Abrogazione abuso d’ufficio: tutti assolti? L’effetto boomerang della sua abrogazione

Scarica PDF Stampa

Il presente contributo analizza gli effetti negativi della possibile abrogazione dell’abuso d’ufficio ponendoli in relazione alle problematiche riscontrate in ordine a tale fattispecie di reato (precisione, determinatezza, paura della firma) evidenziando gli errori interpretativi e la necessità della permanenza del medesimo.

Per approfondimenti si consiglia il seguente volume, il quale rappresenta un valido strumento operativo di ausilio per il Professionista: Formulario annotato del processo penale

Indice

1. Il rapporto tra l’abuso d’ufficio e il contrasto ai fenomeni corruttivi

La clausola di sussidiarietà che fa da incipit al delitto di abuso d’ufficio “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato…” ci consente di inquadrare la fattispecie nell’alveo delle disposizioni sentinella poste a presidiare fenomeni criminali ai danni della P.A., più complessi e più gravi come quelli collusivi e corruttivi. Al pari della più recente fattispecie del traffico di influenze illecite, il veterano abuso d’ufficio fu coniato, nella sua primissima versione e ne ha mantenuto i riflessi anche a seguito dei numerosi interventi modificativi, allo scopo di ridurre notevolmente la soglia della zona franca delle condotte illecite minori. La maggior parte delle fattispecie dedicate a punire gli illeciti connessi allo svolgimento dell’attività e delle funzioni tipiche della P.A. gravitano, infatti, intorno al grave fenomeno criminale della corruzione. I fenomeni corruttivi, come noto, hanno acquisito nel tempo una dimensione multipla, coinvolgendo tutti i settori della P.A. e risultano commessi per mano sia individuale, che dalle organizzazioni criminali. Per capire come la corruzione sia il mezzo più semplice ed efficiente per attaccare il sistema della P.A. e dirottarne mezzi e funzioni a fini estranei dal soddisfacimento degli interessi pubblici, si può immaginare la relazione tra i crimini contro la P.A. e le fattispecie poste a sua tutela come una piramide su tre livelli. Il vertice della piramide è rappresentato dalla gestione dei beni e dei servizi pubblici da una parte e “dalle corruzioni” dall’altra. Al massimo livello, infatti, il crimine è insito nel sistema pubblicistico sfruttandone a pieno le capacità. L’esempio classico è il tipo della corruzione politica dove, attraverso uno scambio di favori e promesse/dazione di denaro o altre utilità il corruttore è in grado di acquisire il controllo delle attività redditizie, appalti, ambiente/rifiuti ecc. La logica contrattualistica illecita permea tale livello e dove vi è incontro tra volontà e interessi, vi è anche maggiore difficoltà di intervento preventivo e repressivo. Al secondo livello, si collocano i favoritismi egoistici da una parte e i fenomeni collusivi dall’altra. Fattispecie come la concussione e il peculato ci indicano un ribaltamento delle posizioni, dove il ruolo del “cattivo” è ricoperto a tutti gli effetti dai pubblici ufficiali e dagli incaricati di pubblico servizio (per la definizione si rimanda agli artt. 357 e 358 c.p.) i quali, approfittando delle qualità e della funzione svolta, sviano le medesime per la realizzazione dei propri interessi o per gli interessi di persone ad essi vicine. Da ultimo, al primo livello, si colloca l’ufficio pubblico e con esso gli illeciti che non raggiungono la conformazione strutturale e la gravità dell’offesa tipica dei fenomeni collusivi e corruttivi. Ed è a questo livello che si colloca il tanto discusso abuso d’ufficio. Si badi bene, con la collocazione piramidale appena effettuata non si vuole affermare che tolto l’abuso d’ufficio il sistema penale non saprebbe come affrontare le condotte da questo punite, tutt’altro. Ciò che si verificherebbe, infatti, è come osservato da attenta dottrina, l’estensione dell’area della punibilità delle fattispecie più gravi a discapito, però, degli stessi intenti posti alla base delle numerose riforme avvenute nel tempo, su tutti il divieto di ingerenza della magistratura nell’attività della P.A. e la lotta alla burocrazia difensiva da una parte e la violazione del principio di offensività in relazione al principio della proporzionalità della pena dall’altra, entrambi espressi nella già citata clausola di sussidiarietà. Infatti, è lo stesso legislatore che ha permeato il sistema della tutela penalistica sulla base della gravità dell’offesa arrecata nella e alla P.A. e concludere per la sua abrogazione non rappresenta una scelta logica, razionale e utile per risolvere i problemi applicativi legati a tale fattispecie. Lo si è già accennato, venuto meno il reato di abuso d’ufficio non verrebbe meno l’area della punibilità delle condotte da questo punite, anzi, si assisterebbe ad una pericolosa estensione delle fattispecie presenti che puniscono i fenomeni collusivi e i fenomeni corruttivi in totale sfregio alla gradualità dell’offesa. E’ pur vero che, i dati statistici relativi ai procedimenti penali avviati e archiviati o conclusi con formule di proscioglimento/assoluzione, rilevano forti problematiche in ordine alla determinatezza della fattispecie da una parte e alle difficoltà probatorie dall’altra ma, procedere con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio non è, come si è detto, conveniente per nessuno, reo compreso.
Per approfondimenti si consiglia il seguente volume, il quale rappresenta un valido strumento operativo di ausilio per il Professionista:

FORMATO CARTACEO

Formulario Annotato del Processo Penale

Il presente formulario, aggiornato al D.Lgs. 19 marzo 2024, n. 31 (cd. correttivo Cartabia), rappresenta un valido strumento operativo di ausilio per l’Avvocato penalista, oltre che per i Giudici di pace o per gli aspiranti Avvocati, mettendo a loro disposizione tutti gli schemi degli atti difensivi contemplati dal codice di procedura penale, contestualizzati con il relativo quadro normativo di riferimento e corredati dalle più significative pronunce della Corte di Cassazione, oltre che dai più opportuni suggerimenti per una loro migliore redazione.La struttura del volume, divisa per sezioni seguendo sostanzialmente l’impianto del codice di procedura penale, consente la rapida individuazione degli atti correlati alle diverse fasi processuali: Giurisdizione e competenza – Giudice – Pubblico ministero – Parte civile – Responsabile civile – Civilmente obbligato – Persona offesa – Enti e associazioni – Difensore – Gli atti – Le notificazioni – Le prove – Misure cautelari personali – Riparazione per ingiusta detenzione – Misure cautelari reali – Arresto in flagranza e fermo – Indagini difensive e investigazioni difensive – Incidente probatorio – Chiusura delle indagini – Udienza preliminare – Procedimenti speciali – Giudizio – Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica – Appello – Ricorso per cassazione – Revisione – Riparazione per errore giudiziario – Esecuzione – Rapporti giurisdizionali con le autorità straniere.Specifiche sezioni, infine, sono state dedicate al Patrocinio a spese dello stato, alle Misure cautelari nei confronti degli enti (D.Lgs. n. 231 del 2001) ed al Processo penale davanti al Giudice di pace (D.Lgs. n. 274 del 2000).L’opera è corredata da un’utilissima appendice, contenente schemi riepilogativi e riferimenti normativi in grado di rendere maggiormente agevole l’attività del legale.Valerio de GioiaConsigliere della Corte di Appello di Roma.Paolo Emilio De SimoneMagistrato presso il Tribunale di Roma.

Valerio De Gioia, Paolo Emilio De Simone | Maggioli Editore 2024

2. Evoluzione normativa e analisi della fattispecie

Lo sviluppo normo-giurisprudenziale avvenuto in relazione alla fattispecie dell’abuso d’ufficio, può dirsi incentrato nel tentativo di risolvere sia, problemi di tecnica legislativa e quindi orbitanti sull’aspetto strutturale della fattispecie, sia problemi di applicazione tipicamente processuale in ordine alle difficoltà operanti a livello probatorio. Le due problematiche, in realtà, corrispondono alle due facce della stessa medaglia, essendo, infatti, la seconda strettamente dipendente dalla prima. Tale difficoltà strutturale è legata maggiormente alla particolare natura dell’abuso d’ufficio che, senza variare nel tempo, rientra nella tipologia delle c.d. norme in bianco. Invero, nonostante il precetto, fatta eccezione per la prima versione della norma che puniva, non solo nel titolo, ma come elemento costitutivo l’abuso d’ufficio (art. 175 del Codice Zanardelli) ripresa dal primo intervento normativo in modifica della legge n.86 del 1990 e per la prima versione del Codice Rocco dove elemento costitutivo era anche qualsiasi fatto non preveduto come reato, palesando un notevole deficit di precisione e determinatezza, tanto da indurre gli interpreti a denominare il reato con il termine abuso d’ufficio innominato, sulla stessa scia del noto disastro innominato, sia descritto con sufficiente chiarezza e specificità, comunque non si riesce a collocare una relazione diretta ed univoca tra quanto da esso disciplinato/punito e una definita condotta materiale in concreto. E’ noto, infatti, che l’area dell’attività e dell’organizzazione della P.A. sia molto ampia, tale per cui non sempre si può e in molti casi risulta addirittura controproducente, pretendere una relazione di tal tipo. E’, piuttosto l’interprete che deve necessariamente conoscere l’ambito operativo della P.A. e valutare il precetto calato nello specifico caso concreto. Ma, proprio l’attività interpretativa della giurisprudenza ha costituito e continua a costituire il grande fiume in piena da arginare il più possibile, al fine di non travalicare la separazione dei poteri ed evitare, quindi, l’ingerenza della magistratura nelle prerogative della P.A. Espressione di tale ratio, è la modifica intervenuta con la legge n. 234 del 1997 che ha ridisegnato la struttura della fattispecie: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di  pubblico sevizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di  regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o  negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale  ovvero arreca ad altri un danno ingiusto…”. Un tentativo quello della legge del 97’ che si è dimostrato troppo presto evanescente. Infatti, le problematiche riscontrate prima della suddetta riforma non hanno trovato riscontro positivo. Un difetto di determinatezza che sembra aver marchiato per sempre tale fattispecie. Invero, se si pensa al fatto che gran parte dell’organizzazione e dell’attività amministrativa sia normata attraverso il ricorso al regolamento (perché maggiormente capace di adattarsi all’evoluzione), si capisce bene che l’operatività della fattispecie sia ad ampissimo raggio. La consapevolezza di tale deficit, ha portato in epoca pandemica (da Covid) ad una nuova riforma, improntata, proprio, al restringimento dell’area della punibilità. Nel momento emergenziale, infatti, il timore del divagare dell’astensionismo (c.d. paura della firma) in un contesto di fibrillazione generale, ha portato il legislatore ad intervenire a tutela del “dipendente pubblico”, onde evitare sul nascere il pericolo di un tracollo anche burocratico. Con il d.l. 76\2020 l’art. 323 così recita: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità”. A seguito dell’ultima modica, nulla è cambiato in merito alla seconda modalità di condotta: l’omessa astensione in presenza di un proprio interesse ecc. La modifica ha riguardato esclusivamente lo stesso nucleo precettivo che dai tempi della sua introduzione è stato sottoposto a critiche e continue riforme. In merito, come affermato dalla Corte di Cass. Sent. N. 23794 del 2022, la modifica, comportando un restringimento dell’area della punibilità ha realizzato una parziale abolitio criminis di tutte le condotte precedenti che siano consistite in violazione di legge e regolamenti. Infatti, nella nuova formulazione sparisce del tutto il riferimento all’area della regolamentazione, sparisce del tutto il riferimento all’area della discrezionalità e si riduce di molto l’area del rispetto della legge, dal momento che la fattispecie si intende realizzata solo in violazione di norme specifiche di condotta che siano espressamente previste dalla legge o dagli atti ad essa equiparati (decreti legge e decreti legislativi). Ne consegue che, contrariamente a quanto affermato da gran parte della dottrina e da alcuna giurisprudenza, i principi costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità non possano più rientrare nell’area di ciò che è punibile. Infatti, si deve fare attenzione al senso letterale delle parole e il precetto si riferisce a specifiche regole di condotta espressamente previste. Ne consegue che non è la legge a dover essere specifica ma, la regola di condotta. Inoltre, la specifica regola di condotta deve essere prevista dalla legge o da un atto ad essa equiparato in maniera espressa, senza alcun margine di elasticità o generalità (espressamente). E’ noto a tutti che buon andamento e imparzialità siano dei principi valvola e portanti dell’agere pubblicistico ma, allo stesso tempo, essi rappresentano l’emblema della generalità, tanto da richiedere di essere specificati di volta in volta, sia attraverso la normazione primaria, che secondaria, sia attraverso l’interpretazione giurisprudenziale. Ne consegue che, con tale riforma, il legislatore ha riservato a se medesimo il potere di intervenire sull’area della punibilità anche in via interpretativa non ammettendo alcuna forma di estensione.
Ma che fine ha fatto l’area della discrezionalità? Le maggiori criticità della nuova riforma si possono individuare proprio con riferimento all’espressa esclusione della discrezionalità dall’area della punibilità. Invero, è opinione diffusa, che proprio l’esercizio del potere discrezionale sia l’occasione più ghiotta per commettere illeciti penali. Ad avviso di chi scrive, questa opinione pecca di automatismo ingiustificato. Orbene, l’area del potere discrezionale indica esclusivamente una possibilità di scelta tra più scelte ritenute equivalenti sulla base delle puntuazioni effettuate a monte dalla legge. Nel momento in cui la P.A. abbia effettuato la scelta, l’area funzionale del potere discrezionale si esaurisce. Ne consegue che, una volta che la P.A. abbia fatto esercizio del potere discrezionale in concreto, non residuano più margini di discrezionalità, tanto è dimostrato che la stessa dovrà procedere secondo le regole proprie del procedimento amministrativo, secondo le regole proprie organizzative ecc. ecc. Pertanto, quell’inciso, specifiche regole di condotta previste dalla legge dalle quali non residuano margini di discrezionalità non è riferito al tipo di potere esercitato dalla P.A. e quindi non rileva ai fini punitivi solo l’esercizio del potere vincolato. Quel riferimento andrebbe, invece, collegato alle specifiche regole di condotta tale per cui il precetto deve essere inteso nel senso che le regole di condotta rilevanti sono solo quelle specifiche, dirette, univoche, che non ammettono, in sostanza, alcuna interpretazione estensiva. Solo tale chiave di lettura si presenta coerente con il bilanciamento degli interessi posto a base dell’ultima modifica intervenuta. Tale fattispecie, lo si vuole ribadire, si colloca nel fuoco dei fenomeni collusivi e corruttivi fungendo da perimetro basico nell’area della progressione criminosa che vede all’apice le fattispecie corruttive. La lotta alla corruzione è in continuo fermento non solo sul fronte italiano ma, anche sul versante europeista e internazionale. Ridurre l’area del penalmente rilevante, infatti, non è l’obbiettivo della riforma. L’abrogazione parziale che si è verificata, infatti, costituisce solo un effetto secondario della concretizzazione dell’obiettivo che si intendeva raggiungere, la lotta alla burocrazia difensiva da una parte, il difetto di determinatezza dall’altra. Entrambi gli obiettivi nulla hanno a che vedere né, con l’esercizio del potere discrezionale, né con l’iper-protezione del personale pubblico (pubblici ufficiali, incaricati di pubblico servizio).

3. Conclusione: motivi per la non abrogazione

L’espandersi del fenomeno della c.d. paura della firma, quasi a ricordare le problematiche riscontrate nell’ambito delle condotte penalmente rilevanti in campo medico (c.d. medicina difensiva) trae la sua linfa dal, già discusso, problema del difetto di determinatezza della fattispecie. Invero, ad avviso di chi scrive sul punto si confonde il requisito della precisione con quello della determinatezza. Infatti, quest’ultimo attiene alla capacità della norma astratta di regolare la fattispecie in concreto e in sostanza si traduce nella possibile configurazione materiale del tipo disciplinato. La precisione, invece, attiene al momento della creazione della norma afferendo alla capacità della stessa di definire chiaramente il tipo. La paura della firma è generata da un presunto difetto di precisione il quale, deriverebbe dalla poca chiarezza del tipo normato che a sua volta genererebbe incertezza. Il difetto di determinatezza, invece, opera in un secondo momento, in fase di verifica della coincidenza tra la fattispecie realizzata in concreto e quella tipizzata in astratto, risultando connesso alla fase della “prova”. Orbene, è l’incertezza dell’area della punibilità la sola a poter provocare la fuga dalla firma ed è su questo aspetto che ci si deve concentrare. Come noto, il legislatore dispone di due tipi di tecniche di normazione, la c.d. fattispecie causalmente orientata o a condotta libera e la fattispecie a condotta vincolata. Esempio classico del primo tipo è il reato di omicidio ove, al fine di garantire la più ampia tutela possibile del bene giuridico vita, il tipo legale ruota intorno all’evento morte, risultando indifferente la condotta tenuta dal soggetto agente. Tale per cui, rileva penalmente ogni condotta che abbia determinato l’evento. Quando, invece, si vuole restringere l’area della punibilità si fa uso del secondo tipo, descrivendo le modalità di realizzazione del tipo, ponendo maggiore attenzione sul momento della condotta es. Truffa. Orbene, l’abuso d’ufficio rientra nei reati a condotta vincolata in quanto viene specificato come può essere realizzata la fattispecie e quel come corrisponde alle modalità penalmente rilevanti. Come si è già detto (punto2) l’ultima riforma ha inciso fortemente su tale aspetto eliminando dal focus della tipicità, l’area della regolamentazione, l’area della discrezionalità e l’area del precetto legislativo generico sollevando perplessità in punto di determinatezza. Infatti, è solo a seguito di tale riforma che si può ragionare in termini di difficoltà applicative proprio perché l’area della punibilità si è ristretta in modo considerevole, svuotando la fattispecie delle ipotesi maggiormente ricorrenti: regolamentazione e potere discrezionale. Parlando della paura della firma però, bisogna affrontare le questioni sollevate dapprima tenendo in considerazione tale fenomeno. Sul punto, si può ragionevolmente concludere che, a seguito dell’ultima riforma attuata non ha più senso pratico evocare la paura della firma proprio in ragione del restringimento dell’area delle modalità di condotta penalmente rilevanti e della chiarezza e precisione garantite dalle specifiche regole di condotta. Sul presupposto che qualunque soggetto operante nella pubblica amministrazione sia tenuto quanto meno a conoscere e a rispettare le regole di condotta, a maggior ragione quelle connesse alla funzione esercitata, non si rinvengono margini per giustificare la fuga dalla firma, stante il rispetto della legalità come requisito connaturato alla qualifica ricoperta e alla funzione esercitata, tale per cui chi agisce nel suo rispetto nulla ha da temere e di converso teme solo chi sa e vuole agire contra legem. Non solo, se si riflette sulla ratio del reato di abuso d’ufficio ci si rende conto che il focus è rappresentato dalla disfunzionalità del potere. In altre parole, ciò che rileva non la semplice violazione delle specifiche regole di condotta previste dalla legge dalle quali non residuino margini di discrezionalità ma, il fine perseguito in violazione di quest’ultime. In sostanza, per abuso d’ufficio si intende lo sviamento della funzione esercitata dalla realizzazione del pubblico interesse alla realizzazione di interessi privatistici. Tale assunto è perfettamente evincibile dall’analisi del secondo comma dell’art. 323 c.p. ove si punisce espressamente l’agire nell’interesse proprio o di un prossimo congiunto ma, è allo stesso modo connesso anche al primo comma tale per cui rileva il vantaggio ingiusto o il danno ingiusto per entrambe le condotte alternative. Ed è in tal senso che rileva in modo particolare l’area del potere discrezionale. Tra le figure sintomatiche ricostruite dalla giurisprudenza con l’intento di definire il contenuto dell’abuso del potere discrezionale rileva lo sviamento del potere pubblico. A ben osservare è solo tale figura ad essere attratta nell’orbita dell’abuso d’ufficio proprio in ragione dello sviamento della funzione pubblica dall’interesse pubblico. Pertanto, ciò che rileva non è l’area della discrezionalità in se ma solo quella nicchia della medesima in cui si può agire sviando l’esercizio del potere dalla realizzazione dell’interesse pubblico. Ne consegue che, quando il legislatore faccia riferimento all’inciso “dalle quali non residuino margini di discrezionalità intende riferirsi all’area della scelta. Infatti, non vi è l’esclusione del potere discrezionale tout court ma, una perimetrazione dello stesso. In altre parole, benchè le norme specifiche di condotta regolano l’intero potere della P.A., sia esso vincolato o discrezionale, le stesse rilevano in relazione all’abuso d’ufficio solo ove siano dirette e specifiche tale da non lasciare spazio applicativo a colui che agisce e che quindi deve rispettarle mentre sta agendo. Allo stesso tempo, ben può rilevare l’esercizio del potere discrezionale in quanto la discrezionalità è un requisito che deve risultare assente nelle stesse specifiche regole di condotta e non all’oggetto delle medesime. Orbene, una volta che il soggetto agente abbia effettuato la scelta a monte, comunque dovrà realizzare tale scelta nel perseguimento dello specifico interesse pubblico per cui il potere discrezionale è attribuito e comunque rileva il solo sviamento del potere discrezionale per realizzare fini egoistici. In altri termini, dal momento che il potere discrezionale è tale perché la legge lascia libera la P.A. nella scelta della modalità in cui realizzare l’interesse pubblico ma è comunque vincolata ad uno specifico fine pubblico a monte prestabilito, il soggetto agente ha davanti a due possibilità: o agisce perseguendo lo specifico interesse pubblico prestabilito a monte con l’esclusione del penalmente rilevante oppure persegue esclusivamente o correlativamente l’interesse proprio o di un proprio congiunto con attrazione del comportamento nell’orbita dell’abuso d’ufficio. In tale secondo caso poi sarà necessario accertare che ne sia derivato un ingiusto vantaggio patrimoniale per il soggetto agente o si sia prodotto un danno ingiusto nei confronti della P.A. nell’ottica della realizzazione della funzione pubblica e quindi del perseguimento dell’interesse pubblico. Per concludere sul punto, l’errore interpretativo è insito nello scindere il primo comma dal secondo comma della norma. Se, invece, il primo comma si legge in continuità e in funzione del secondo comma non dovrebbero sorgere particolari problemi ermeneutici in punto di precisione e determinatezza. Nello specifico, l’interesse proprio o del prossimo congiunto non è legato solo alla violazione dell’obbligo di astensione in presenza degli stessi al fine di garantire il perseguimento dell’interesse pubblico scevro da condizionamenti egoistici ma, anche con riferimento alle modalità descritte nel primo comma con la specificazione del necessario vantaggio patrimoniale o danno ingiusti.
Scardinati i dubbi sulla precisione e sulla determinatezza, superata la paura della firma, chiarito il pericolo dell’estensione dell’area punitiva delle altre fattispecie più gravi abolire l’abuso d’ufficio è, ad avviso di chi scrive, allo stesso tempo un grave smacco alla lotta alla corruzione e una spada di Damocle per i dipendenti pubblici.

Francesca Fuscaldo

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento