Medico e paziente: dal paternalismo al modello liberale, un rapporto che cambia

Redazione 19/07/24
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L’accettazione del consenso quale elemento imprescindibile del rapporto di cura è il riflesso d’uno spostamento di visuale che, nell’ambito del rapporto medico-paziente ha portato alla configurazione di un nuovo c.d. modello personalistico in luogo di quello c.d. paternalistico: il modo di intendere il tipo di interazione tra medico curante e paziente malato, infatti, è cambiato in maniera sostanziale soltanto recentemente. Il presente articolo è un estratto dal volume Manuale pratico operativo della responsabilità medica -Aggiornato al decreto attuativo della Legge Gelli

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Il cambiamento del rapporto medico-paziente


Prima d’oggi, alla luce della ristretta interpretazione dell’art. 32 Cost., si riconosceva senza alcun dubbio la sostanziale posizione di superiorità e supremazia del medico rispetto al suo assistito. Si riteneva che quest’ultimo, ignorante in materia, fosse privo delle conoscenze tecnico-scientifiche proprie dell’attività chirurgica; e che, quindi, dovesse essere necessariamente assoggettato al volere dello specialista. Il suo coinvolgimento nella fase decisoria era un coinvolgimento evidentemente minimo; lo si considerava soltanto quale oggetto d’un momento di cura. Il paziente si ritrovava ad accettare acriticamente e con rassegnazione le decisioni del medico, così subiva le scelte terapeutiche e gli esiti negativi da queste ultime valutazioni eventualmente scaturenti. Illuminante, a questo proposito, la definizione di Parodi e Nizza, che guardano al paziente di questo modello come ad un soggetto passivo del rapporto obbligatorio, un soggetto oggettivamente inferiore, un individuo che attende le cure e la guarigione come elargizioni di un generoso e miracoloso beneficio, “suddito fedele che esegue quanto ordinato dal medico” (Prodomo). La medicina veniva ritenuta arte e scienza: essa, come tale, rappresentava la massima espressione della libertà intellettuale, prima ancora che professionale: il suo esercizio e i suoi esiti difficilmente potevano essere messi in discussione. Il medico, in ossequio al più pregnante principio ippocratico, rappresentava il sacerdote del corpo, si poneva quale mago della guarigione nei confronti del malato e svolgeva una funzione parentale.
Oggi, invece, si assiste ad una vera e propria emancipazione del paziente e si riconosce una maggiore autonomia al singolo malato le cui libere scelte vengono legittimate nell’ambito d’un rapporto terapeutico paritetico ed equiparato: la figura del sanitario risulta essere fondamentale ai fini della cura, ma non anche ai fini delle scelte che la presuppongono. D’altra parte, “nelle disposizioni costituzionali non v’è traccia alcuna di una concezione paternalistica, così com’essa mai si rinviene nella interpretazione corrente delle stesse; non si è mai configurata una limitazione dell’autonomia dei soggetti, salvo i casi di incapacità, in funzione della realizzazione degli interessi dei soggetti medesimi” (Gemma). Perché allora dovrebbe verificarsi in quest’ambito, quindi, tale limitazione, se mai come in altri campi, proprio in quello medico, l’interesse del singolo a farsi curare diviene predominante e non assolutamente intaccabile, né condizionabile?
In questo senso, il medico deve coinvolgere il paziente in tutte le decisioni che riguardino la cura del suo stato fisico e psichico, non potendo assolutamente prescindere dalla sua volontà di scelta. Il medico ha quindi l’obbligo di fornire informazioni dettagliate e tale adempimento è strettamente strumentale a rendere consapevole il paziente della natura dell’intervento medico e/o chirurgico, della sua portata e della sua estensione, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative.
Oggi, nella “relazione medico-paziente si fronteggiano due centri di valutazione e di decisione degli interventi da porre in atto nella gestione della malattia” (Borsellino): il paziente è cosciente dei propri diritti; ad esso viene riconosciuta, a pieno titolo, la dignità di soggetto capace di autodeterminarsi e di decidere in merito agli interventi diagnostici e terapeutici sulla sua persona proposti dai sanitari; egli, in definitiva, affidandosi ad un medico, lo costituirà sì garante della propria salute, ma non certo signore assoluto di essa. La responsabilità ultima di scegliere se sottoporsi ad un determinato intervento, infatti, dovrà necessariamente gravare, in questo senso, sull’interessato.
Si tratta del modello qualificabile come “liberale”, incentrato sul principio di autonomia, al quale è sottesa la convinzione che la volontà degli individui adulti e capaci non possa essere compressa o annullata nemmeno quando il fine che ci si propone è quello di fare il loro bene; esso mette definitivamente da parte la generale presunzione d’incapacità del malato sottesa al modello paternalistico, affermando che alla volontà del malato non potrà in genere sostituirsi la volontà di altri soggetti.
Il ruolo del paziente “tende a diventare sempre più attivo, nella dinamica comunicativa col terapeuta, perché solo al paziente spetta formulare quelle indicazioni concrete (di carattere economico, familiare, più in generale esistenziale) che, integrandosi con quelle strettamente scientifiche elaborate dal medico, consentono di giungere, partendo da un astratto ventaglio di opzioni (tutte di principio plausibili e legittime), ad una scelta concreta di trattamento” (D’Agostino, Palazzani).
Chiaramente, come specificato dalla legge n. 219/2017, cit., il paziente, sebbene emancipato, non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali.
È opportuno precisare che, ai sensi della legge n. 219/2017, cit., contribuiscono alla relazione di cura, in base alle rispettive competenze, gli esercenti una professione sanitaria che compongono l’équipe sanitaria.
Sempre ai sensi della stessa legge, nella suddetta relazione sono coinvolti, poi, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo.

Volume fonte dell’articolo


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