Nesso di causalità nel diritto civile

(A cura di: Dott.ssa Giorgia Pace e Dott.ssa Linda Salutari)
Approfondimento sul nesso di causalità nel diritto civile: giudizio di prevedibilità ex ante o ex post nella causalità materiale.


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Indice

1. Causalità materiale e causalità giuridica

Una completa indagine sul tema del nesso causale nel diritto civile non può che prendere le mosse da una prima significativa constatazione ermeneutica, quella per cui nulla di definito emerge dalle fonti legislative, penali e civili, sul tema della causalità.
Nell’ambito del diritto civile, infatti, non si riscontra all’interno del codice alcun riferimento al nesso eziologico tra la condotta lesiva e l’evento.
Secondo un orientamento ormai più che consolidato [1], gli articoli 1227 e 2043 del codice civile strutturano, rispettivamente, il rapporto tra fatto (doloso o colposo) ed evento (dannoso) in termini di “cagionare”, senza offrire ulteriori specificazioni, mentre l’art. 1223, richiamato dall’art. 2056, si riferisce al nesso di condizionamento che lega non tanto la condotta all’evento, ma l’evento/inadempimento ai danni, dei quali richiede, ai fini risarcitori, il necessario carattere di “conseguenza immediata e diretta”.
Dal tenore letterale delle disposizioni citate emerge con chiarezza che il nesso di causalità nel diritto civile non costituisce un concetto unitario, ma assume rilievo sotto due distinti profili: da una parte l’evento lesivo (causalità materiale) e dall’altra il danno risarcibile (causalità giuridica).
Ai fini della responsabilità civile, diversamente da quanto accade nell’ambito penalistico, ciò che viene imputato al responsabile non è il fatto-illecito in sé bensì il danno, pur essendo comunque necessaria la realizzazione di un “fatto” affinché la responsabilità possa sorgere.
Il nesso di causalità materiale svolge quindi la funzione di imputare al responsabile il fatto illecito, mentre la causalità giuridica ha la funzione di determinare e limitare l’ammontare del danno cagionato.
Stante la loro diversità, i giudizi di causalità materiale e causalità giuridica prevedono l’applicazione di differenti regole e principi per il loro accertamento.

2. Causalità materiale e richiamo ai principi penalistici

Preso atto della lacuna legislativa esistente nel diritto civile sul tema dell’accertamento del nesso di causalità, l’orientamento tradizionalmente seguito in giurisprudenza afferma che il referente normativo delle causalità materiale è fuori dal sistema del codice civile, collocandosi nei principi generali delineati negli artt. 40 e 41 c.p.
Ai fini della causalità materiale nell’ambito della responsabilità aquiliana un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo. Tale ricostruzione prende il nome di teoria della condicio sine qua non o teoria condizionalistica (art. 40 c.p.).
La riconduzione dell’evento ad una certa condotta opera, in base della teoria condizionalistica, attraverso la c.d. doppia formula: la condotta è da considerarsi causa dell’evento soltanto se, senza di essa, l’evento non si sarebbe verificato (formula positiva), mentre la stessa non è da ritenersi rilevante dal punto di vista causale se, anche senza di essa, l’evento si sarebbe comunque verificato (formula negativa).
Quando la produzione dell’evento dannoso è invece riferibile a più azioni od omissioni, in ossequio al principio dell’equivalenza delle cause – art. 41, comma 1 c.p. -, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale.
Ad ogni modo, prima di analizzare le modalità di temperamento dei principi penalistici occorre ricordare che, nonostante il richiamo ai suddetti principi, ciò che cambia nell’accertamento della causalità (materiale) dalla responsabilità civile a quella penale è il coefficiente probabilistico finale, ovvero il regime probatorio applicabile. Mentre, infatti, nel diritto penale vige la regola della prova oltre il ragionevole dubbio [2], stante la diversità dei valori in gioco nel processo tra accusa e difesa, nel diritto civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, non essendo qui in gioco la libertà personale ma trattandosi soltanto di allocare dei rischi e, dunque, di traslare delle perdite.
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3. I correttivi dei principi penalistici

Il rigore della teoria condizionalistica e del principio dell’equivalenza delle cause, trova un suo temperamento nel principio della regolarità causale di cui all’art 41, comma 2 c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, ove questa risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale in atto [3]. Di conseguenza, il potenziale danneggiante è responsabile dell’evento dannoso soltanto quando la sua condotta appaia la causa più probabile (che non) rispetto ai diversi possibili decorsi causali e risponderà allora soltanto delle conseguenze della propria condotta che non appaiano del tutto imprevedibili.
Ebbene, è proprio attorno al concetto di prevedibilità e dunque alle modalità di valutazione di detta prevedibilità obiettiva dell’evento rispetto ad una certa condotta/fatto, che si sono registrati i più significanti mutamenti nella giurisprudenza di legittimità.

4. Giudizio di prevedibilità: ex ante o ex post

Sulle modalità con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioè con valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex post, al momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si sono interrogate le stesse Sezioni Unite, giungendo alle prevalenti conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilità obiettiva deve compiersi ex ante, nel momento in cui la condotta è stata posta in essere, operandosi una “prognosi postuma”. Più precisamente, è necessario accertare se, al momento in cui è avvenuta l’azione (o omissione) era tutto imprevedibile che ne sarebbe potuta discendere una data conseguenza [4].
Il metro di valutazione da adottare non è quello della conoscenza dell’uomo medio ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento. In altri termini, ciò che rileva è che l’evento sia prevedibile non da parte dell’agente, ma (per così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità dell’evento. Al contrario, se l’accertamento della prevedibilità dell’evento ai fini della regolarità causale fosse effettuato ex post, il nesso causale sarebbe rimesso alla variabile del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il suo accertamento.
Proprio ricorrendo all’esame delle migliori conoscenze scientifiche le Sezioni Unite scongiurarono il rischio di una commistione tra l’elemento soggettivo e l’accertamento del nesso causale, i quali costituiscono due elementi fondamentali, ma al tempo stesso distinti della responsabilità civile.
La convinzione in merito alla valutazione ex ante della prevedibilità obiettiva muta drasticamente nella nota Sent. n. 17084/2017, in cui la Corte evidenzia che commisurando la prevedibilità al momento di compimento dell’azione (o omissione), pur nella versione astratta delle regole statistiche e/o scientifiche del momento, si rischia di riportare la causalità nell’alveo della colpa e di informare così la causalità ad un criterio che rinvia all’elemento soggettivo.
In realtà, la ricostruzione operata dalle Sezioni Unite entrò in crisi allorquando la giurisprudenza successiva si è trovata divisa sulla questione del momento da cui far decorrere la responsabilità del Ministero della salute per danni da emotrasfusioni infette.
Sul punto, occorre ricordare che una parte della giurisprudenza continuava a ravvisare detta responsabilità solo a partire dal 1978 (anno in cui il virus dell’epatite B fu definitivamente identificato in sede scientifica), in base alla prevedibilità in astratto fondata sulle migliori conoscenze scientifiche dell’epoca in cui la trasfusione avveniva, sull’assunto che prima del 1978 non fosse possibile imputare al Ministero l’illecito per assenza del nesso causale tra trasfusione infetta e patologia insorta.
Secondo un diverso orientamento [5], invece, in caso di patologie contratte a seguito di emotrasfusioni o di somministrazione di emoderivati, il rapporto eziologico tra la somministrazione del sangue infetto in ambiente sanitario e la specifica patologia insorta doveva essere apprezzato sulla base delle cognizioni scientifiche acquisite al tempo della valutazione, essendo ciò che rileva ai fini del giudizio sulla causalità materiale l’evento obiettivo dell’infezione e la sua derivazione probabilistica dalla trasfusione.
Nella sent. n. 17084/2017gli Ermellini, pur condividendo i principi di diritto enunciati dalle S.U. del 584/2008 (in particolare, il principio della regolarità causale), hanno diversamente ricostruito il giudizio di adeguatezza della condotta rispetto all’evento.
Secondo l’orientamento più recente, quindi, “il giudizio probabilistico, in quanto spiegazione di un processo causale, va formulato oggettivamente, tenendo conto delle uniformità sociali che sono oggetto del patrimonio di conoscenza umana al tempo in cui il giudizio viene reso e non con riferimento all’epoca dell’azione o omissione oggetto della valutazione[6].
Per liberare il giudizio di causalità da ogni legame con l’elemento soggettivo occorre, quindi, differenziare la causalità (naturale) dalla imputazione (giuridica): la prima, involge il collegamento naturalistico tra elementi, accertato sulla base delle conoscenze scientifiche o più semplicemente logiche; la seconda, corrisponde all’effetto giuridico che la norma collega ad un determinato comportamento o fatto sulla base di un criterio di valore.
La colpa, quale parametro della condotta, diversamente dall’accertamento del nesso eziologico, si colloca sul versante dell’imputazione.
Con l’intervento del 2017, quindi, la Corte ha voluto ricondurre l’inferenza probabilistica al piano puramente causalistico/naturalistico, superando così il criterio della prevedibilità ed il residuo soggettivistico della colpa che quel criterio portava con sé.
L’accertamento del più probabile deve insomma essere svolto ex post sulla base delle regole statistiche e/o scientifiche (o più semplicemente logiche) del tempo in cui viene formulato il giudizio, assumendo quindi il punto di vista dell’osservatore il quale ha il compito, oggettivo e neutrale, di accertare l’esistenza del nesso eziologico tra la condotta e l’evento.
Per concludere, ciò che deve accertarsi è l’oggettiva idoneità della condotta a determinare un evento, senza alcun riferimento alla c.d. prevedibilità soggettiva, la quale rileverà eventualmente, nell’analisi dell’elemento psicologico.

Note

  1. [1]

    L’inequivoca adesione della giurisprudenza alla tesi dicotomica del nesso causale è avvenuta nel 1971, con il noto caso MERONI in Cass. 26 gennaio 1971, n. 174. “E’ noto che, in tema di responsabilità civile, il problema della causalità si presenta sotto un duplice aspetto: il primo, che attiene al nesso causale fra la condotta del soggetto agente, a lui imputabile a titolo di dolo o di colpa, e l’evento (…); il secondo che, presupponendo integro in tutti i suoi aspetti lo schema ora delineato (condotta – nesso causale – evento), attiene alla derivazione causale del danno, di cui si pretende il risarcimento, dall’evento e che è considerato e disciplinato dall’art. 1223“.

  2. [2]

    S.U. Pen. 30328/2002, Franzese.

  3. [3]

    Cass. SS.UU. 584/2008. Cass. n. 27168/2006; Cass. n. 19297/2006.

  4. [4]

    Cass. SS.UU. 584/2008

  5. [5]

    Cass. n. 17084 del 2017

  6. [6]

    Cass. n. 17084/2017.

Giorgia Pace

Linda Salutari

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