La partecipazione in associazione mafiosa in caso di mera affiliazione rituale non seguita da altre condotte successive di militanza “attiva”.
Indice
1. La struttura dell’associazione mafiosa
Con la legge n. 646 del 1982[1] è stato introdotto nel codice penale l’art. 416 bis “Associazioni di tipo mafioso anche straniere”.
Elemento caratterizzante di tali associazioni è la “mafiosità”, attraverso la quale i componenti si avvalgono del cd. “metodo mafioso”, ovverosia della forza di intimidazione tipica del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento, nonché della condizione di omertà che deriva da quella appartenenza sul territorio di riferimento.
Mentre per l’associato di una associazione comune il compimento dei delitti costituisce il fine dell’associarsi, per l’associato “mafioso” l’attività delinquenziale rappresenta il mezzo per il perseguimento di un obiettivo più ambizioso, consistente nel controllo stabile di un segmento della vita sociale, onde garantirsi l’arricchimento parassitario.
Ebbene, appare necessario interrogarsi sul perimetro applicativo della norma rispetto ad una affiliazione rituale, tuttavia, non seguita da altre condotte di militanza “attiva”. Difatti, la norma si presta a rischi di dilatazione in sede applicativa a causa della sua estrema aderenza ad una realtà in continua evoluzione e per la sua connotazione efficacemente soggettiva, costruito sul metodo sul quale si rifanno gli aderenti al sodalizio.
Il rischio è quello di confondere l’apprezzamento degli elementi obiettivi di contrasto della condotta con i beni giuridici, valorizzando degli atteggiamenti esclusivamente soggettivi, facendo assumere alla norma i caratteri di una clausola generale che stigmatizza uno stile di vita.
Partendo dalla struttura dell’associazione di tipo mafioso, questa postula il requisito della organizzazione: dato imprescindibile è la esistenza di una struttura capace di perpetuarsi nel tempo in modo stabile e permanente, idonea a realizzare gli obiettivi criminosi delineati dalla norma oltre che “essere del tutto autonoma rispetto alla attività preparatoria ed esecutiva dei delitti fine”[2].
Proprio in relazione a tale profilo gli Ermellini hanno affermato che la prova del carattere mafioso di una consorteria può desumersi “anche dalla esistenza di una efficiente organizzazione”; pertanto, nelle ipotesi in cui si è al cospetto di una nuova consorteria, occorrerà individuare degli indici che denotino “la sussistenza delle caratteristiche di stabilità e di organizzazione e che dimostrino la reale capacità di intimidazione del vincolo associativo e la condizione di omertà e di assoggettamento che ne deriva.”[3]
L’associazione mafiosa richiede l’affermazione in una data territorialità e che sia riconosciuta dagli appartenenti a detta territorialità come tale: strumento di affermazione tipico è proprio la forza di intimidazione, che, oltre ad essere il requisito per così dire “naturale”, è anche requisito della fattispecie normativa.
Per forza di intimidazione deve intendersi la capacità della organizzazione di incutere timore, grazie anche alla opinione diffusa della sua forza e, soprattutto, della sua inclinazione ad usarla: è, hic et sempliciter, la quantità di paura che un soggetto appartenente alla associazione di cui si discorre è in grado di suscitare nei terzi in considerazione della sua predisposizione alla ritorsione. L’intimidazione è caratterizzata anche da aspetti di durata nel tempo, di sistematicità e di diffusività, differenziandosi in ciò dal timore ingenerato occasionalmente da una associazione di semplici estorsori; essa non esige necessariamente il concreto uso della forza fisica, ben potendo manifestarsi anche in atteggiamenti di minaccia implicita oppure del tutto allusiva, senza il necessario utilizzo di parole o gesti eccessivi.
Fondamentale appare analizzare la locuzione “si avvalgono”. Difatti, il verbo utilizzato dal legislatore è coniugato all’indicativo e ciò sta a significare che il partecipe di una organizzazione di tipo mafioso deve avvalersi (nel presente) della forza di intimidazione del vincolo associativo, elemento indispensabile ai fini dell’integrazione della fattispecie[4].
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2. La condotta di partecipazione in giurisprudenza (casistica)
Stabilire se un soggetto sia militante, colluso o rivesta una partecipazione non (più) attiva è materia di assoluto rilievo, dato che muta considerevolmente la fattispecie di reato.
Già nel 2015[5] la Suprema Corte ha affermato come, sul piano probatorio, la partecipazione ad un sodalizio debba essere desunta da indicatori fattuali, dai quali “possa logicamente inferirsi la appartenenza del soggetto al sodalizio, purché si tratti di indizi gravi e precisi […], oltre a molteplici e significativi facta concludentia, idonei senza alcun automatismo probatorio a dare la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo, con puntuale riferimento allo specifico lasso temporale considerato dall’imputazione”[6].
Pertanto, la condotta di partecipazione deve essere rinvenibile nell’atteggiamento di chi si trovi in rapporto di una stabile ed organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, idoneo a rilevare, non già uno status di appartenenza, quanto piuttosto un ruolo attivo in base al quale l’interessato decida di prendere parte al fenomeno associativo.
A simili conclusioni si giunge anche in riferimento alla “messa a disposizione”, indicata come la mera disponibilità deve essere “incondizionatamente rivolta al sodalizio e di natura ed ampiezza tale da dimostrare l’adesione permanente e volontaria ad esso per ogni fine illecito suo proprio”[7][8].
All’opposto, invece, è suscettibile di integrazione della fattispecie delittuosa ex art. 416 bis la condotta di colui il quale – pur essendo estraneo sia al giuramento che alla messa a disposizione – si occupi della latitanza del capo o promotore dell’ente, favorendo le comunicazioni tra questi e gli altri associati “fornendo un concreto contributo nella continuazione e dirigenza della medesima organizzazione”[9].
Allo stesso modo, integra la condotta di partecipazione ad una consorteria mafiosa il reato commesso da un soggetto che volontariamente ponga in essere “attività funzionali agli scopi del sodalizio ed apprezzabili come concreto e causale contributo all’esistenza e al rafforzamento dello stesso, a prescindere dai motivi che lo hanno determinato ad agire in tal modo”[10].
La giurisprudenza ha chiarito in più arresti che non è necessario un numero minimo di azioni affinché un soggetto possa ritenersi partecipe, in quanto “la partecipazione ad un solo reato fine integra partecipazione al sodalizio criminale”, considerato, però, che per il ruolo svolto e le modalità dell’azione “siano tali da evidenziare la sussistenza del vincolo”; quanto appena affermato può accadere, ad esempio, solo quando “detto ruolo non avrebbe potuto essere affidato a soggetti estranei, oppure quando l’autore del singolo reato impieghi mezzi e sistemi propri del sodalizio, in modo da evidenziare la sua possibilità di utilizzarli autonomamente e cioè come membro e non già come persona a cui il gruppo li ha posti occasionalmente a disposizione”[11].
Utile ripercorrere la casistica di riferimento anche in relazione alla prospettiva di una permanenza di breve durata ovvero di durata limitata: affinché si possa essere considerati soggetti partecipi ad un sodalizio non è necessario che il vincolo si instauri, infatti, in una prospettiva di permanenza a tempo indeterminato e per fini esclusivamente vantaggiosi per il sodalizio medesimo; può ben accadere che ad assumere rilievo possano essere anche forme di partecipazione “destinate, ab origine, ad una durata limitata nel tempo e caratterizzate da una finalità che” oltre a comprendere l’obiettivo vantaggio del sodalizio criminoso “comprenda anche il perseguimento, da parte del singolo, di vantaggi ulteriori, suoi personali, di qualsiasi natura, rispetto ai quali il vincolo associativo può assumere anche una funzione meramente strumentale”[12].
Pertanto, la condotta partecipativa sarà certamente integrata laddove il contributo si inserisca in una prospettiva durevole nel tempo, ma un accertamento rigoroso va fatto anche in relazione a quel contributo limitato nel tempo e che favorisca, al tempo stesso, i bisogni del suddetto singolo e della associazione referente.
3. L’affiliazione rituale e la giurisprudenza più recente
Nodo gordiano è rappresentato dalla definizione di condotta partecipativa che ha generato numerosi conflitti di interpretazione: la locuzione “chiunque fa parte”, infatti, ha dato origine a prassi applicative distorte e, soprattutto, non rispettose del principio di tipicità e di offensività, di talché la vaghezza descrittiva ha fatto sì che vi fosse – da parte dei giudici – una tendenza “a declinare la nozione di partecipazione in termini diversi a seconda del compendio disponibile”[13].
Nonostante il tentativo della giurisprudenza di legittimità di dare un’impostazione oggettiva alla eterogeneità degli indirizzi sui requisiti strutturali della partecipazione, residuavano ancora criticità da parte dei giudici di primo e secondo grado in punto di tipicità della condotta, fornendo – di fatto – interpretazioni troppo estensive dell’area di operatività dell’art. 416 bis in relazione alla condotta di partecipazione.
Le Sezioni Unite evidenziano due esigenze: da un lato, non lasciare impuniti reati di particolare allarme sociale e, dall’altro, il rispetto di tutti i principi di diritto del nostro ordinamento, in particolar modo quelli costituzionali penali.
La Corte analizza la tipicità, affermando – coerentemente con i principi dettati dalla Corte costituzionale[14] – come spetti al legislatore la individuazione sia delle condotte alle quali collegare una presunzione assoluta di pericolo, sia della soglia di pericolosità alla quale far riferimento.
La Corte si pone l’annosa questione della nozione di partecipazione in una associazione mafiosa, tendendo ad una cd. transizione del diritto penale: da uno di stampo soggettivo, diviene ad uno stampo, per così dire, più moderno, di tipo oggettivo e soprattutto più attento a quelli che sono i valori costituzionali: difatti, mentre in passato si dava rilevanza anche a quei soggetti che manifestavano una tendenza adesiva alla associazione mafiosa (restando sullo sfondo e considerato del tutto irrilevante un effettivo contributo alla stessa), oggi la affectio societatis, intesa quale volontà concreta ed effettiva di partecipare al sodalizio, assume rilevanza centrale e si attesta quale indispensabile per la soglia del penalmente rilevante.
Per quel che concerne l’esame relativo alla prova, al fine di non eludere quelle che sono le esigenze probatorie, gli Ermellini ritengono, che per essere ritenuto partecipe di un’associazione mafiosa, il soggetto debba aver realizzato “un contributo causale minimo e non insignificante alla vita della associazione”, e, pertanto, si deve dare un rilievo precipuo alla attuazione di atti empiricamente valutabili penalmente.
Tale affermazione resta comunque foriera di interpretazioni oscillanti o, quantomeno, inidonea ad una effettiva enucleazione del termine “partecipazione”. Sul punto si ricordi come la sentenza a Sezioni Unite n. 16/94 vennero individuati una serie di indici rilevatori, quali costitutivi di una incriminazione ex art. 416 bis: primo fra tutti, l’effettivo ingresso all’interno del sodalizio, al di là del rituale; il riconoscimento dell’associato da parte dei militanti come effettivo membro della consorteria; e nella adesione da parte del soggetto appena entrato alle regole della associazione medesima.
Già alla sentenza Demitry del 1994 – pietra miliare che traccia il confine tra la condotta associativa ed il concorso esterno[15] –, si attribuisce il merito alla giurisprudenza di aver identificato con maggiore accuratezza quelli che sono gli indici di una partecipazione in concreto punibile: in primo luogo, l’ingresso nella consorteria; in secondo luogo, il riconoscimento del neo entrante da parte degli altri militanti e, in ultimo, l’assunzione da parte del nuovo associato degli obblighi che permeano la organizzazione medesima (obbedienza, omertà, messa a disposizione, perseguimento dei reati-fine).
Con la sentenza Mannino[16] si raggiungerà un grado più alto nella valorizzazione della “proiezione fattuale dell’inserimento organico nel sodalizio”, attraverso i comportamenti concretamente assunti dal soggetto e che, necessari ai fini di una incriminazione ex art 416 bis, debbano essere atti di militanza associativa idonei al perseguimento dei reati-fine dell’organizzazione mafiosa. In tale arresto si afferma anche la necessità di indicatori fattuali e logici che debbano essere dimostrativi di una permanenza all’interno della consorteria, abbandonando, di tal guisa, la caratterizzazione statico-formale per passare ad una dimensione dinamico-funzionale dell’associazione medesima[17].
La sentenza Mannino, però, è stata sconfessata dalla giurisprudenza successiva, che è approdata, talvolta, a conclusioni diametralmente opposte.
Dirimenti sono, ancora una volta, le Sezioni Unite[18] che nel 2021 hanno chiarito se la mera affiliazione ad un’associazione mafiosa, effettuata secondo il rituale previsto dall’associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione. In particolare, i supremi giudici osservano come il tema principale dell’ordinanza di rimessione sia proprio la fissazione dei confini della stessa nozione di partecipazione e che il nodo gordiano di cui poc’anzi non fosse stato sciolto né dalla Demitry né dalla stessa Mannino, in quanto è la stessa fattispecie incriminatrice ad essere foriera di interpretazioni oscillanti, tale da essere espressiva di una “tipicità incompiuta”.
Il problema principale si pone in relazione al compendio probatorio, quando lo stesso non fornisce materiale sufficiente a comprovare l’apporto di un contributo causale alla organizzazione mafiosa, ma attesti unicamente il compimento di un rituale di affiliazione.
Ai fini della prova occorre, invece, che “senza alcun automatismo probatorio, vi sia la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo, nonché la duratura e apprezzabile messa a disposizione”.
La polemica cruciale ruota attorno alla considerazione che la giurisprudenza successiva alla Mannino non abbia fornito alla stessa una adeguata successione in termini di osservanza: infatti, gli elementi indicatori forniti dalla Mannino sono stati considerati dai giudici di primo e secondo grado non nel senso della materialità della prova quanto, piuttosto, valutati tra gli elementi della tipicità criminosa.
Conseguentemente, il solo giuramento di mafia veniva considerato quale testimonianza della avvenuta affiliazione e si traduceva quale elemento idoneo a ritenere il soggetto entrante come un membro permanente della consorteria.
Dopo il cd. “battesimo” del nuovo affiliato, questi diventava un “uomo d’onore” ed il giuramento comporta lo status di associato che lo impegnerà per la vita, data l’importanza della cerimonia.
In quanto reato a forma libera e avente natura di pericolo presunto, le decisioni della giurisprudenza si orienteranno – anche dopo la Mannino – in ordine al giuramento (anche solo in caso di giuramento) nell’ottica di una qualificazione di delitto di cui all’art. 416 bis.
Ed è proprio in questo contesto storico successivo alla sentenza n° 33748 del 2005 che le Sezioni Unite sono intervenute nuovamente nel 2021 per porre fine alla annosa questione circa la partecipazione in associazione mafiosa in caso di mera affiliazione rituale non seguita da altre condotte successive di militanza “attiva”.
Sul punto le Sezioni Unite hanno statuito come “In tema di associazioni di tipo mafioso, l’affiliazione rituale può costituire grave indizio della condotta partecipativa, ove la stessa risulti, sulla base di consolidate e comprovate massime d’esperienza e degli elementi di contesto che ne evidenzino serietà ed effettività, espressione di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione”[19].
È indubbio che il giuramento di mafia assuma un rilievo pregnante dal punto di vista valorale, in quanto simbolicamente proiettata ad una effettiva assunzione di un ruolo che al neo-entrante viene assegnato, ma da qui ad incriminare un fatto iniziale, non seguito da successive condotte di militanza attiva, passa un’intera gamma di principi costituzionali non suscettibili di compromissione da parte del diritto penale.
Punire a titolo di delitto ex art. 416 bis un giuramento – e solo il giuramento – configura una violazione sia del principio di effettività e di proporzione tra reato e sanzione, sia un allargamento della maglia partecipativa, che in questo caso è svincolata da qualsiasi successiva condotta contributiva del singolo, punendo, de facto, esclusivamente a titolo social-preventivo un fatto, inidoneo, di per sé, a concretizzarsi in un effettivo danno per la collettività.
È fondamentale, quindi, che il giudice utilizzi le massime di esperienza per valutare se il suddetto giuramento possa, nel caso concreto, assumere rilevanza penale ed esulare dalle generalizzazioni poste dal quisque de populo.
Esempio scolastico è la partecipazione di un soggetto in caso di contesti ambientali permeati da vincoli familiari: soprattutto laddove le consorterie sono (ancora) molto legate a quelli che sono i vincoli di parentela tra i vari militanti della stessa, al giudice spetta un compito forse ancor più arduo nel conferire o meno – attraverso la massima d’esperienza – una lettura punitiva del giuramento.
In questi casi è richiesta una maggiore attenzione probatoria da parte del titolare delle indagini, proprio per scongiurare che un soggetto – già vittima dello stesso legame parentale – possa essere nuovamente vittima, anche in sede processuale.
Per la Corte di legittimità, vi sarà una condotta partecipativa penalmente punibile ai sensi dell’art. 416 bis laddove la messa a disposizione non sia provata solo a seguito di un atto formale, bensì quando la stessa assuma quei caratteri di serietà, continuità e permanenza che si traduca in comportamenti fattuali, idonei a dimostrare in concreto l’adesione (libera e volontaria) ad una associazione mafiosa.
Inoltre, nella medesima sentenza, gli Ermellini affermano anche che “il comportamento elevato ad indice rivelatore del fatto punibile deve, pertanto, essere apprezzato nella sua oggettiva e concreta realtà e, in ogni caso, deve essere teso ad agevolare il perseguimento degli scopi associativi in modo riconoscibile e non puramente teorico, sì da potersi univocamente riconoscere ed interpretare come condotta indicativa dello stabile inserimento del soggetto nel gruppo”.
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Note
[1] LEGGE 13 settembre 1982, n. 646 “Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia”. Legge nota anche come Rognoni-La Torre, la quale dispone misure di contrasto e di prevenzione nei confronti della mafia.
[2] G. DE FRANCESCO, Societatis sceleris, tecniche repressive delle associazioni criminali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992.
[3] Sul punto: “l’accertamento sul radicamento del gruppo criminale nei luoghi in cui avrebbe operato e, soprattutto, la effettiva ed attuale capacità di intimidazione, cui dovrebbe fare riscontro la condizione di assoggettamento e di omertà da parte di chi entra in contatto con tale organizzazione, con i conseguenti condizionamenti anche economici. Ciò che caratterizza l’associazione di stampo mafioso è, infatti, l’avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo, cui consegue la condizione di assoggettamento ed omertà, in vista del programma finale dal contenuto eterogeneo, la cui realizzazione è possibile in forza di una presenza organizzativa di persone e di mezzi.” Cass. Pen., VI Sez., 1/03/2017 n° 27094.
[4] In senso difforme: R. BERTONI, Prime considerazioni sulla legge antimafia, in Cass. Pen., 1983, il quale ritiene “non indispensabile”, ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 416 bis “che i membri del sodalizio facciano uso concreto, con attività attualmente concludenti del potere intimidatorio di cui il sodalizio dispone”.
[5] Cass. pen., VI Sez., 2/10/2015, n. 39858.
[6] In senso conforme: Cass. pen., Sez. Un., 12/07/2005, n. 33748 del 12/07/2005; Sez. I, 11/12/2007 n. 1470.
[7] Cass. pen., I Sez., 4/06/2011, n° 2631, conf. Cass. pen., V Sez. 6/11/2015, n. 6882.
[8] La Cassazione a marzo 2024 ha confermato le precedenti posizioni assumendo che «la condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio
stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi». Cass. pen., Sez. II, 13/03/2024, n°13592.
[9] Cass. pen., VI Sez., 26 novembre 2009, n. 2533.
[10] Cass. pen., I Sez., 4/03/2010, n. 17206. Nel caso di specie, la messa a disposizione si è concretata in un occultamento di armi della cosca, in riferimento al quale la Corte ha negato che potesse essere esclusa la configurabilità della norma in esame per il solo fatto che l’imputato avesse agito in ragione di vincoli familiari con alcuni affiliati.
[11] Cass. pen., V Sez., 10/01/2017, n. 859, conf. Cass. pen., V Sez., 22/12/2014, n. 6446.
[12] Cass. pen., II Sez., 29/04/2011, n.16606, conf. sulla partecipazione di breve durata Cass. pen., I Sez., 18 marzo 2011, n. 31845.
[13] I. MERENDA e C. VISCONTI, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416 bis tra teoria e diritto vivente, in Dir. Pen. Cont, 24 gennaio 2019.
[14] Corte cost., 10-11/07/1991, n. 333.
[15] Le Sezioni Unite in tal sede affermarono che il concorrente esterno, ossia il soggetto che, pur non essendo inserito nella struttura del sodalizio, dà un contributo essenziale alla mafia, può essere colui che, nel momento di patologica fibrillazione dell’organismo associativo, ossia nel momento in cui la mafia sta morendo, ne garantisce la sopravvivenza.
[16] In estrema sintesi, le Sezioni Unite affermano che si ha concorso esterno in associazione mafiosa se il contributo del concorrente esterno non coincide con il semplice “mettersi a disposizione”, ma rappresenta un contributo causale effettivo, secondo il paradigma del “l’oltre ogni ragionevole dubbio”.
[17] All’interno della nota sentenza Mannino si troverà che il partecipe è colui che non solo è “inserito stabilmente ed organicamente all’interno dell’ente, ma che prende parte alla stessa”: pertanto, il neo entrante non deve solo contribuire causalmente al rafforzamento della associazione ma deve volere anche la realizzazione dell’intero programma criminoso.
[18] Cass. pen., Sez. Un., 11/10/2021, n. 36958. In senso conforme, Cass. pen., Sez. II, 13/01/2022, n°14697.
[19] Cass. pen., Sez. Uni., 11/10/2021, n. 36958. In motivazione, relativa a fattispecie inerente a misura cautelare personale, la Corte ha incluso, tra gli indici valutabili dal giudice, la qualità dell’adesione ed il tipo di percorso che l’ha preceduta, la dimostrata affidabilità criminale dell’affiliando, la serietà del contesto ambientale in cui la decisione è maturata, il rispetto delle forme rituali, con riferimento, tra l’altro, ai poteri di chi propone l’affiliando, di chi lo presenta e di chi officia il rito, la tipologia del reciproco impegno preso e la misura della disponibilità pretesa od offerta.
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