Lo straniero condannato per uno dei reati previsti dagli Artt. 73, 74, 79 e 82 commi 2 e 3, a pena espiata deve essere espulso dallo Stato.
Indice
1. L’accertamento della pericolosità dello straniero.
Art. 86 TU 309/90
Lo straniero condannato per uno dei reati previsti dagli Artt. 73, 74, 79 e 82 commi 2 e 3, a pena espiata deve essere espulso dallo Stato
Lo stesso provvedimento di espulsione dallo Stato può essere adottato nei confronti dello straniero condannato per uno degli altri delitti previsti dal presente testo unico.
Se ricorre lo stato di flagranza di cui all’Art. 382 Cpp in riferimento ai delitti previsti dai commi 1, 2 e 5 dell’Art. 73, il prefetto dispone l’espulsione immediata e l’accompagnamento alla frontiera dello straniero, previo nulla osta dell’AG procedente.
Da notare è che l’Art. 86 TU 309/90 impiega il lemma “straniero” e non “extracomunitario”: Dunque, il provvedimento di espulsione può riguardare anche cittadini comunitari. Tuttavia, il presupposto giurisprudenziale per dare luogo all’allontanamento dal territorio nazionale consta nell’accertata “pericolosità” dell’infrattore non munito di cittadinanza italiana. Anzi, tale “pericolo” antisociale ed antinormativo è presunto qualora le disposizioni penali del TU 309/90 siano violate da uno straniero, il che deroga la clausola di eguaglianza ex Art. 3 Cost.
Da rimarcare è che Consulta 58/1995 ha dichiarato illegittimo il comma 1 Art. 86 TU 309/90, nel senso che la “pericolosità” non è una caratteristica automaticamente legata alla cittadinanza straniera dell’infrattore; pertanto, l’AG procedente è tenuta ad accertare la sussistenza del pericolo caso per caso, in tanto in quanto è discriminatorio presumere, in ogni caso, l’antisocialità eterolesiva del reo solamente sulla base della propria provenienza. Collegare in maniera istantanea la pericolosità al non possedere passaporto italiano significa violare, secondo Consulta 58/1995, il comma 1 Art. 3 Cost., in tanto in quanto “tutti i cittadini [e residenti o domiciliati] hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Quindi, Corte Costituzionale 58/1995 censura il nesso automatico di cui al comma 1 Art. 86 TU 309/90.
Anche, del resto, la Suprema Corte ha esortato ad una contestualizzazione più egualitaria ed afferente a ciascun singolo caso. Cass., sez. pen. IV, 4 luglio 2002, n. 35953 ha asserito che “in tema di misure di sicurezza, qualora lo straniero sia condannato per reati di spaccio di sostanze stupefacenti, il giudice di merito ha il dovere di accertare, in concreto, – non sussistendo, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 58 del 1995, la presunzione assoluta di pericolosità – la sussistenza della pericolosità sociale del condannato per i suddetti reati, ed alla stregua di tale accertamento, compiuto alla luce degli elementi indicati dall’Art. 133 CP, e congruamente motivato, deliberare l’applicabilità o meno dell’ordine di espulsione dello straniero dallo Stato”. Del pari, pure Cass., sez. pen. IV, 25 ottobre 2007, n. 46759 nega la tassatività e la necessarietà ontologica del binomio “cittadinanza straniera-pericolosità antisociale”. Analogamente, Cass., sez. pen. IV, 6 maggio 2004, n. 26096 afferma che il Magistrato del merito è tenuto a concretizzare, nella singola fattispecie processuale, il requisito del “pericolo” prodromico all’espulsione, giacché, alla luce dell’Art. 3 Cost., Consulta 58/1995 ha negato un sinallagma automatico e deterministico tra l’essere straniero ed il costituire un pericolo per la sicurezza statale. Ciò dipende o non dipende dalla corretta applicazione fattuale delle caratteristiche soggettive ed oggettive di cui all’Art. 133 CP. Presupporre juris et de jure una eterolesività perenne e connaturata viola la ratio democratica dell’uguaglianza tra consociati di cui all’Art. 3 Cost. .
Di più, giustamente, negli Anni Duemila, Cass., sez. pen. VI, 18 aprile 2007, n. 17183 ha evidenziato che “al contrario, [nell’ambito precettivo dell’Art. 86 TU 309/90] vi è una presunzione di non pericolosità, che impedisce l’espulsione, quando l’imputato sia stato condannato, ma con la sospensione condizionale [della pena], in quanto, concedendola, il giudice di merito, implicitamente, esclude l’attuale pericolosità sociale, che è presupposto imprescindibile per l’applicazione della misura di sicurezza”. Ovverosia, il condannato con pena sospesa è autorizzato, indirettamente, a permanere nel territorio italiano; pertanto, si presume che la sua eterolesività sia stata limitata ad un singolo episodio bagatellare che, ex Art. 133 CP, non mette in pericolo la pace sociale.
Non senza torto, taluni interpreti hanno tentato di postulare che la “lieve entità” ex comma 5 Art. 73 TU 309/90 implicherebbe la “non pericolosità”, dunque la mancata necessità automatica dell’espulsione. Siffatto affascinante approccio esegetico, tuttavia, è stato smentito da Cass., sez. pen. IV, 2 febbraio 2021, n. 7104, ovverosia “la misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato ex Art. 86 TU 309/90 può essere applicata anche a seguito di espiazione di pena conseguente a condanna per il reato di cui all’Art. 73 comma 5 TU 309/90”. A parere di chi redige, Cass., sez. pen. IV, 2 febbraio 2021, n. 7104 viola la ratio costituzionale della “proporzionalità” della pena. In effetti, un “fatto di lieve entità” ex comma 5 Art. 73 TU 309/90 appare come intrinsecamente “non pericoloso”.
Chi scrive reputa eccessivamente retribuzionista l’ermeneutica adottata in Cass., sez. pen. IV, 2 febbraio 2021, n. 7104, giacché “lieve entità” e “lieve pericolosità”, nel TU 309/90, formano un binomio indissolubile. D’altra parte, anche nell’Art. 133 CP, molti requisiti richiamano da vicino il criterio del “fatto lieve” di cui al comma 5 Art. 73 TU 309/90. Negare il legame qui in parola significa applicare una severità sanzionatoria eccessiva, che richiama molto gli orribili errori del Diritto Penale statunitense. Purtroppo, anche Cass., sez. pen. II, n. 38336/2016 si allinea a tale esegesi ipertrofica dell’Art. 86 TU 309/90, nel senso che “la lettera della norma è, al riguardo, inequivoca e fa riferimento ad uno dei reati previsti dagli Artt. 73, 74, 79 e 82 commi 2 e 3, tra cui è sicuramente ricompreso anche il fatto di lieve entità, non assumendo alcuna rilevanza la circostanza che tale fattispecie sia oggi ipotesi autonoma e non più ipotesi attenuata della norma in questione”. Di nuovo, chi commenta ritiene eccessivamente restrittiva e non proporzionata l’interpretazione strettamente letterale e chiusa di Cass., sez. pen. II, n. 38336/2016. In effetti, la “lieve entità” ex comma 5 Art. 73 TU 309/90 tramuta in “astratta” la pericolosità dei delitti pp. e pp. ex Artt. 73, 74, 79 e 82 commi 2 e 3 TU 309/90.
Maggiormente fedele al dovere ermeneutico della contestualizzazione concreta dell’Art. 133 CP si manifesta, nella Giurisprudenza di merito, Corte d’Appello di Perugia, n. 208 del 19 maggio 2022, poiché essa sostiene che “[in materia di spaccio di sostanze stupefacenti] il rinvenimento di una ridotta quantità di sostanza nella disponibilità del prevenuto consente di applicare la disposizione relativa alla lieve entità del fatto di cui al comma 5 Art. 73 TU 309/90, tuttavia l’inserimento in un contesto di spaccio organizzato e l’accertamento di numerosi episodi di cessione, unitamente alle modalità di vendita (utilizzando un’autovettura) consentono di rilevare la pericolosità del soggetto ed applicare la misura di sicurezza di espulsione dello straniero, nonché la sospensione della patente di guida”.
Come si può notare, Corte d’Appello di Perugia n. 208 del 19 maggio 2022 nega l’equipollenza tra “lieve entità/lieve pericolosità”, ma ciò, ex Art. 133 CP, dopo un’accurata analisi di tutte le circostanze e non in modo automatico. Il merito di Corte d’Appello di Perugia n. 208 del 19 maggio 2022 consta nell’aver correttamente e doverosamente adempiuto all’onere della “contestualizzazione”. Viceversa, nell’ambito dell’Art. 86 TU 309/90, gli automatismi irrigidiscono ultra vires la ratio della “pericolosità”, la quale deve rientrare in un contesto interpretativo fattuale ed afferente al singolo caso in esame. Lo straniero, anche in Consulta 58/1995, non è mai “ socialmente pericoloso” in quanto tale. Rimane, dunque, indispensabile applicare tutti i principi personali e materiali di cui all’Art. 133 c.p.
2. La ratio della “pericolosità sociale”.
La summenzionata regola della contestualizzazione è stata ribadita pure da Cass., sez. F, 35432/2013, in tanto in quanto “[dopo Consulta 58/1995], non sussistendo più una presunzione assoluta di pericolosità, la verifica circa la sussistenza della pericolosità sociale del condannato deve essere compiuta alla luce degli elementi indicati dall’Art. 133 CP ed essere assistita da adeguata motivazione”. Similmente, nell’interpretazione dell’Art. 86 TU 309/90, Cass., sez. pen. VI, n. 45468/2010 nega anch’essa la pericolosità “automatica” del cittadino straniero. Analoga è l’opinione di Cass., sez. pen. IV, n. 46759/2007, per la quale il non-italiano non può essere presunto come “socialmente pericoloso” senza un’ adeguata contestualizzazione della singola e specifica fattispecie processuale in esame.
Tale esigenza di una valutazione non astratta e non generica e generalizzante è espressa pure da Cass., sez. pen. IV, 4 luglio 2002, n. 35953, giacché “non sono sufficienti le connotazioni astratte del fatto e […] il giudice deve anche autonomamente proporsi il tema dell’applicazione o meno della misura di sicurezza [dell’espulsione] […]”. Sempre Cass., sez. pen. IV, 4 luglio 2002, n. 35953 afferma con vigore la necessità di applicare l’Art. 86 TU 309/90 alla luce “di tutte le circostanze del caso concreto […] le quali fanno ritenere sussistente [o meno] un particolare allarme sociale”. Dunque, pure Cass., sez. pen. IV, 4 luglio 2002, n. 35953 nega che l’infrattore straniero, ex Art. 86 TU 309/90, sia qualificabile tout court alla stregua di un soggetto da espellere in quanto socialmente pericoloso.
Assai problematica è la decisione sull’espulsione o la non espulsione di uno straniero che abbia optato per il patteggiamento. Di solito, ex comma 1 Art. 445 Cpp, è comunque espulso lo straniero che, in sede di patteggiamento, abbia riportato una pena detentiva superiore ai due anni di reclusione; tuttavia, anche in tal caso, l’estromissione dal territorio nazionale dev’essere valutata nell’ottica “fattualizzante” dell’Art. 133 CP.
Vi è poi anche la problematica della condanna aggravata dalla continuazione del reato. In tale evenienza, il limite dei due anni di reclusione va valutato sulla base della pena complessivamente inflitta, e non solo sulla base dell’aumento provocato dall’aggravante della continuità. Si not i pure che, nel patteggiamento, l’Art. 86 TU 309/90 dev’essere anch’esso oggetto di accordo tra le parti innanzi al Magistrato giudicante. Ecco, di nuovo, la necessità di “contestualizzare” sempre e comunque la misura di sicurezza dell’espulsione, la quale, dopo Consulta 58/1995, non è più soggetta all’automatismo originario di cui al comma 1 Art. 86 TU 309/90. Anzi, le Sezioni Unite giungono ad asserire che la mancata motivazione dell’espulsione dello straniero provoca l’ammissibilità del ricorso per cassazione. Più nel dettaglio, Cass., SS.UU., 26 settembre 2019, n. 21368, Ndoj dispone che “a seguito dell’introduzione della previsione di cui all’Art. 448 comma 2 bis Cpp [in tema di illegalità della misura di sicurezza] è ammissibile il ricorso per cassazione per vizio di motivazione contro la sentenza di applicazione della pena con riferimento alle misure di sicurezza, personali o patrimoniali, che non abbiano formato oggetto dell’accordo tra le parti […] Il giudice di merito, anche con la sentenza di patteggiamento, deve effettuare la verifica circa la sussistenza [o meno] dei relativi presupposti giustificativi, dando, a sostegno dell’adottata statuizione, la pertinente ed adeguata motivazione”.
Come si può notare, anche Cass., SS.UU., 26 settembre 2019, n. 21368, Ndoj richiede, per l’applicazione del comma 1 Art. 86 TU 309/90, una “pertinente ed adeguata motivazione”, dunque torna la ratio suprema dell’analisi accurata dell’intero contesto criminoso alla luce dell’Art. 133 CP; l’infrattore straniero, pertanto, non è soggetto ad alcuna presunzione di pericolosità sociale, giacché la misura di sicurezza dell’espulsione va motivata all’interno della singola e specifica vicenda da giudicare. Non motivare o non motivare adeguatamente, ex comma 2 bis Art. 448 Cpp, il provvedimento di espatrio forzato significa non “fattualizzare” l’episodio e, dunque, violare l’Art. 3 Cost., così come proibito da Corte Costituzionale 58/1995.
Da notare, in Cass., sez. pen. VI, 10 febbraio 2022, n. 8873, è che “in caso di omessa statuizione in ordine all’applicazione della misura di sicurezza [dell’espulsione] ex Art. 86 TU 309/90, il PM non può ricorrere per cassazione avverso la sentenza di condanna, emessa a seguito di giudizio ordinario, che abbia omesso di disporre l’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, sicché il ricorso va riqualificato come appello innanzi al tribunale di sorveglianza ai sensi dell’Art. 680 comma 2 Cpp”. Di parere diverso è Cass., sez. pen. III, 3 febbraio 2010, n. 7641, a parere della quale la sentenza che ha omesso di decidere circa l’espulsione o la non espulsione è ricorribile dal PM per cassazione e non appellabile innanzi al tribunale di sorveglianza. Ognimmodo, come si vede, è negata la natura automatica dell’espatrio forzato così come previsto dal comma 1 Art. 86 TU 309/90 prima dell’intervento di Consulta 58/1995.
Analogamente, la Giurisprudenza è controversa anche in tema di impugnabilità, da parte del PM, della sentenza, con vizio motivazionale circa l’espulsione, avanti alla cassazione oppure innanzi al tribunale di sorveglianza. A tal proposito, con Ordinanza n. 4332 dello 08/10/2021, la III Sezione ha rimesso gli Atti alle Sezioni Unite, al fine di chiarire se l’impugnazione, da parte del PM, di una sentenza, con rito abbreviato, che omette di disporre l’espulsione sia ricorribile per cassazione o appellabile avanti al tribunale di sorveglianza. Le Sezioni Unite, con Sentenza del 13 giugno 2022, hanno statuito che “la sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato che abbia omesso di statuire in ordine alla misura di sicurezza dell’espulsione [ex Art. 86 TU 309/90] non è appellabile dal PM al tribunale di sorveglianza ex Art. 680 Cpp, ma impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’Art. 608 Cpp”. Dunque, prevale l’urgenza di sanare, per cassazione, la motivazione insufficiente o del tutto omessa, in violazione dell’Art. 133 CP.
Da considerare è che, ex comma 2 n. 2 Art. 164 CP, non è concedibile la sospensione condizionale della pena qualora il giudice reputi prevalente la pericolosità sociale dello straniero condannato per i delitti pp. e pp. ex Artt. 73, 74, 79 e 82 commi 2 e 3 TU 309/90. Ovverosia, come recita il n. 2 comma 2 Art. 164 CP, “[la sospensione condizionale della pena] non può essere concessa […] allorché alla pena inflitta dev’essere aggiunta una misura di sicurezza personale, perché il reo è persona che la legge presume socialmente pericolosa”.
La sola mancanza, per il non-autoctono, di un regolare permesso di soggiorno non reca necessariamente alla presunzione della pericolosità sociale. Ovverosia, Cass., sez. pen. I, 26 giugno 2020, n. 23826 evidenzia che “il requisito della pericolosità non può trovare elemento sufficiente a fondare un giudizio di prognosi [criminologica] sfavorevole nella [sola] irregolare presenza in Italia per mancanza di un valido titolo di soggiorno; [ma] questa condizione può assumere una tale valenza solo qualora lo straniero, per effetto dello stato di irregolarità, versi nell’impossibilità di procurarsi lecitamente i mezzi di sussistenza, con conseguente rischio di determinarsi alla commissione di nuovi reati”. Come si nota, pure Cass., sez. pen. I, 26 giugno 2020, n. 23826 ribadisce, sempre nell’ottica democratico-sociale di Consulta 58/1995, la mancata equipollenza tra cittadino straniero e pericolosità sociale. Nuovamente, Cass., sez. pen. I, 26 giugno 2020, n. 23826 invita il Magistrato del merito a valutare la specifica condizione di vita dello spacciatore straniero. La Suprema Corte, sulla scia di Corte Costituzionale 58/1995, nega la presunzione di una maggiore criminogenesi in capo allo straniero, regolare o meno che egli sia. La contestualizzazione deve predominare sui pre-giudizi e su una nozione astratta di pericolosità penale.
Entro tale solco ermeneutico saldamente fondato sull’Art. 133 CP, la Suprema Corte ha inteso specificare che nemmeno l’eventuale “disagio familiare” è da reputarsi criminogeno ai fini della precettività del comma 1 Art. 86 TU 309/90.
In effetti, Cass., sez. pen. IV, 17 ottobre 2017, n. 52137 (ripresa da Cass., sez. pen. I, 13 gennaio 2022, n. 8767) ha precisato che “ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero ex Art. 86 TU 309/90 per l’avvenuta commissione di reati in materia di stupefacenti, è necessario non solo il previo accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale del condannato, in conformità all’Art. 8 CEDU in relazione all’Art. 117 Cost., ma anche l’esame comparativo della condizione familiare dell’imputato, ove ritualmente prospettata con gli altri criteri di valutazione indicati dall’Art. 133 CP, in una prospettiva di bilanciamento tra interesse generale alla sicurezza sociale ed interesse del singolo alla vita familiare”. Ecco, quindi, che Cass., sez. pen. IV, 17 ottobre 2017, n. 52137, nonché Cass., sez. pen. I, 13 gennaio 2022, n. 8767 invitano il Magistrato del merito ad un “bilanciamento” esegetico che non assolutizza, nell’Art. 133 CP, il solo requisito delle condizioni socio-familiari del reo straniero, il quale può essere dichiarato socialmente pericoloso per motivi oggettivamente riscontrabili e non per una presunzione legata alla cittadinanza non italiana.
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3. Il divieto di espulsione
Ex Art. 19 DLVO 286/1998, “in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”. Cass., sez. pen. I, 9 maggio 2017, n. 40529 recepisce appieno la ratio umanitaria suprema di cui all’Art. 19 DLVO 286/1998 e rimarca che “[tale] divieto di espulsione si applica a tutte le espulsioni giudiziali, ivi compresa quella dello straniero condannato per i reati in materia di sostanze stupefacenti”. Analogamente, Cass., sez. pen. IV, 25 novembre 2014, n. 50379 precisa che “l’espulsione dello straniero ex Art. 86 TU 309/90 è esclusa anche nel periodo di gravidanza della moglie convivente o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio […], in questo secondo caso indipendentemente dalla convivenza e dal rapporto di coniugio”. E’ più che evidente il nesso tra l’Art. 19 DLVO 286/1998 e gli Artt. 2 e 3 Cost. .
Le summenzionate regole in tema di divieto di espatrio risentono pure della tutela ex Art. 3 CEDU (divieto di tortura), ovverosia non si dà luogo all’espatrio forzato di cui all’Art. 86 TU 309/90, allorquando il condannato, nel Paese d’origine, rischi la pena di morte o trattamenti torturativi inumani o degradanti. A tal proposito, Cass., sez. pen. III, 19 marzo 2019, n. 19662 specifica che “[in tema di misure di sicurezza personali] non può trovare esecuzione il provvedimento di espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, disposto ai sensi dell’Art. 86 TU 309/90, qualora sussista il serio pericolo che il destinatario sia sottoposto, nel Paese d’origine, alla pena di morte, ovvero a trattamenti inumani o degradanti, senza che assuma rilievo, in tal caso, la valutazione relativa alla gravità del fatto [ex Art. 133 CP] ed alla pericolosità sociale del reo”. Come si può evidenziare, in Cass., sez. pen. III, 19 marzo 2019, n. 19662 vige la ratio di cui all’Art. 3 CEDU (“divieto della tortura: nessuno può essere sottoposto a torture, né a pene o trattamenti inumani o degradanti”).
Il riconoscimento della suddetta protezione umanitaria è immediato e non richiede successive istanze ad altro giudice. Infatti, Cass., sez. pen. I, 18 maggio 2017, n. 49242 dispone che “l’esistenza dei presupposti per la protezione sussidiaria, che paralizza l’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, è oggetto di accertamento incidentale da parte del giudice della misura […]. Il giudice della misura di sicurezza deve accertare, in via incidentale, la sussistenza dei presupposti che, alla stregua delle prospettazioni dell’interessato, potrebbero condurre al riconoscimento, in suo favore, della protezione sussidiaria, a nulla rilevando la possibilità, per il medesimo, di agire [in un secondo momento] in via ordinaria per ottenere il riconoscimento del diritto alla stessa”.
4.I casi di impugnabilità dell’espulsione ex Art. 86 TU 309/90
Cass., sez. pen. I, Ordinanza n. 43856 del 25 settembre 2019 prevede che “qualora sia disposta l’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato ex Art. 86 TU 309/90, egli può avanzare al magistrato di sorveglianza una richiesta di revoca. Avverso al decreto di inammissibilità della richiesta di revoca da parte del magistrato di sorveglianza, è invece ammissibile l’appello ai sensi dell’Art. 680 Cpp e non il ricorso per cassazione”.
Altrettanto basilare risulta pure Cass., sez. pen. III, 6 marzo 2012, n. 11599, a parere della quale “avverso alla sentenza di condanna di primo grado che dichiari la pericolosità sociale dell’imputato è previsto l’appello. [Ma] la mancata impugnazione [espressa] del capo relativo all’espulsione dal territorio dello Stato limita, però, la cognizione della corte d’appello”. Dunque, Cass., sez. pen. III, 6 marzo 2012, n. 11599 distingue il riguardo dell’ordine di espulsione da quello dell’accertamento motivato dalla pericolosità sociale. A parere di chi commenta, si tratta di una posizione formalisticamente rigida ed inadeguata, in tanto in quanto, ai fini dell’Art. 86 TU 309/90, l’antisocialità è prodromo inscindibile dell’espulsione.
In ogni caso, alla luce del comma 3 Art. 597 Cpp, la corte d’appello, se adita dal solo imputato, non può disporre per la prima volta il rimpatrio forzato, poiché si tratta di una reformatio in pejus codicisticamente vietata. In effetti, il comma 3 Art. 597 Cpp dispone che “quando appellante è il solo imputato, il giudice non può irrogare una pena più grave per specie o quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata, né revocare benefici […]”.
Quindi, il comma 3 Art. 597 Cpp esalta il favor rei anche nell’ambito dell’applicazione dell’Art. 86 TU 309/90. Analogo è il garantismo espresso da Cass., sez. pen. IV, 19 luglio 2018, n. 58242, ovverosia “nel caso di impugnazione proposta dal solo imputato, è illegittima, per violazione del divieto di reformatio in pejus, l’espulsione dello straniero disposta dal giudice d’appello ai sensi dell’Art. 86 TU 309/90. […] in quanto il giudice d’appello avrebbe dovuto considerare il disposto dell’Art. 597 comma 3 Cpp, il quale espressamente prevede che, quando appellante è il solo imputato, il giudice non può applicare una misura di sicurezza nuova [o più pesante] […]. Deve quindi affermarsi conclusivamente che il giudice d’appello non ha il potere di applicare d’ufficio la misura dell’espulsione dal territorio dello Stato dello straniero condannato per uno dei reati indicati nell’Art. 86 TU 309/90”.
Da citare è pure Cass., SS.UU., 26 settembre 2019, n. 21368, a norma della quale “la sentenza di patteggiamento che abbia applicato una misura di sicurezza è ricorribile per cassazione nei soli limiti di cui all’Art. 448 comma 2 bis Cpp, ove la misura sia stata oggetto dell’accordo tra le parti, diversamente essendo ricorribile per vizio di motivazione, ai sensi della disciplina generale prevista dall’Art. 606 c.p.p.”.
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