “a favore di imputati che si sono limitati a formulare accuse nei confronti di persone già sottoposte ad indagini e a rafforzare un quadro probatorio già delineato sufficientemente”. Come si nota in tutti i summenzionati Precedenti, la Suprema Corte richiede la massima serietà della dissociazione dai correi. Pertanto, un contributo sterile o ridondante provoca la non precettività del comma 7 Art. 73 TU 309/90.
Come sottolineato dalla Corte Suprema, il comma 7 Art. 73 TU 309/90 non richiede, per essere precettivo, l’ulteriore elemento soggettivo del “pentimento”; quindi, l’attenuante qui in parola scatta a prescindere dalla dissociazione morale o meno del beneficiario. A tal proposito, Cass., sez. pen. III, 13 febbraio 2018, n. 29621 ha affermato che “l’attenuante di cui al comma 7 Art. 73 TU 309/90 ha natura oggettiva e sussiste nel caso in cui, con le dichiarazioni rese, sia stato offerto agli organi investigativi o giudiziari un aiuto concreto per l’interruzione dell’attività delittuosa, che si misura con una rilevante riduzione delle risorse finalizzate alla commissione di delitti in materia di stupefacenti ed il conseguente impoverimento del mercato, non essendo, pertanto, necessario un atto di autentico pentimento o di spontanea resipiscenza”. A parere di chi redige, tuttavia, il quid pluris del “pentimento” soggettivo, alla luce della ratio rieducativa ex comma 3 Art. 27 Cost., rimane basilare ai fini dell’accesso a benefici extra-/semi-murari connessi all’esecuzione penitenziaria. La resipiscenza è e rimane uno degli elementi fondanti nel trattamento carcerario.
A sua volta, Cass., sez. pen. IV, 13 aprile 1999, n. 5699 ribadisce la necessità della “utilità concreta” del contributo collaborativo, ovverosia “pur non essendo necessario il pentimento, il contributo dev’essere pieno e non reticente: la collaborazione deve avere connotazioni di particolare efficacia, non riferita ad episodiche circostanze o solo ad alcuni dei segmenti dell’intera condotta illecita; deve cioè risolversi in un contributo pieno, per quanto a conoscenza del collaborante”. Parimenti, pure Cass., sez. pen. VI, 8 marzo 1994, n. 6424 mette in guardia dagli abusi del comodo e sterile pentitismo, in tanto in quanto “l’aiuto che il soggetto fornisce agli inquirenti dev’essere caratterizzato anche dal requisito della chiara sua univocità allo scopo, nel senso che all’attività di dichiarata ed oggettiva collaborazione non debbono accompagnarsi o seguire comportamenti parzialmente reticenti o volutamente omissivi, cosicché l’aiuto medesimo venga a risultare intenzionalmente incompleto”.
Più in generale, la Corte di Cassazione, negli Anni Novanta del Novecento e negli Anni Duemila, tende a concedere con parsimonia i benefici attenuatori legati al comma 7 Art. 73 TU 309/90. P.e., in Cass., sez. pen. VI, 15 giugno 1995, n. 9891, è stata negata l’attenuante qui in esame poiché gli imputati avevano omesso di dichiarare le generalità dei fornitori della sostanza. Oppure, in Cass., sez. pen. VI, 8 marzo 1994, n. 6424, non è stato applicato il comma 7 Art. 73 TU 309/90 in tanto in quanto i collaboratori avevano semplicemente rivelato l’identità di correi di secondaria importanza già sottoposti ad indagini. Analogamente, Cass., sez. pen. VI, 14 gennaio 2013, n. 9069 ha qualificato come “non concretamente utile” una chiamata in correità marginale e non supportata da effettivi riscontri probatori. Il comma 7 Art. 73 TU 309/90 non è stato concesso nemmeno in Cass., sez. pen. III, 2 luglio 2014, n. 43226, nella quale “l’imputato ha reso [solo] dichiarazioni su aspetti già conosciuti o che sarebbero stati comunque scoperti dall’autorità”.
Similmente, in Cass., sez. pen. VI, 13 luglio 2017, n. 36209, l’imputato non è stato ammesso al regime attenuato di cui al comma 7 Art. 73 TU 309/90 “per aver reso dichiarazioni che non hanno comportato […] rilevanti sviluppi investigativi”. Il comma 7 Art. 73 TU 309/90 è stato negato anche in Cass., sez. pen. IV, 13 aprile 1999, n. 5699 “per la rilevanza non decisiva di una collaborazione reticente […] [che non ha condotto] ad un compiuto accertamento dei fatti […] [e che non ha aiutato] nell’azione di contrasto e di neutralizzazione dell’attività illecita”. Dunque, gli otto Precedenti di legittimità testé menzionati dimostrano che la Suprema Corte tende ad applicare in maniera restrittiva il comma 7 Art. 73 TU 309/90. Nella Giurisprudenza italiana in tema di stupefacenti non trova spazio un pentitismo facile e privo di utilità concreta per la PG e l’AG.
Tuttavia, fa eccezione Cass., sez. pen. IV, 14 giugno 2018, n. 42463, a norma della quale il comma 7 Art. 73 TU 309/90 può essere precettivo anche nel caso di dichiarazioni marginali “a condizione che [il correo] abbia offerto tutto il suo patrimonio di conoscenze e che [tali dichiarazioni confessorie] siano idonee, in astratto, ad evitare che l’attività delittuosa sia portata ad ulteriori conseguenze”. Nelle Motivazioni, Cass., sez. pen. IV, 14 giugno 2018, n. 42463 prosegue asserendo che “ai fini dell’applicazione dell’attenuante del ravvedimento operoso di cui al comma 7 Art. 73 TU 309/90, non è necessario, quando si è in presenza di traffici di modesta rilevanza, che il risultato conseguito dalla collaborazione consista nella sottrazione al mercato di rilevanti risorse per la commissione dei delitti”.
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2. Questioni giurisprudenziali sull’attenuante di cui al comma 7 art. 73 T.U. 309/90
Un primo filone esegetico, sostenuto da Cass., sez. pen. III, 10 gennaio 2013, n. 9559 afferma che “l’attività delittuosa cui si riferisce la norma [ex comma 7 Art. 73 TU 309/90] non può essere che quella oggetto del giudizio, per cui è escluso il riconoscimento dell’attenuante della collaborazione se riguarda fatti relativi a procedimenti non connessi con quello in corso”. Anzi, tale requisito della “attualità” processuale implica, sempre in Cass., sez. pen. III, 10 gennaio 2013, n. 9559, che “la circostanza attenuante della collaborazione […] dev’essere esclusa qualora il contributo collaborativo, già positivamente riconosciuto in altro procedimento, non venga rinnovato in relazione al nuovo episodio criminoso”.
Altrettanto restrittiva è Cass., sez. pen. VI, 4 ottobre 1999, n. 13294 (ripresa da Cass., sez. pen. V, 27 aprile 1999, n. 6913), nel senso che “l’attenuante della collaborazione di cui al comma 7 Art. 73 TU 309/90 non può essere riconosciuta nel caso in cui il dichiarante si sia limitato a confermare fatti che già sono stati riferiti da altro collaborante, né può essere concessa qualora le dichiarazioni, pur rispondenti ai requisiti di cui al citato comma 7, consentano di sgominare un’organizzazione criminosa dedita a traffici di sostanze stupefacenti, quando tali dichiarazioni riguardino fatti in relazione ai quali non sia ravvisabile alcuna connessione con quelli di cui al giudizio in corso”. Come si nota, il solco interpretativo delle tre Sentenze or ora citate è improntato ad un impianto ermeneutico restrittivamente rigido e categorico.
Un secondo indirizzo interpretativo, invece, afferma che il “contributo” collaborativo di cui al comma 7 Art. 73 TU 309/90 è sussumibile all’interno della menzionata attenuante anche se afferisce a fatti delittuosi non riferibili al procedimento penale in corso, bensì a reati collaterali che, successivamente, saranno oggetto di un’azione penale scaturita dopo le dichiarazioni confessorie del collaborante. Tale secondo approccio esegetico è corroborato da Cass., sez. pen. IV, 15 marzo 2001, n. 15393 (similare a Cass., sez. pen. IV, 4 dicembre 2003, n. 4858), in tanto in quanto “l’attenuante della collaborazione prevista dal comma 7 Art. 73 TU 309/90 non è necessariamente ancorata alla struttura del reato già commesso ed alle sue immediate conseguenze, ma comprende, altresì, ogni altra collaborazione idonea alla sottrazione di risorse rilevati per la commissione di delitti pur privi di un collegamento diretto con quello dell’agente, ed è, pertanto, ravvisabile, purché vi sia un risultato utile, tanto nel comportamento di colui che impedisce le conseguenze ulteriori del reato commesso, quanto allorché il contributo ha riguardato altri reati con quest’ultimo privi di collegamento”. P.e., in Cass., sez. pen. IV, 15 marzo 2001, n. 15393, le dichiarazioni confessorie dell’imputato hanno permesso alla PG di scoprire un altro traffico di stupefacenti che, poi, ha dato origine ad un ulteriore procedimento, che non sarebbe mai stato originato senza l’apporto collaborativo esternato dal pentito nel primo processo.
D’altra parte, in tutta franchezza, il testo del comma 7 Art. 73 TU 309/90 non specifica la “attualità” o meno del procedimento in cui avviene la “collaborazione”. In effetti, i lemmi “per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori” lasciano aperta, nel menzionato comma 7, la concessione dell’attenuante anche in diversi e successivi procedimenti cagionati dalla precedente dissociazione del correo resa in una diversa sede processuale. Cass., sez. pen. IV, 15 marzo 2001, n. 15393 insiste sull’ostacolo, da parte del collaboratore, a “conseguenze ulteriori”, poiché il testo del comma 7 Art. 73 TU 309/90 parla di “delitti senza specificare se il processo ai corresponsabili sia o non sia già celebrato. L’essenziale, in questo secondo orientamento, è l’ausilio concreto resi a beneficio della PG e dell’AG ai fini dello svolgimento di indagini, contestuali, ma anche potenziali.
3. Corollari in tema di comma 7 art. 73 T.U. 309/90
Il comma 7 Art. 73 TU 309/90 non presuppone alcun “ravvedimento del reo”; dunque, la “collaborazione” apportata ai sensi di questa norma non provoca, in maniera automatica, la sospensione condizionale della pena, giacché l’intento di ottenere benefici sulla durata della detenzione non postula per nulla il quid pluris del “pentimento”. Ciononostante, a parere di chi scrive, gioverebbe una connessione automatica e più semplice tra il comma 7 Art. 73 TU 309/90 e la resipiscenza. Tuttavia, Cass., sez. pen. III, 12 gennaio 2018, n. 20404 prosegue nell’affermare che 2il riconoscimento della circostanza attenuante di cui al comma 7 Art. 73 TU 309/90 non comporta automaticamente la sospensione condizionale della pena, attesa la differente ratio dei due istituti, per i quali si impone una valutazione autonoma del giudice, essendo l’uno volto a premiare la collaborazione dell’imputato nel corso del processo, e l’altro diretto al ravvedimento del reo ed al suo reinserimento nella società. Di nuovo, in ogni caso, chi commenta predilige un legame di tipo automatico tra le dichiarazioni confessorie ex comma 7 Art. 73 TU 309/90 ed il beneficio della sospensione condizionale della pena detentiva.
Al contrario, la Giurisprudenza di legittimità afferma la “non collegabilità” tra il comma 7 Art. 73 TU 309/90 e la lieve entità di cui al comma 5 Art. 73 TU 309/90. A tal proposito, Cass., sez. pen. III, 21 luglio 2020, n. 25044 specifica, in maniera nuovamente restrittiva, che “al fine della sussumibilità del fatto nella previsione del comma 5 Art. 73 TU 309/90 [disciplinante la lieve entità] non rileva il contegno collaborativo dell’imputato, che esula dai mezzi, dalle modalità o dalle circostanze dell’azione, e che può trovare riconoscimento, a livello sanzionatorio, [solo ed esclusivamente] nell’applicazione della circostanza attenuante di cui al comma 7 Art. 73 TU 309/90, ovvero delle circostanze attenuanti generiche”. Ecco che, ancora una volta, Cass., sez. pen. III, 21 luglio 2020, n. 25044 mortifica il favor rei.
Parimenti, la Suprema Corte tiene precettivamente distinto il comma 7 Art. 73 TU 309/90 dal n. 6) Art. 62 CP, che disciplina l’attenuante della “riparazione” attiva del danno cagionato. Ovverosia, Cass., sez. pen. VI, 7 luglio 1992, n. 10383 dispone che “non può essere accolta la richiesta di applicazione dell’attenuante di cui al n. 6) Art. 62 CP che sia basata sulla medesima condotta collaborativa che già abbia fruttato il riconoscimento dell’attenuante speciale di cui al comma 7 Art. 73 TU 309/90. Invero, gli stessi elementi [attenuatori] non possono essere valutati ripetutamente per il conseguimento di una duplice riduzione di pena”. Similmente, Cass., sez. pen. IV, 10 giugno 2003, n. 34646 evidenzia che “l’attenuante prevista dal n. 6) Art. 62 CP, relativa all’attività posta in essere dal soggetto per attenuare le conseguenze del reato, è incompatibile con la contemporanea applicazione, nei reati concernenti gli stupefacenti, dell’attenuante prevista dal comma 7 Art. 73 TU 309/90, da ritenersi circostanza speciale”.
Ai limiti di una sterile elucubrazione intellettualoide si colloca pure Cass., sez. pen. III, 19 gennaio 2018, n. 23528, in tanto in quanto essa precisa che “il riconoscimento dell’attenuante del ravvedimento operoso di cui al comma 7 Art. 73 TU 309/90 non comporta automaticamente anche quello dell’attenuante di cui al comma 7 Art. 73 TU 309/90, non coincidendo i presupposti delle due circostanze, in quanto la prima riguarda l’assicurazione, ex post, delle prove dei reati commessi e, ai fini della sua applicazione, è necessario che i dati forniti siano nuovi, oggettivamente utili e costituiscano tutte le conoscenze a disposizione del dichiarante, mentre, per la concessione della seconda, è necessario che il contributo conoscitivo offerto dall’imputato, nel corso della consumazione del reato, sia utilmente diretto ad interrompere non tanto il traffico della singola partita di droga, bensì l’attività complessiva del sodalizio criminoso”. A parere di chi commenta, la Corte di Cassazione, nelle summenzionate Sentenze, non tiene nella debita considerazione la ratio della tutela garantistica del reo, il cui “pentimento” dovrebbe recare sempre all’applicazione di istituti premiali che indubbiamente incentivano la dissociazione dai correi. Non ha senso mantenere un’eccessiva severità nell’ambito di una tematica come quella del traffico di stupefacenti, ove il favor rei è e rimane basilare
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